La rivoluzione gentile dello sport per tutti – Quattro storie per raccontarla (1. Presentazione)

di NICOLA R. PORRO ♦

“L’immagine più tradizionale dello sport per tutti è la partenza di una carrera popular, con migliaia di partecipanti che in uno stadio potrebbero essere soltanto spettatori e che invece, in una piazza o sulla strada, possono essere protagonisti. Tra chi attende il segnale di partenza vi sono persone di ogni età e condizione fisica. È un’immagine che dice una profonda verità: lo sport per tutti nasce dalla rottura dello spazio sportivo codificato e chiuso, dell’impianto sportivo tradizionale, ma anche e soprattutto dalla rottura culturale del principio di prestazione, di selezione e di eccellenza che separa (nello stadio, in ogni impianto sportivo e soprattutto nella cultura sportiva del Novecento) il pubblico e gli atleti, quelli che corrono e quelli che guardano quelli che corrono”. 

                                                                                     (Tuttosport, Intervista immaginaria a Gianmario Missaglia, 2 maggio 2018)

 

Nel marzo del 2000 mi recai per la prima volta in Giappone. Rivestivo all’epoca la carica di Presidente nazionale dell’Uisp (Unione italiana sport per tutti) e da circa un anno avevo preso servizio all’Università di Cassino e del Lazio meridionale dove sarei stato il primo professore italiano a ricoprire un insegnamento universitario dedicato alla sociologia dello sport. Fu per me un periodo faticoso e complicato, sottoposto com’ero agli oneri del doppio ruolo ed esposto a responsabilità di rilievo. Nella mia sede universitaria stava prendendo forma il progetto di inaugurare una vera e propria Facoltà di Scienze motorie. La Uisp conosceva un momento di entusiasmo: stavamo per varcare la fatidica quota del milione di soci e avevamo da poco superato per numero di affiliati i nostri partner-concorrenti del Csi (Centro sportivo italiano) ai quali contendevamo il primato fra gli enti di promozione sportiva riconosciuti dal Coni. La mia doppia veste mi imponeva anche di stringere e sviluppare contatti con una costellazione di istituzioni sportive e di sedi scientifiche in giro per il mondo. Era peraltro straordinariamente utile sviluppare sinergie fra i due sistemi, quello della didattica applicata allo sport dei cittadini e quello che organizzava concretamente le attività diffuse senza rinunciare a una riflessione critica sul modello sportivo dominante. Per noi, come per i nostri partner internazionali, si trattava di tradurre in pratica quell’idea di sport per tutti e a misura di ciascuno (for all and for everybody) che aveva ispirato al mio predecessore, il compianto Gianmario Missaglia, la piccola rivoluzione del 1990. Nel dicembre di quell’anno, con il Congresso di Perugia, la Uisp aveva sancito il superamento del modello dello sport popolare – erede del collateralismo politico del dopoguerra – e avviato un ripensamento critico ad ampio raggio sulla stessa filosofia della promozione sportiva e sul rapporto ancillare che si era istituito nel tempo con il Coni e le Federazioni agonistiche. L’acronimo Uisp rimase tal quale ma all’aggettivo Popolare si sostituì la definizione Per tutti. Non si trattava di puro maquillage lessicale e nemmeno di una concessione agli umori della stagione politica (nello stesso arco di tempo aveva cambiato nome il Partito comunista, trasformandosi dopo la svolta dello Bolognina in Partito democratico della sinistra). L’obiettivo dichiarato, e perseguito non senza conflitti e resistenze, era di rendere esplicita l’opzione a favore dello sport per tutti precisandone i tratti identificativi. Un grande movimento di sport per tutti – all’epoca probabilmente il più forte d’Europa  per radicamento organizzativo, per numero di affiliati e per l’influenza esercitata sulle organizzazioni internazionali nostre partner – non si sarebbe più dovuto accontentare di promuovere campagne per dilatare il perimetro sociale della pratica, per rivendicare il diritto di accesso e sollecitare la democratizzazione del sistema olimpico. L’obiettivo, ben più ambizioso, era di intercettare con un’offerta organizzativa, tecnica e culturale adeguata, le nuove domande di sperimentazione del corpo, di attività a vocazione ambientale, di socialità e solidarietà che traevano linfa soprattutto dall’esempio scandinavo. 

