Il chicco acre della melagrana

Intervista a LETIZIA LEONARDI a cura di MANUEL DE SIO ♦

Finalista al Concorso Letterario “Un mare di Libri” con il libro “Il chicco acre della melagrana”, una storia vera di un figlio della diaspora armena, un racconto forte che ci catapulta in una pagina di storia ignorata da molti. Lei come si è accostata a questa tematica?

È stato per caso. Fino al 2007 del popolo armeno non conoscevo nulla. Un primo pomeriggio estivo ho acceso la televisione e su Rai 1 stava iniziando un film: “Quella strada chiamata Paradiso”. Una pellicola che racconta la storia vera della famiglia del regista armeno Henri Verneuil (il vero nome era Achot Malakian) scampata al genocidio armeno e costretta a emigrare a Marsiglia. Sono stata colpita dalla sensibilità, dai buoni sentimenti e dall’unità familiare dei protagonisti. Ma soprattutto sono rimasta sorpresa dal fatto che un massacro di tale entità fosse passato sotto silenzio, nella totale indifferenza del mondo. Ho sentito come un dovere morale porre fine a questa ingiustizia. Ho iniziato con la traduzione del libro autobiografico “Mayrig” di Henri Verneuil, dal quale era stato tratto il film e che è stato pubblicato nel 2015, anno del centenario del genocidio armeno. “Il chicco acre della melagrana” è stata la mia seconda pubblicazione, nel 2018, scritta con il protagonista Kevork Orfalian.

Il protagonista Kevork Orfalian ha avuto una vita rocambolesca, a tratti persino divertente ma anche di una drammaticità unica, come il periodo della sua carcerazione in Turchia, accusato di essere un terrorista armeno. Come è riuscita a descrivere quei momenti tragici e raccapriccianti delle torture subite dal protagonista?

Non è stato facile scrivere quelle pagine dolorose. Kevork Orfalian anche dopo tanti anni aveva tutto impresso nella sua memoria e il solo raccontare ciò che aveva visto e subito gli provocava ancora profondo dolore. Si scrivevano poche pagine alla volta, poi Kevork doveva fermarsi perché stava fisicamente e psicologicamente molto male. Certi traumi segnano per tutta la vita. Sono poi riuscita a immedesimarmi nella situazione che mi ha permesso di tradurre anche gli stati d’animo del protagonista. Ciò può avvenire solo se si scrive qualcosa che ci appassiona, che ci prende e ci emoziona.

Com’è scrivere un libro a 4 mani?

 In realtà ci siamo un po’ divisi i compiti. Orfalian ha fatto un’opera di ricerca nei meandri della sua memoria perché il racconto inizia con la storia dei suoi avi, nella martoriata terra d’Armenia, che hanno subito i massacri hamidiani della fine del 1800 e poi l’efferato genocidio durante la prima guerra mondiale compiuto dai Giovani Turchi. Abbiamo percorso la storia della sua infanzia, adolescenza ed età adulta. Lui raccontava e io scrivevo cercando di interpretare anche la parte emozionale che è importante anche per far capire gli stati d’animo e il carattere del protagonista della storia. Quello che scrivevo, dopo aver ascoltato i suoi racconti, lo rileggevamo insieme e ci siamo sempre trovati d’accordo.

“Il chicco acre della melagrana” è, quindi, un’opera biografica ma è anche un romanzo. Quanto spazio ha lasciato all’invenzione e quanto alla cronaca rigorosa dei fatti nel corso della narrazione?

All’invenzione quasi niente anche perché si affrontano pagine di storia  abbastanza tragica e la vita di Kevork Orfalian è stata già molto particolare, rocambolesca  quindi non è stato necessario inserire molti elementi di fantasia. Tra l’altro il protagonista ha una memoria ferrea, forse perché ha avuto un’esistenza che lo ha profondamente segnato. Solo alcuni nomi sono stati omessi per garantire la privacy degli interessati ma, con un po’ di intuizione, chi legge, può tranquillamente risalire al nome delle persone note coinvolte nelle vicende raccontate.

Può accennare a un episodio del libro che l’ha particolarmente divertita e a uno che l’ha invece profondamente toccata?

