PRESENTAZIONE DEL VOLUME DELLA “CENTUMCELLAE” – Civitavecchia ed il suo entroterra durante il Medioevo
di FRANCESCO CORRENTI ♦
L’Associazione Archeologica “Centumcellae” venne fondata l’11 novembre del 1911. Fin dall’inizio, la sua attività si è distinta per l’apporto dato alla conoscenza del territorio da parte di numerosi soci, molti dei quali si sono dimostrati, nel campo della ricerca archeologica, ben al di sopra del livello di semplici “appassionati”, fornendo contributi fondamentali nella ricostruzione del passato di Civitavecchia, come la “carta archeologica” completata nel 1956 a cura di Salvatore Bastianelli e di Ilario Cordelli. La tradizione non si è perduta ed al lavoro generalmente solitario dei primi studiosi, l’Associazione ha saputo sostituire l’opera corale di un nutrito gruppo di ricercatori con solide basi culturali e requisiti di professionalità. Con la dinamica presidenza di Fabrizio Pirani, iniziata nel 1959 ed alla quale si deve anche l’istituzione della degna sede in questa piazza Leandra, nasce l’iniziativa dei “Bollettini d’informazione”, concreta testimonianza della volontà di rendere patrimonio comune e quindi scientificamente valide e suscettibili di ulteriori elaborazioni, le conoscenze acquisite nelle escursioni esplorative.
Proprio dalla rilettura dei “bollettini” possiamo rilevare la graduale affermazione di un’impronta propria ed originale, l’emergere di capacità interpretative autonome, lo sviluppo e l’affermazione di spiccate personalità tra gli autori delle comunicazioni. Già nel 60° anniversario della fondazione, nel 1971, il volume Studi e ricerche nell’entroterra di Civitavecchia dimostrava con la pubblicazione di una serie di saggi, tutti ad opera di giovani soci, l’avvenuto salto qualitativo, parallelo all’ampliamento della base operativa.
Dieci anni dopo, nel suo 70° anno di vita, con il volume e la mostra La preistoria e la protostoria nel territorio di Civitavecchia, la “Centumcellae” ha confermato il valore del suo impegno culturale e, nello stesso tempo, della sua presenza nella città. Conferma ripetuta nel 1982 con la mostra su La città medioevale di Cencelle, nel 1983 con il Progetto per il recupero delle memorie storiche locali, nel 1984 con la mostra e la monografia di Giovanni Insolera Iscrizioni e stemmi pontifici nella storia di Civitavecchia.
L’Associazione celebra quest’anno il suo 75° anniversario e, puntualmente propone all’attenzione del pubblico una nuova iniziativa di vivo interesse storico. Ne è oggetto il medioevo del comprensorio civitavecchiese, ossia il periodo più ricco di avvenimenti fondamentali per l’assetto urbanistico attuale e, tuttavia, meno conosciuto, più travisato dagli storiografi locali, più avaro di testimonianze concrete.
Proprio per questi motivi, il Medioevo di Civitavecchia rappresenta l’epoca più avvincente, quella che maggiormente suscita la nostra curiosità e potrà offrire il più ampio settore di indagine per nuovi studi, per nuove ricerche sul campo e negli archivi, per nuove scoperte.
In questo senso, l’iniziativa non rappresenta un punto di arrivo, ma una tappa, un momento di riflessione che è, anche, invito e stimolo all’approfondimento ulteriore.
Il volume Civitavecchia ed il suo entroterra durante il Medioevo è presentato, nella introduzione di Antonio Maffei, come catalogo della mostra. In realtà, il valore dell’opera va ben oltre i limiti di un repertorio, pure interessante, di oggetti archeologici, fornendo un quadro completo, benché sintetico (e questa sinteticità deve esser considerata un pregio, a fini divulgativi), del periodo compreso tra il V ed il XV secolo ed oltre.