Ambiente Diritti Solidarietà fu lo slogan in cui si condensava la filosofia del nuovo sport per tutti in coerenza con un programma cui avevo concorso sin dalla fine degli anni Ottanta in qualità di Presidente del Comitato scientifico della Uisp. La candidatura di un sociologo alla guida del neo-costituito Comitato, sostenuta da Missaglia, aveva all’epoca sollevato non poche riserve. Ci si chiedeva perché un outsider invece di un bravo fisiologo, di uno sperimentato metodologo, di un tecnico dell’allenamento o di un docente di diritto dello sport. Al di là dei miei pochi meriti, la scelta rappresentava per l’allora Presidente nazionale un’opzione strategica e una specie di salutare provocazione. Si intendeva leggere la società con gli occhi del nuovo sport e insieme restituire lo sport – monopolizzato dalla commercializzazione, inquinato da un onnipervasivo giro di affari, trasformato in un’arena per tifoserie aggressive e appartenenze isteriche – alla sua originaria vocazione civile. La cassetta degli attrezzi delle scienze sociali pareva in quella fase allo sguardo lungimirante di Missaglia più idonea allo scopo di quanto non fossero le pur indispensabili competenze di settore. 

Lo stesso Missaglia, scomparso prematuramente qualche anno più tardi, espose la sua visione iconoclasta dello sport del XXI secolo in un volumetto di agile lettura che, ispirandosi a un passaggio di Johan Huizinga in Homo ludens, volle intitolare Il baro e il guastafeste (Seam, 1998). Pochi anni con Greensport (La Meridiana 2001), dedicato a una pratica ancora sperimentale come l’orienteering, avrebbe dato forma a un progetto di conciliazione fra cultura dello sport e pensiero ambientalista. In quel periodo, dando alle stampe Lineamenti di sociologia dello sport (Carocci, 2001) e poi due lavori per i tipi della Meridiana, dedicati alla relazione fra sistema dei diritti, organizzazioni sportive amatoriali e modelli culturali – Cittadini in movimento (2005) e L’attore sportivo (2006) – , mi sforzai a mia volta di trasferire le problematiche abbozzate da Missaglia in testi capace di trovare accoglienza nella produzione scientifica, a disposizione dei corsi di formazione e dei programmi accademici delle nascenti Facoltà di Scienze motorie. 

Nello stesso periodo Giulio Bizzaglia coniò il neologismo sportpertutti, che consacrava la feconda contaminazione fra sport for all (sport inteso come nuovo diritto di cittadinanza) e sport for everybody, prodotto di un’inedita sperimentazione culturale e metodologica, attenta alle esigenze individuali e contraria a ogni forma di discriminazione. Lo sport per tutti italiano andava trovando una propria fisionomia, in parte mutuata dalle più mature esperienze internazionali ma in buona misura originale. Se ne accorsero prima all’estero che da noi. 

Nella storia dell’Associazione tornava a soffiare il vento del Nord. Nei mesi della Guerra di Liberazione, la sigla Uisp era comparsa per la prima volta nelle retrovie della guerra partigiana. Lo sport popolare, in quella stagione di ferro e di fuoco, si identificava con forme “competitive” di addestramento militare. Pratiche di tiro, equitazione, ciclismo e motoristica, corse di resistenza: il vento del Nord evocava il movimento garibaldino, che un secolo prima aveva potentemente concorso, sul modello della Nation Armée napoleonica, alla sportivizzazione delle pratiche di combattimento. Giuseppe Garibaldi aveva fondato la Società nazionale di tiro a segno. Carlo Pisacane, il Che Guevara delle camicie rosse, aveva fatto della scherma – da sempre abilità esclusiva, coltivata dalle élite aristocratiche – una disciplina agonistica “acché, caduti gli orpelli del censo, si dimostri quanto equamente la natura abbia distribuito il talento fra tutti i figli suoi”.

Mezzo secolo dopo la stagione resistenziale il vento dell’innovazione spirava dall’Europa del Nord, dai Paesi di welfare universalistico, di diritti sociali diffusi e di più avanzata cultura ambientalistica. Era alle loro esperienze di sport della cittadinanza (Welfare Sport) che mi sarei ispirato quando fui chiamato, con il Congresso dell’Ergife del marzo 1998, a succedere a Missaglia. Il mio programma era di sviluppare le intuizioni del mio predecessore posizionando saldamente la Uisp nel più vasto sistema dell’azione volontaria e ingaggiando un confronto ravvicinato con le dirigenze federali per una piena legittimazione, anche da parte del movimento olimpico ufficiale, dello sport per tutti. Volevamo rappresentare il perno di quel movimento che Walter Veltroni, in un messaggio al nostro Congresso, aveva efficacemente definito come la “seconda gamba” dello sport italiano.

