POPULISTI SENZA POPOLO

di NICOLA PORRO ♦

Giusto un anno fa ho pubblicato una ricerca sul fenomeno populista in Italia (La rete e la ruspa, Homeless 2018). Ogni volta che ho avuto l’opportunità di presentarla, la discussione si è prevedibilmente concentrata soprattutto su due aspetti. Il primo, l’anomalia di un grande Paese come l’Italia governato all’epoca da due movimenti di ispirazione populista (Lega e Movimento cinquestelle). Il secondo, l’incerta configurazione politico-culturale di uno dei due, il M5S, che avrebbe dovuto rappresentare – per consistenza elettorale e impatto comunicativo – il partito leader di quella maggioranza. La politologia non è una scienza esatta e l’arte divinatoria non appartiene ai metodi della ricerca: infatti le opinioni e le previsioni si differenziarono, riflettendo sensibilità e rappresentazioni non omogenee. Vi era chi identificava nelle insorgenze populiste il sintomo inquietante di un declino della stessa democrazia rappresentativa e chi propendeva per una visione meno pessimistica. Fenomeni come il Movimento 5 stelle, in particolare, potevano persino costituire, secondo alcuni, non una patologia del sistema ma uno choc salutare per ridare vigore alle sue istituzioni e alla stessa arena politica.

In un Paese come l’Italia, il cui panorama elettorale è passato in un ventennio da una sorta di immobilità geologica a un frenetico dinamismo, di cose ne sono successe non poche in un solo anno. L’asse populista si è spezzato e si è costituito, per la gioia della sinistra governista e non solo dei tifosi romanisti, un governo giallo-rosso. Esecutivo guidato dallo stesso leader di prima: un accademico non parlamentare, che era stato chiamato a “garantire” la convergenza giallo-verde (accostamento cromatico che evoca la Guardia di Finanza, ma non mi pare proprio il caso di scomodarla). Confesso qualche difficoltà definitoria: pare che in omaggio al bizantinismo lessicale grillino l’attuale coalizione non vada chiamata alleanza mentre, per rispettare la sintassi Pd, non va declassata a contratto. Si tratta in ogni caso di un’esperienza di governo – personalmente avevo a suo tempo condiviso la necessità di darle vita – che a me pare condannata a un rapido esaurimento.

Credo vada però tentata una riflessione panoramica sul profilo che in questo anno è venuto assumendo il Movimento cinquestelle, il solo attore politico presente in entrambe le esperienze governative succedutesi fra il marzo 2018 e la fine del 2019:.

Il riepilogo contenuto nella grafica (figura 1) mostra con evidenza il dimezzamento dei voti cinquestelle in occasione delle Europee del maggio 2019 ad appena un anno dal voto politico del marzo 2018. Mostra anche come nessuna ipotesi di coalizione fra partiti europei apparentati in vista della costituzione di un possibile governo europeo, comprenda oggi né la Lega di Salvini né il M5S.  L’Italia ha così giocato, e continua a giocare, la sua partita sovranazionale gravata da un doppio deficit di legittimità. Da un lato il partito leader di governo non è considerato affidabile per i partner europei, malgrado qualche acrobazia di pura convenienza, come il voto grillino a favore della candidatura di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione UE. Dall’altro, il variegato fronte populista italiano appare totalmente isolato in termini di alleanze.  I cinquestelle non appartengono a nessuna famiglia politica europea e, dopo aver flirtato con i gilet gialli, sono oggi a bussare niente meno che alla porta del detestato Macron. La Lega di Salvini dialoga solo con forze sovraniste e nazionaliste ideologicamente avverse al progetto comunitario.

In nota all’immagine [da Repubblicadel 29 maggio 2019],

Ho l’impressione che la pantomima scatenata in queste settimane a proposito del cosiddetto Mes da leghisti e cinquestelle – in nessun altro Paese la questione ha neppur lontanamente sollevato il polverone scatenato in Italia dall’offensiva congiunta dei due populismi – rifletta esemplarmente questa situazione di isolamento e incomunicabilità. I populisti nostrani non hanno la minima idea di cosa parlino ma entrambi, dal governo o dall’opposizione, sembrano decisi a utilizzare una questione obiettivamente complicata e densa di tecnicismi, le cui finalità sono però limpide e difficilmente contestabili, in una pura logica di bottega. Per alimentare campagne antieuropeiste Salvini, soprattutto mentre si va sgonfiando la montatura sulla vicenda di Bibbiano condotta per mese con impudente cinismo dai leghisti (ma, a onor del vero,  dallo stesso Giggino). Per puntellare una leadership traballante l’evanescente ministro degli esteri ancora alla guida del M5S. Con il ritorno in campo di Alessandro Di Battista, è il Dibba a dettare l’agenda a un Giggino costretto a inseguirlo sul terreno scivoloso dell’antieuropeismo e dell’insofferenza per il Pd, temendo altrimenti di fornirgli le munizioni per dare il colpo di grazia al suo ruolo di “capo politico”.