Come giustamente sottolinea Fabrizio Pirani nella sua presentazione, è motivo di compiacimento che il volume sia frutto della collaborazione tra ricercatori della “Centumcellae” e ricercatori della consorella “Adolfo Klitsche de la Grange” di Allumiere: in primo luogo, perché ciò giova alla completezza, perché le vicende storiche dei due territori sono strettamente connesse, anzi unitarie, ed in secondo luogo perché questa reciproca apertura a contributi esterni è chiaro segno di maturazione: un ulteriore passo verso la concezione più moderna degli studi storico- territoriali, che vede nello scambio di esperienze, nelle ricerche coordinate, negli apporti interdisciplinari, più ampie e veloci possibilità di progresso. È augurabile che tale maturazione si espliciti sempre più, portando al superamento di quelle vecchie, radicate “gelosie” e “diffidenze” che ancora possono sussistere, quasi a livello inconscio, tra i cultori della materia. Ne sono un esempio i “libretti” del benemerito Salvatore Bastianelli, quei taccuini segreti in cui lo studioso ha annotato per decenni (dal 1913 al 1949> le proprie scoperte: preziosissimi nei contenuti , essi sono rimasti deplorevolmente sconosciuti fino ad oggi ed è altro merito della “Centumcellae” quello di averne iniziata la pubblicazione, che si promette presto integrale.
A questo riguardo va fatta una precisazione, per ribadire quanto ho sottolineato in molte altre occasioni ed ho voluto riproporre nella premessa al mio libro Chome lo papa uole…: la mancata circolazione e diffusione degli studi e delle elaborazioni non può essere imputata a quanti si dedicano, con passione disinteressata, a tali attività e che ben volentieri ne offrirebbero il frutto alla pubblica fruizione, bensì alla riluttanza di enti ed istituzioni locali, ed in primo luogo del Comune, ad incentivare e favorire concretamente questi aspetti della cultura che sembrano elitari. Questo equivoco è alla base della grave, diffusa, profonda assenza di cultura in molti settori della vita cittadina ed in molte delle sue espressioni esteriori, di cui avremo qui occasione di parlare più dettagliatamente. Sfogliamo, dunque, il libro della “Centumcellae”, che è dedicato alla memoria di Basilio Pergi, Odoardo Annibali e Franco Capuani, figure indimenticabili di ricercatori, per i quali l’esplorazione archeologica ha rappresentato un impegno costante ed entusiasmante. Dopo la presentazione e l’introduzione, che ho già ricordate, Antonio Maffei, cui si deve il coordinamento di tutta l’iniziativa, illustra il tema Civitavecchia ed il suo entroterra dal V secolo all’inizio del IX.
Si tratta del lungo periodo di crisi e di invasioni, che vede, tuttavia, la città di Centumcellae sopravvivere al disfacimento dell’impero romano ed alla decadenza che colpisce gli altri nuclei urbani del litorale, affermandosi anzi come polo strategico, la cui importanza è ben compresa e utilizzata dai pontefici impegnati a porre le basi del potere temporale della Chiesa. Date le potenziali possibilità offerte dalla sua posizione e dal porto traianeo, la città va delineandosi urbanisticamente quale centro egemonico del Patrimonio, quando le incursioni saracene pongono fine alla sua esistenza fisica e mutano le condizioni economiche e politiche del territorio.
Nel tratteggiare le vicende di questo periodo, Antonio Maffei non si limita a ricordare le antiche fonti da cui è possibile ricostruire gli avvenimenti storici della città, ma fornisce anche puntuali riscontri archeologici, con l’intelligente adozione del metodo IGM di designazione della zona. Suggestive ipotesi vengono da lui avanzate circa l’origine di alcuni toponimi, come Costa Romagnola e Costa Lombarda, Monte Romano e Castel Lombardo, che conserverebbero la traccia dell’appartenenza alle diverse etnie, proprio nel territorio di confine tra il Ducato Romano e la Tuscia Langobardorum. il complesso funerario monumentale di Costa Lombarda potrebbe costituirne la prova archeologica.