9_Uisp

Ci aspettava una stagione intensa, talvolta difficile ma non avara di soddisfazioni. La Uisp fu la prima associazione nazionale sportiva ad aderire al nascente Forum del Terzo settore, la prima a fare ingresso al Consiglio nazionale del Cnel, dove fui nominato dal Presidente Ciampi in rappresentanza dell’intero associazionismo amatoriale. Lucio Selli, un nostro prestigioso dirigente, fu nominato consigliere per le politiche sportive dall’allora ministro competente, Giovanna Melandri. Altrettanto importante per me, che avevo necessariamente ridimensionato ma non abbandonato l’attività di ricerca sul profilo sociologico dello sport contemporaneo, era non perdere i contatti con la rete internazionale degli studiosi con cui avevo nel tempo intessuto una robusta rete di comunicazione scientifica. Mi sforzavo di non disertare i maggiori appuntamenti internazionali, come i Congressi dell’Associazione mondiale di sociologia e quelli della nascente Eass (European Association for Sport Sociology) di cui sarei divenuto Presidente nel 2010. Ospitammo in Italia le figure più autorevoli della ricerca sociale applicata allo sport, da Eric Dunning a Klaus Heinemann, da Nuria Puig a Rui Gomes Machado, da Ivan Waddington a Jean Camy, da Richard Giulianotti a Knut Dietrich, da Wiliam Gasparini a Henning Eichberg, da Kari Fasting  a Jeroen Scheerder. E tanti ancora, compresi colleghi provenienti da altri continenti ma particolarmente attenti alla nostra esperienza. Fra questi spiccava il giapponese Sadao Morikawa, che insegnava nella più importante Facoltà asiatica di Scienze dello sport e non faceva mistero di considerare il movimento sportivo italiano una potenziale avanguardia per lo sport per tutti mondiale. In fin dei conti, l’Italia rappresentava un grande Paese occidentale, con una popolazione che era tre volte quella di tutti i Paesi scandinavi messi insieme. Eravamo (e rimaniamo) la quinta potenza olimpica mondiale per medaglie conquistate dalla fondazione dell’olimpismo ai Giochi invernali di PyeongChang 2018. Presentavamo inoltre alcune caratteristiche salienti agli occhi di un osservatore competente: una struttura federale potente, una formidabile fabbrica di medaglie non ancora adeguatamente  sensibile alle ragioni dello sport di massa; una rete di associazionismo amatoriale capillarmente diffusa ma parzialmente modellata sul profilo del collateralismo politico-religioso; un sistema di sport militare e paramilitare orientato all’alta prestazione e fucina di risultati di eccellenza; un livello di pratica ancora modesto e una scarsa attenzione alle potenzialità dello sport da parte delle principali agenzie formative pubbliche. Un panorama cangiante e non privo di contraddizioni. E insieme un formidabile laboratorio di innovazione che la Uisp si candidava a governare per la parte di sua competenza.

10_Giocagin

Fui perciò lusingato, ma non sorpreso, quando alla fine del 1999 ricevetti l’invito dalla più importante istituzione universitaria giapponese di Scienze dello sport, la prestigiosa Nittaidai University, a tenere a Tokyo un breve ciclo di conferenze e di incontri per illustrare lo stato nascente dello sportpertutti italiano. Il viaggio si svolse nella seconda metà di marzo del 2000. Per una decina di giorni dovetti sobbarcarmi a un programma intensissimo. Tenni due seminari riservati ai collaboratori e agli studenti di Morikawa. Mi sottoposi a interviste di radio ed emittenti televisive incuriosite dal caso italiano. Con Peter Donnelly, un collega canadese, il 24 marzo mi recai a Tsukuba, dove tenemmo una tavola rotonda sui profili culturali dello “sport del nuovo millennio”. Il clou della mia tournée era però previsto a Yokohama, dove avrei parlato all’élite della ricerca sociale applicata allo sport, che in Giappone vantava già all’epoca una tradizione significativa. Quando mi consegnarono il programma della giornata (lo trovavo puntualmente al tavolo della prima colazione) scoprii che il mio intervento era programmato per le 13. Era un sabato, l’ultimo giorno prima della partenza. Ragionando per analogia con le nostre usanze, mi immaginai un’aula deserta e un pubblico impaziente di salpare per il weekend. Forse, pensai fra me e me, si tratterà di una specie di cerimonia di saluto: il Giappone è il Paese delle liturgie. Verificai la brillantezza delle scarpe e curai il nodo della cravatta. Mi preparai a sillabare qualche parola di circostanza in giapponese facendomi tradurre e trascrivere in caratteri latini dal portiere del mio hotel un brevissimo saluto. Infine, munito di una risma di biglietti da visita che avrei scambiato compulsivamente con i colleghi secondo l’uso locale, mi consegnai inerme nelle mani del mio anfitrione Alle 13 in punto – la puntualità è per i giapponesi un imperativo al limite dell’ossessività – il professor Morikawa mi accompagnò all’ingresso della sala, facendomi sostare davanti alla porta di accesso.  L’ospite entra infatti per ultimo e deve essere accompagnato al suo posto dal collega più alto in grado. Con sorpresa dovemmo attendere quasi un quarto d’ora prima di accedere. La ragione del ritardo era l’aula stracolma, per cui si erano dovute aggiungere non poche sedie e poltrone. Ad ascoltarmi almeno duecento persone che avrebbero seguito le mie parole in religioso silenzio riempiendo pagine di appunti. Finimmo quasi tre ore dopo, quando Morikawa decise di sospendere d’autorità la discussione scusandosi con gli iscritti a parlare e congedando l’interprete ormai allo stremo delle forze.