Direi tutti gli episodi del periodo dell’adolescenza ma c’è quello dei primi passi nel mondo del lavoro di Kevork Orfalian: quando aveva fatto pendere un’altalena da un albero nella zona dei fori imperiali a Roma e si faceva pagare dai turisti per una foto mentre si sollazzavano là dove, gli diceva, si era dondolato Giulio Cesare. Quello che mi ha profondamente toccata è stata tutta la parte della prigionia in Turchia, pagine piene di orrori per la crudeltà subita dal protagonista

Dopo “Il chicco acre della melagrana” come è proseguita la sua attività rivolta alla causa armena?

A parte i libri che scrivo, svolgo anche un’attività divulgativa facendo conferenze in giro per l’Italia per far conoscere la storia di questo antico e glorioso popolo, attraverso video e foto originali. In Italia non sono molti a conoscere questa pagina del primo genocidio del XX secolo, alcuni confondono addirittura gli armeni con i rumeni. Approfitto della presentazione dei miei libri per raccontare l’Armenia, anche nelle scuole. Ed è una soddisfazione quando gli insegnanti mi chiamano o mi scrivono per dirmi che i ragazzi rimangono colpiti e coinvolti, tanto da decidere di portare il genocidio armeno come argomento d’esame di maturità. Dopo “Mayrig” (ripubblicato dalla Casa editrice Terra Santa con il titolo “Le Bugatti di Marsiglia”) e “Il chicco acre della melagrana” ho pubblicato, con le edizioni Paoline, un’altra traduzione: “Nella Notte” di Inga Nalbandian. Una serie di episodi, realmente accaduti all’ospedale armeno di Costantinopoli durante il periodo della prima guerra mondiale. Un racconto in diretta sul genocidio armeno. Adesso sono in procinto di terminare una particolare biografia di un personaggio molto caro al popolo armeno, questa volta l’autrice sono solo io.

Ha alternato pubblicazioni di traduzioni e libri dei quali è autrice. Perché questa scelta?

Perché ritengo che le traduzioni siano strumenti fondamentali per la diffusione di un messaggio, che altrimenti resterebbe circoscritto alla fruizione dei soli lettori in lingua originale. Tradurre un testo significa ampliarne il bacino di utenza, rendendolo accessibile anche a lettori di lingue diverse da quella originale. Il passaggio di un testo dalla lingua di origine a quella di destinazione si porta dietro, quindi, un compito importante: quello di portare a conoscenza di un pubblico di lettori lontano da quello iniziale alcuni temi, argomenti e storie, innescando così un processo di amplificazione che non è solo doveroso ma anche naturale in una società, come la nostra, globalizzata a livello socio-culturale. Nel caso di fenomeni storici come il genocidio armeno, su cui è caduta negli anni passati una cappa di oblio in tutto il mondo occidentale, l’opera dei traduttori nel proporre in altre lingue resoconti di questa tragedia, aiuta a svegliare dal letargo molte coscienze.

Il genocidio armeno è stato riconosciuto quasi da tutto il mondo ma non è stato riconosciuto dalla Turchia, che ha compiuto questo massacro. A livello istituzionale a che punto siamo con il riconoscimento del genocidio armeno in Italia?

Diciamo che dal 2015, anno della commemorazione del centenario di questa grande tragedia, un po’ più di coscienza e conoscenza su questa pagina nera della storia, gli italiani e le istituzioni nazionali la stanno avendo. Sul fronte dei riconoscimenti nel corso di questi anni, sempre più Enti Locali e Consigli Regionali hanno riconosciuto il genocidio armeno incrementando notevolmente il numero di quelli avvenuti negli anni precedenti al centenario. Segno quindi che la sensibilità verso questa immane tragedia è sempre più palese ma purtroppo ancora il Parlamento italiano non ha approvato una legge che riconosce il genocidio armeno. Per ben due volte (nel 2000 e nel 2019) il provvedimento è passato alla Camera ma non è arrivato al Senato. Una cosa abbastanza imbarazzante per un Paese civile che ogni 27 gennaio commemora la Giornata della Memoria e che dice: “Mai più genocidi”. Vergognoso è anche il silenzio sulla questione degli armeni del Nagorno Karabakh che stanno rischiando un altro genocidio ad opera dell’Azerbaijan che, da trent’anni, non intende riconoscere l’indipendenza dell’enclave armena.

MANUEL DE SIO