SPORTIVO PROFESSIONISTA?…DIPENDE
Legge n. 91 del 23 marzo 1981
di STEFANO CERVARELLI ♦
Nel corso degli anni la pratica dello sport a livelli agonisticamente elevati ha di fatto costretto gli atleti a dedicare sempre maggior tempo, energie fisiche e mentali alla loro attività, tramutandola nella principale attività quotidiana, tanto che per tutti gli atleti e atlete di prestigio si può parlare ormai di vero e proprio lavoro.
Un impiego a temo pieno che richiede la massima dedizione sia nell’applicazione tecnica che nella condotta di vita, se si vuole gareggiare a livelli competitivi elevati, sia essi di carattere nazionale che, a maggior ragione, di carattere internazionale.
Sto parlando di professionisti dello sport. Però nello sport italiano esistono due tipi di professionisti: quelli che lo sono di fatto e diritto e quelli che invece lo sono solo di fatto, i cosiddetti” non professionisti” in quanto la parola dilettante, ovviamente, non si può usare.
Tra i “non professionisti”, guarda caso, ci sono tutte le atlete. Tanto per far comprendere meglio quello che andrò a dire, anticipo soltanto una cosa: la Pennetta e la Vinci, finaliste degli Usa Open, uno dei massimi trionfi dello sport italiano, sono dilettanti; per la legge sportiva italiana sono al pari di qualsiasi sportivo amatoriale!
Come è possibile?
In Italia esiste una legge, la n.91 del 23 marzo 1981 – sono passati dunque quasi 38 anni – che stabilisce “norme di materia dei rapporti tra società e sportivi professionisti” stabilendo, di fatto, i requisiti del professionista e dei rapporti tra questi e la società che intende avvalersi della sua opera. Non esiste però un dettato legislativo che impone lo status di professionista; la legge delega al CONI ed alle Federazioni la decisione su quali discipline possono essere considerate professionistiche.
Dal canto suo il sistema sportivo italiano, attraverso il Presidente del CONI, Giovanni Malagò, ha sempre replicato che, trattandosi di materia delicata, il conferimento non può prescindere da una nuova legge.
A questo punto è bene dire che, per la legge 91, professionista è chi: “pratica attività sportiva in modo esclusivo, continuativo e per la quale viene retribuito “.
Ecco quindi il grosso equivoco che ha provocato e sta provocando la divisione tra professionisti di fatto e di diritto ed i “non professionisti” o diciamo quelli che lo sono soltanto di fatto, senza avere tutte le garanzie che hanno i primi. Questi possono infatti godere dei benefici tipici di un contratto di lavoro: assicurazione obbligatoria contro il rischio di morte, contro gli infortuni che possono pregiudicare il proseguo della carriera, copertura previdenziale, minimo salariale (strano, ma vero) e la possibilità di fare valere le proprie ragioni in caso di inadempienza contrattuale (da qualche anno nel calcio sono state contrattate anche le ferie invernali).
Accennavo prima alla libertà data alle Federazioni di optare per il professionismo; all’inizio erano sei (per semplicità nomino lo sport e non la sigla federale) calcio, motociclismo, pugilato, basket, ciclismo, golf. Da qualche anno non è più professionismo il motociclismo e il pugilato. Una scelta, si dice, dovuta in parte anche alla crisi che ha colpito la maggior parte delle aziende che fungevano da sponsor.
Come si può notare nessuna disciplina femminile è professionistica e quindi nessuna atleta italiana può essere considerata professionista, nemmeno se gareggia in competizioni di altissimo livello e quindi non gode delle tutele sopra descritte; Federica Pellegrini – tanto per fare un esempio – dalla legge italiana è sullo stesso piano sportivo di chi gioca al calcio nei campionati C.S.I. (centro sportivo italiano).
Qualcosa a favore dello sport femminile lo si è avuto con il precedente governo, quando il ministro dello sport Luca Lotti ha introdotto il fondo di maternità.
A questo proposito Luisa Rizzitelli, Presidente dell’associazione ASSIST, che si occupa dei diritti delle donne nello sport (una sorta d sindacato), ha detto:” Da quando l’associazione è nata, era il 1999, l’istituzione del fondo di sostegno per la maternità è stato l’unico provvedimento preso in materia di tutela delle donne che fanno sport. Nient’altro è cambiato. Anzi sì – aggiunge ironicamente – qualcosa è…. cambiato, le donne che fanno sport sono sempre di più (sfiorano il 30%) e vincono sempre di più”.