Di grande interesse sono anche le illustrazioni che corredano il testo: dalla cartina delle principali “fattorie”, dove la presenza di ceramica africana di tipo D attesta il perdurare di scambi commerciali nel Mediterraneo, alla riproduzione degli appunti del Bastianelli riguardanti la necropoli e la probabile chiesa di Via Tarquinia.
I limiti di questa presentazione non mi consentono di ampliare l’argomento delle chiese paleocristiane di Centumcellae, anche per non ripetere tesi da me già sostenute e pubblicate. Va, comunque, rilevato che le annotazioni ed i disegni del Bastianelli ci permettono ora di farci una idea più precisa del sacro edificio, alle cui modeste dimensioni corrispondeva una notevole ricchezza architettonica, ottenuta con l’abbondante reimpiego di materiale di spoglio proveniente dalle costruzioni imperiali della città: il che consente di dedurre indiretti indizi anche sui mutamenti che la stessa città poteva contemporaneamente aver subito.
È, però, d’obbligo una riflessione sulla mancata conservazione di un’area archeologica ditale importanza storica, da abbinare a quella della grande basilica a nord della darsena, i cui resti sono sepolti tra piazzali e binari ferroviari: prove, entrambe, di quell’incuria e di quello scarso interesse dimostrati anche dagli organi statali che lamentavo in precedenza.
Per motivi di ordine cronologico va citata a questo punto la comunicazione di Cesare Marletta sulla Iscrizione cristiana rinvenuta in Via Leopoli e nuovamente ritrovata in magazzino completa della parte finale, che si riteneva perduta. Anche in questo caso, viene colmata una lacuna, sia completando l’epigrafe tombale con le parole inedite (la riscoperta è posteriore alla ricognizione effettuata dal Mazzoleni per la sua edizione del 1985) sia fornendo i dati relativi alla provenienza della lastra, che risulta quella zona tra Via Don Morosini e Via Leopoli, dove nel 1956 fu rinvenuto un tratto dell’Aurelia romana ed un sepolcreto. Benché i lavori che determinarono l’importante ritrovamento fossero eseguiti da un ente pubblico come l’istituto Autonomo per le Case Popolari, i resti archeologici vennero rapidamente distrutti e ricoperti per evitare un fermo da parte della Soprintendenza.
Ed è un altro esempio di inciviltà che rientra tra i molti casi di cui parlavo.
La parte finale del primo scritto di Maffei ed il saggio di Odoardo Toti che lo segue aprono il tema della distruzione di Centumcellae e del trasferimento dei profughi nella Leopoli di Centocelle, appositamente fondata da Leone IV.
Devo dire; in tutta sincerità, che non mi convincono quei punti in cui l’amico Maffei si rifà alle ricostruzioni di Rinaldo Panetta. Il libro di questo autore, I Saraceni in Italia, esauriente e documentato nel suo complesso, proprio sulle vicende della nostra città lascia eccessivo spazio alla fantasia ed alle versioni tradizionali: ne risulta un racconto infiorato da episodi circostanziati che non hanno basi nelle fonti, per giunta concluso con la critica accettazione del “ritorno” nell’889, sotto Stefano VI.
L’813, I’823 e l’846 sono le date più probabili dei ripetuti sbarchi arabi a Centumcellae. La tesi delle ondate successive mi sembra rispondere meglio al concatenarsi degli eventi.
Essa concilia le diverse fonti, dà ragione dei doni solleciti di Pasquale I alla cattedrale di S. Pietro Apostolo e giustifica i 40 anni di tribolazioni ricordati dal Liber Pontificalis, anche se – dopo il primo assalto – non si ebbe un abbandono totale della città.
