La sfida populista: consenso, leadership, potere

di NICOLA R. PORRO

Umbria. Riflessioni sul voto di ottobre

Le regionali in Umbria rappresentavano il primo banco di prova per il cosiddetto governo giallo-rosso. Appuntamento da non sottovalutare: si sperimentava una coalizione inedita fra forze che in quella regione si erano combattute con asprezza ed era in gioco un equilibrio di potere locale in vigore da decenni. Il risultato non va tuttavia enfatizzato oltre il dovuto: il voto interessava meno del 2% dell’elettorato italiano. Una coalizione improvvisata metteva in campo un candidato reclutato all’ultimo minuto utile. Era obiettivamente difficile contrastare una destra in cerca di rivincita e impegnata sul campo da mesi. Trovo perciò suggestiva ma forzata l’interpretazione del voto fornita da Ernesto Galli della Loggia (“Il senso di un voto”, Corriere della sera del 29 ottobre 2019). A suo parere saremmo in presenza di un evento di portata storica che segnerebbe la vera data di morte della Prima repubblica. Nel 1994, sostiene Galli, Berlusconi si limitò a promettere una palingenesi del sistema politico. Mancò invece qualsiasi cambiamento del ceto politico, pur dopo un successo elettorale costruito declinando – già  in chiave populistica – il (ri)sentimento di massa prodotto da Tangentopoli. Il governo risultò composto in larga parte da reduci della vecchia guardia o da tecnocrati in forza all’establishment aziendale del capo. Un’operazione di mera occupazione del potere che niente aveva a che fare con la costruzione di un’egemonia politico-culturale paragonabile a quella esercitata nei primi cinquant’anni della storia repubblicana dalla Dc e dal suo ceto politico.

Galli ritiene che il voto umbro del 27 marzo abbia archiviato per sempre proprio Forza Italia, ridotta a un piccolo bastione a tutela degli interessi aziendali del padrone e perciò necessariamente alleata del vincitore di turno. Ma in Umbria si sarebbe consumato anche lo schema che legittimava le due possibili varianti delle intese fra cattolici e post-comunisti. Da un lato quella ispirata a significati ideali e valori solidaristici condivisibili dalle due culture di massa dell’Italia repubblicana. Dall’altro, quella motivata da più prosaiche e non sempre nobili logiche di spartizione del potere locale. Secondo Galli, infine, l’eccellente risultato di Fratelli d’Italia segnalerebbe la consunzione nell’immaginario pubblico di quella “pregiudiziale antifascista” che aveva sempre perimetrato l’offerta politica nelle regioni di tradizione progressista. 

La sconfitta della coalizione di governo annuncerebbe, perciò, una stagione del tutto nuova. Una Lega realmente nazionale, libera dalla gabbia localistica, sarebbe ora in grado di candidarsi a occupare il ruolo di una nuova Dc federando la destra dura e pura di FdI e una Forza Italia miniaturizzata. Non rinunciando a un’interlocuzione con il neocentrismo renziano.

 Analisi a tinte forti, che esige una lettura meno frettolosa dei dati elettorali, come quella proposta da Roberto D’Alimonte (“Umbria: per i 5s emorragia di voti verso il centrodestra”, Il Sole 24ore del 29 ottobre).

Il Pd lascia sul campo tredici punti percentuali rispetto alle regionali del 2015 passando dal 35,8% al 22,3% ma ha ceduto poco o niente rispetto alle Europee di qualche mese fa e alle Politiche del 2018. La Lega passa dal 14% del 2015 al 37% di oggi, ma cede qualcosa rispetto al recente voto europeo. Fratelli d’Italia, invece, raggiunge un inatteso 10,4% quasi doppiando il disastroso risultato Forza Italia (5,5%).

Il tracollo 5s va indagato con attenzione. Il voto regionale non è il terreno preferito del Movimento, ma in Umbria esso aveva conquistato quattro anni fa 51.203 voti (14,6%), diventati 140.731 (27,5%) alle politiche del 2018. Il 27 marzo i 5s non sono andati oltre un modestissimo 7,4% (30.953 voti). Dove sono andati a finire i centomila voti persi in appena un anno? Il CISE (Centro studi elettorali della Luiss) ha prodotto in tempo reale un’analisi dei flussi, limitato alla sola città di Perugia ma comunque illuminante, riportato nella tabella 1.

nicola umbria

Regionali in Umbria (2019). Analisi dei flussi nella città di Perugia. 
(fonte Cise Luiss, Il Sole 24ore del 29.10.2019).