Quello della leadership, comprese le dinamiche relazionali che vi presiedono, è del resto un problema cruciale. Vale non solo per il Movimento ma per tutte le forze chiamate a passare dallo “stato nascente” – quello in cui si tratta di posizionare il proprio “sogno” nel mercato elettorale – alla fase di istituzionalizzazione, in cui si tratta di tradurre il sogno in una difficile, faticosa, spesso ingrata e poco scintillante prassi istituzionale. Solo raramente, infatti, il passaggio da movimento a istituzione si produce in assenza di autentici leader carismatici. Ruolo davvero fuori portata per il povero Giggino, le cui principali energie sembrano essersi consumate nell’accaparramento di incarichi, sì da regalargli a 33 anni un curriculum secondo solo a quello maturato alla stessa età da Nostro Signore.

Il Movimento 5 stelle ha consumato in fretta, nell’esperienza concreta di governo, l’aureola radicale e innovativa delle origini.

Non pare tuttavia aver realizzato la transizione a un riformismo a vocazione istituzionale. Forza di maggioranza relativa in Parlamento, si è cimentato in un solo anno con due differenti coalizioni senza riuscire a garantire efficacia e continuità all’azione di governo né con la destra né con la sinistra.

Oltre a conquistare poltrone in numero sufficiente a soddisfare la bulimia del “capo politico”, il nulla. Ciò conferma una preoccupante difficoltà a misurarsi con lo stress imposto alle democrazie contemporanee da dinamiche epocali come la globalizzazione e la rivoluzione digitale. Problematiche niente affatto astruse e distanti, perché è dalle nostre risposte alle loro sfide che dipende il futuro del Paese. A condizione di mettere in campo un progetto di vasto respiro e abbastanza condiviso da costituire una visione e alimentare speranze e mobilitazione. Altro che giochetti propagandistici, trombonate a uso social o dispettucci fra partner di governo!

I nuovi populismi hanno non di rado intercettato e legittimamente segnalato aspetti parziali dei mutamenti sociali con cui ci stiamo misurando. Secondo alcuni sociologi essi rappresenterebbe soprattutto la rivolta dei ceti medi timorosi di declassamento sociale. Da qui il risentimento contro le vere o presunte élite, la “casta” (ovvero quelli che, a nostro parere, immeritatamente ci sovrasterebbero) e il rancore verso chi sta sotto (i diseredati, i migranti: tutti quelli che nel rozzo immaginario delle destre populiste minaccerebbero i nostri privilegi). In Italia questa due narrazioni sono state interpretate rispettivamente dal M5S e dalla Lega. Non è irrilevante che esse abbiamo trovato ascolto una nel Sud meno fortunato e l’altro nel Nord più economicamente favorito. Le ragioni del qualunquismo e quelle dell’egoismo sociale hanno facilmente individuato i target elettorali che potevano cavalcare entro questi due vasti e compositi contenitori sociali. Entrambi i populismi, inoltre, si sono concentrati più su questioni “fotogeniche” e di facile impatto comunicativo che su tematiche ispirate a un’idea coerente e solidale di società. Abdicando alla funzione più nobile della politica, si sono accontentati di produrre un ceto di governo che è rapidamente naufragato nel mare della complessità.

La questione della leadership, intesa non solo come tattica di acquisizione del potere – qui Giggino potrebbe impartire lezioni a Talleyrand, Churchill e Roosevelt –, ma come servizio per la collettività e risorsa per il cambiamento, è assolutamente nevralgica. A riprova c’è il profilo stesso degli eletti cinquestelle: personaggi che risultano spesso quasi sconosciuti ai residenti nei loro collegi elettorali a tutti i livelli. Catapultati a incarichi di prestigio grazie alle misteriose alchimie di una piattaforma digitale gestita da un’azienda privata, danno vita a un altro paradosso: si deve solo all’eroica difesa delle loro poltrone la precaria sopravvivenza di una legislatura infelice.

Davvero viviamo in tempi oscuri, diceva il poeta. Forse il gramsciano ottimismo della volontà non basta più a compensare il pessimismo della ragione. Alla fine della fiera, non sarà meglio restituire la parola al popolo sovrano? Potrebbe servire a uscire dall’impasse in cui ci stiamo avvitando. O, quanto meno, a smascherare un bluff.

NICOLA PORRO