Lo sport professionistico femminile, con particolare riferimento al problema della maternità, è un tema che qui mi limito solo ad accennare, meritando senz’altro un maggiore futuro approfondimento.
All’inizio accennavo alla Pennetta e alla Vinci indicandole come atlete “non professioniste”.
Vediamo altre differenze ricordando prima che tutte le persone che citerò- come esempio- sono impegnate nella loro attività nello stesso modo.
Sono, o sono stati, atleti professionisti di fatto e di diritto: Buffon (calcio), Oliva (pugilato), Nibali (ciclismo),
Meneghin (basket), Simoncelli (motociclismo), purtroppo deceduto in un incidente di gara nel 2012.
Non sono professionisti e non lo sono mai stati: Panatta (tennis), Mennea (atletica leggera), Vezzali (scherma), Pellegrini (nuoto), Kostener (pattinaggio), Tomba (sci), Pellegrini (nuoto), Piccinini (pallavolo).
Ho indicato i campioni più famosi, ma nella loro condizione ci sono molti altri atleti di valore internazionale che non possono considerarsi professionisti.
Mi fermo qui. Secondo voi il secondo gruppo è composto da persone che dedicano alla loro attività meno risorse di quelle del primo gruppo? Avete visto quante donne ci sono? Per loro, stando alla L.91/81 non esiste il professionismo, eppure, al di là delle scelte federali che, a quel punto sarebbero ben altre, basterebbe che il testo di legge facesse riferimento ad “atleti ed atlete” per aprire anche alle donne la possibilità di accedere alle categorie professionistiche.
A parziale risoluzione del problema sono intervenute, si può dire da sempre, le Forze Armate ed i Corpi Civili dello Stato. Parlo degli atleti e atlete con le stellette; sono circa 1.300 e costano 40 milioni, rappresentando, bontà loro, buona parte del nostro Medagliere Olimpico ed Internazionale.
In queste istituzioni molti” non professionisti” trovano tutele.
L’atleta, di interesse nazionale, a prescindere dal suo genere, partecipa ad un concorso per titoli, che prevede anche un test psicofisico e, dopo aver svolto un periodo di prova, viene inquadrato nel corpo a tempo indeterminato.
La sua attività principale naturalmente è concentrata sulla specialità sportiva, avendo assicurata comunque una copertura lavorativa. Finita la carriera o interrotta per infortunio o trauma, l’ex atleta rimane nel gruppo sportivo con una mansione oppure riceve un incarico extra sportivo, che gli permette di prolungare la tutela fino all’età pensionabile.
Prima di concludere ritengo interessante dare uno sguardo a cosa succede negli altri Paesi.
Negli Usa esistono 5 leghe professionistiche: Basket, Football, Baseball, Calcio, Hockey. Tutti gli altri atleti si possono considerare non professionisti.
Però negli Usa esiste un modo sportivo parallelo: quello universitario con dettami e regole ben precise. Di fatto non esistono “strati” intermedi: o sport universitario o leghe professionistiche.
In Germania si applicano i principi del diritto del lavoro comune alle categorie di lavoratori.
In Gran Bretagna stesso discorso. Qui esiste, inoltre, una “carta dei diritti” che regola i codici di comportamenti delle federazioni.
In Spagna esiste un regio decreto del 1985 per atleti, allenatori professionisti che regola i rapporti tra questi club e le federazioni. Dice così: “E’ professionista chi pratica un’attività sportiva e da questa ricava la parte più cospicua del suo reddito”.
In Francia troviamo un modello più articolato. La legge, del 1993, prevede quattro categorie di sportivi ad alto livello. ELITE-SENIOR-JEUNES-RECONVERSION, a seconda del livello e dei risultati conseguiti, l’atleta trova spazio in una di queste categorie. I campionissimi nella prima; campioni nazionali o selezionati per competizioni internazionali nella seconda; la terza categoria è come la prima, ma a livello giovanile; infine nell’ultima ci sono gli ex élite o senior per almeno quattro anni.
Da noi basterebbe ricordarsi dell’art. 3 della Costituzione e farlo valere anche nello sport.
STEFANO CERVARELLI
P.S. mentre terminavo l’articolo, dalla Argentina e dagli Stati Uniti sono giunte notizie di azioni rivendicative riguardanti la parità dei diritti da parte delle giocatici delle Nazionali di calcio.