Nella sostanza: il Pd mantiene quasi inalterata la sua forza rispetto alle politiche 2018, ma non riesce ad attrarre voti di diversa provenienza. Quanto ai 5s, fatti pari a 100 gli elettori alle politiche 2018, ben il 39% questa volta si sarebbe astenuto. Il 14% avrebbe votato Lega, il 9% avrebbe scelto Fdi e solo il 12% avrebbe confermato il voto 5s. Un vero terremoto, tanto più in presenza di un’inattesa crescita della partecipazione al voto. 

La battaglia fra i due campi contrapposti conosce insomma nella destra a trazione leghista un vincitore certo e netto: a un esame ravvicinato si osserva come Salvini intercetti due terzi dei voti andati alla sua coalizione. Anche il Pd, tuttavia, raccoglie oltre il 60% di quelli guadagnati dalla coalizione di centrosinistra e 5s. I due campi possiedono così un baricentro nitido, rispondendo al modello che Sartori chiamava della “coalizione polarizzata”. Non è un aspetto trascurabile, se lo si mette in relazione al collasso 5s in una regione dove il Movimento si era intestato una veemente campagna contro le amministrazioni a guida Pd. 

La malinconica photo opportunity di Narni riflette infatti puntualmente l’imbarazzo di entrambe le forze nel presentarsi insieme al voto regionale. Il partito di Zingaretti, mescolando generosità, pragmatismo e un pizzico di opportunismo, è stato al gioco.  È del resto una forza che costituisce da anni il bersaglio privilegiato delle offensive dei due populismi nazionali. Campagne che hanno messo in luce reali criticità e talvolta responsabilità del ceto politico locale del Pd. Altrettanto spesso, tuttavia, quella che si scatena contro il Pd è l’insofferenza verso l’unica forza organizzata sopravvissuta al tramonto del vecchio sistema politico nazionale. La spaventosa bagarre allestita sulla controversa vicenda di Bibbiano è un esempio da manuale di un deliberato incanaglimento della lotta politica. Mentre si dimentica disinvoltamente la storia non sempre gloriosa della ex Lega Nord, che rappresenta al momento il più vecchio partito presente in Parlamento, e le oscure e non disinteressate frequentazione internazionali dei nuovi leghisti.  Il voto umbro, inoltre, dovrebbe insegnare ai 5s come campagne di pura delegittimazione, se prive di una strategia e di una visione che vadano oltre la denuncia, possano generare effetti perversi. I 5s hanno lavorato per il re di Prussia e il loro risultato rivela tutta la fragilità di una forza esposta ai volatili umori di un’opinione pubblica non più presidiata dai vecchi partiti di insediamento territoriale. In un panorama di coalizioni polarizzate non è immaginabile né che il Movimento al 7% ritorni alla vocazione maggioritaria delle origini né che possa ancora seriamente aspirare al ruolo di perno del sistema politico nazionale. 

Trasformatosi da movimento di pura protesta in forza di governo, il Movimento perde voti tanto quando è al governo alleato con la Lega quanto in alleanza con il Pd. Ciò conferma limiti segnalati dagli analisti in tempi non sospetti. Pesa la modesta qualità del suo gruppo dirigente e l’inadeguatezza di un leader dalla lingua sciolta e dalle smisurate ambizioni ma privo del carisma, della visione e dello spessore culturale adeguati a soddisfare le aspettative generate dalle strategie comunicative che ne hanno costruito l’immagine. Galli ricorda in proposito il precedente quasi dimenticato del movimento dell’Uomo Qualunque, promosso dal commediografo Guglielmo Giannini, che nel secondo dopoguerra dissolse nell’arco di pochissimi anni un vasto patrimonio di consensi. Era stato a Roma nel 1946 il secondo partito davanti alla Dc con il 20,7% dei voti e avere ottenuto fra il 15 e il 20% nel Sud, risultando prima forza a Palermo, Messina e Lecce. Già alle politiche del 1948, incapace di una narrazione alternativa a quella dei rinati partiti di massa che non si limitasse alla denuncia e all’invettiva, fu cancellato in un giorno dalla scena politica nazionale.