Ci aspettava un fastoso pranzo tradizionale in un suggestivo locale d’epoca. Il pasto si sarebbe protratto fino a sera avanzata. Fra una portata e l’altra ebbi modo di colloquiare con i miei anfitrioni. Comunicavamo in inglese con una certa fatica perché la pronuncia giapponese è difficile da decrittare per orecchie occidentali non allenate. Ero tuttavia impressionato dall’attenzione con cui era stato seguito il mio intervento. Anche a tavola continuavano a piovere domande e sollecitazioni. Spiegavo che il sistema dello sport di cittadinanza che stavamo cercando di costruire in Italia rappresentava una scommessa aperta a tutti gli esiti. Raccontavo come inedite domande di innovazione incrociavano tradizioni antiche e spesso si sovrapponevano ad esse. Il motto Diritti Ambiente Solidarietà andava perciò meglio declinato e argomentato. Chiarii come lo sport per tutti non fosse ostile né estraneo alla passione agonistica e alla cultura della competizione. Guardava però più che al risultato tecnico alle opportunità di socializzazione che la pratica fisica può offrire in tutte le età della vita e per tutte le condizioni sociali. Gli anziani, i disabili, i detenuti, i migranti portatori di culture diverse dovevano essere considerati a tutti gli effetti cittadini dello sport “per tutti e a misura di ciascuno”.

La vocazione ambientale andava tradotta in un programma di attività ecosostenibili e nella realizzazione di strutture leggere, diffuse e a basso impatto. Andava riscoperto il  valore di abilità e pratiche antiche, semplici e preziose: camminare, sperimentare il territorio con il proprio corpo, recuperare un rapporto pacificato con gli elementi naturali, riscoprire il fascino degli antichi percorsi (dalle vie consolari ai “cammini”) a piedi o pedalando su due ruote. E poi, last not least, la solidarietà: valore fondante un’etica della condivisione. Ogni attività di competizione ha bisogno di un avversario, ma insieme insegna a non pensarlo mai come un nemico. Le attività individuali esigono una severa disciplina interiore ma educano alla relazione. I giochi di squadra producono identità, passione, appartenenza e insieme rispetto dei ruoli, strategie di gruppo, comunicazione. Lo sport sociale, infine, rappresenta virtualmente un poderoso vettore di democrazia, abbattendo le soglie del pregiudizio, del razzismo, del municipalismo. Per questo lo sport tout court non deve regalare alle culture antidemocratiche, ai particolarismi e alla xenofobia, le sue bandiere: lo sport per tutti è prima di tutto una rivoluzione culturale

Quella gastronomica si rivelerà una kermesse di quasi sei ore, che meriterà di essere raccontata in altra sede. Malgrado la difficoltà linguistica, il tempo a disposizione ci aveva consentito di confrontare e approfondire le rispettive storie di sport. Peter, il collega canadese, raccontò di una rivista del suo Paese che gli aveva chiesto di descrivere il profilo dei nuovi sportivi, in forma non accademica e identificando alcuni idealtipi che i redattori si sarebbero incaricati di trasformare in personaggi accattivanti, narrati con stile giornalistico a uso di lettori non specializzati. L’idea mi piacque e stuzzicò la mia fantasia. Peter promise di inviarmi una copia della rivista. 

A me l’idea continuava a frullare per la testa. Il giorno dopo mi imbarcai per Roma da Narita, lo sconfinato aeroporto internazionale di Tokio. Mi aspettavano quasi tredici ore di volo. Per ingannare il tempo provai a buttare giù quattro idealtipi di nuovi cittadini dello sport nel contesto italiano. Assegnai loro nomi da fantasia, attingendo però a casi esemplari che avevo avuto modo di conoscere peregrinando per l’Italia. Assemblando spezzoni di biografie descrissi la ragazza milanese di buona famiglia convertita agli sport estremi, un pensionato piemontese che aveva trovato nell’attività sportiva un’opportunità di socialità che lo avrebbe aiutato a combattere la solitudine e una depressione strisciante, una promettente pallavolista romana impegnata a conciliare carriera agonistica e passione politica, un professionista napoletano capace di immaginare un caleidoscopio di attività rispettose dell’ambiente. Quattro modelli culturali e altrettante storie immaginarie. Costruiti però con materiale di primo mano, attingendo a un’esperienza di lavoro e di vita che scaturiva dal nostro movimento e che ancora coltivo dentro di me. Proverò a raccontarvele.

NICOLA R. PORRO