Qualche osservatore, come fa Massimo Franco sul Corriere della Sera, intravede una incipiente implosione dei 5s che farebbe emergere due distinte polarità. La prima, quella riconoscibile in Giggino e accreditata dal voto umbro, in cui la diaspora cinquestelle si è certamente indirizzata assai più alle destre che alla sinistra, si identificherebbe in un movimento neo-qualunquista, più in sintonia con i temi e le sensibilità della destra ma non necessariamente destinato a una rapida obsolescenza. La seconda (Conte) si riconoscerebbe in una prospettiva interclassista di ispirazione post-democristiana con venature di cattolicesimo sociale che faciliterebbero l’intesa con l’area Pd. Ipotesi entrambe non ancora suffragate dai fatti ma che sono di per se stesse sufficienti a smentire un caposaldo della narrazione cinquestelle, che descrive un Movimento “né di destra né di sinistra”. Vero è piuttosto che in esso convivono pulsioni diverse, tenute insieme da un sentiment anti-politico (il giustizialismo, la critica a priori della forma partito, la mitologia della democrazia diretta, un europeismo poco convinto) che sono state cavalcate a turno sia dalle sinistre massimaliste sia dalle destre sovraniste. Grave è perciò che dieci anni di protagonismo 5s non abbiano prodotto quel minimo di costruzione ideale e culturale che, senza scomodare le tesi gramsciane sull’egemonia, rimane indispensabile per dare senso e continuità a un progetto politico. Il quale non più essere gemmato spontaneamente da logiche al negativo (non essere “né di destra né di sinistra”…).

Un quadro inquietante – lo sottolinea Lina Palmerini (“Il governo ostaggio del declino a 5 stelle”, Il Sole 24ore del 29 ottobre) – se solo si pensa che questo volatile partito anti-partito occupa nelle istituzioni della settima potenza mondiale non solo la Presidenza del Consiglio ma ministeri strategici come Esteri, Giustizia, Istruzione, Sviluppo economico e Lavoro. La Legge di bilancio costituirà perciò un passaggio cruciale soprattutto per i 5s, costretti come ogni forza di governo ad assumersi la responsabilità di scelte impopolari. Quella che in ogni caso sembra in via di esaurimento è la storia del Movimento come si era costruita a partire dal 2013. Il contratto con Salvini, prima, e ora il patto di governo con il centrosinistra hanno prodotto effetti disastrosi. Non bastano a spiegarlo la fragilità e la scarsa qualità dei leader. Persiste purtroppo un retroterra anti-politico alla lunga incompatibile con la pratica di governo. Tanto più che non sembra pagare il tentativo di spacciare per misure epocali provvedimenti estemporanei e spesso discutibili. È il caso del bislacco taglio del numero dei parlamentari, condivisibile in sé ma inutile e forse dannoso se non sostenuto da un coraggioso e organico aggiornamento delle istituzioni rappresentative.  Uno scalpo da agitare, estorto a un Pd acquiescente, per un evento che non ha emozionato nessuno. Analogamente la minestra riscaldata della “democrazia diretta” – anch’essa intrisa di umori anti-parlamentari -, affidata alla piattaforma Rousseau e alle cure della Casaleggio, ha stancato presto e si è rivelata per quello che è: un gioco di prestigio non del tutto trasparente. Nemmeno il reddito di cittadinanza, che doveva abolire la povertà per decreto –  e sproporzionatamente costoso rispetto alla sua reale efficacia reale – sembra aver garantito l’atteso dividendo elettorale. 

Non può consolare gli alleati-avversari il risultato del Pd, che ha tenuto un elettorato che si era già assottigliato negli anni ma senza intercettare forze nuove. La Legge di bilancio e il voto emiliano ai primi mesi del 2020 saranno così per entrambe le forze la prova del fuoco. Da affrontare senza nostalgie per vecchie nicchie di potere e rendite di posizione. La democrazia del tempo digitale è per definizione sempre contendibile. Le vecchie mitologie, compresa quella delle gloriose regioni rosse, non reggono all’usura del tempo. Occorre prenderne atto come una sfida per il futuro che non ha bisogno di queruli rimpianti. Purché si abbia voglia di raccoglierla sul serio.

NICOLA R. PORRO