Il quarantennio del Liber Pontificaìis va, dunque, interpretato in senso non letterale, ma con riferimento al testo biblico: “I vostri figli saranno nomadi nel deserto per quarant’anni”. Le vicissitudini del popolo di Israele, prima di poter raggiungere la Palestina, riecheggiano nel brano che descrive la dispersione e le tragiche condizioni di vita dei profughi da Centumcellae. L’analogia fra essi ed il popolo eletto è densa di sottintesi religiosi e politici.
Leone IV deve affrontare il delicato problema della riorganizzazione d’una zona strategica del Patrimonio, quale appunto il territorio di Centumcellae, tenendo conto del profondo mutamento subito dal litorale. Mentre Ostia e Porto costituiscono dei punti obbligati per la difesa diretta di Roma, la costa settentrionale ha assunto caratteristiche tali da rendere necessario un sistema protettivo diverso da quello realizzato in età romana, quando la fascia costiera rappresentava la maggiore risorsa produttiva. Adesso essa è da tempo diventata un landa desolata. Centumcellae costituiva l’eccezione, l’oasi di vita nel deserto. La fine dei commerci marittimi ne aveva, però, ormai atrofizzato le funzioni. Saccheggiata e disabitata, essa rappresenta una minaccia, quale potenziale base per nuove aggressioni nemiche; riedificata e ripopolata, reinserirebbe un elemento di squilibrio nell’assetto assunto dal territorio. Leone IV dà maggior peso al secondo problema scegliendo una soluzione che appare più valida a lungo termine: il definitivo abbandono della città sul mare e il trasferimento degli abitanti in una posizione più rispondente alla nuova organizzazione territoriale.
Possiamo supporre che almeno una parte della popolazione sia di parere diverso, per motivi affettivi, per abitudini di vita, per aver esercitato attività marinare. Si tratta di convincerli ad accettare un radicale cambiamento. Da qui il noto episodio della visione, segno manifesto della volontà divina.
Dopo l’esodo, dopo i quarant’anni di tribolazioni il popolo di Centumcellae giunge così alla terra promessa e Leone, nel trasparente parallelismo, quale suo condottiero, assume il ruolo di nuovo Giosuè, ossia, secondo il significato del nome, di “Salvatore”.
Della validità della scelta papale sarà prova la lunga vitalità della nuova Centocelle, che durerà finché nuove condizioni socio-economiche non determineranno un ulteriore evoluzione della fascia costiera. Le vicende della città sono esemplarmente ricostruite, smentendo la tradizionale versione fornita dagli storiografi civitavecchiesi, dal saggio di Odoardo Toti. Si tratta, in realtà, della riedizione abbreviata de La città medioevale di Centocelle, che fu pubblicata nel 1958, a cura dell’Associazione “Klitsche de la Grange”. L’opera non ha avuto, allora, la risonanza scientifica che bene avrebbe meritato e dobbiamo, quindi, compiacerci vivamente di ritrovarla inserita nel volume della “Centumcellae”, con l’augurio che la sua ristampa dopo quasi un trentennio ponga termine, finalmente, alle distorte interpretazioni, che ancora si sentono ripetere e, purtroppo, si leggono anche in opere recenti, peraltro serie e documentate, come Le città da scoprire del Touring Club Italiano, per citarne una.
Approfondendo gli spunti contenuti nelle opere de Lauer, del Signorelli e del Silvestrelli, che tra la fine del secolo scorso e gli inizi di questo avevano intuito la distinzione da operare tra la storia di Centocelle e quella di Civitavecchia, Odoardo Toti puntualizza con acume l’attribuzione dei documenti all’una ed all’altra città, evidenziando gli errori caparbiamente sostenuti da Carlo Calisse.
È da auspicare che i resti di Cencelle, conservatisi senza sovrapposizioni moderne e costituendo così un esempio unico di “città fondata” d’epoca carolingia, possano essere quanto prima oggetto di scavi e ricerche, oltre che di lavori di consolidamento e conservazione. In questo, l’Associazione Archeologica deve impegnare le proprie energie, facendo opera di diffusione e di denuncia, essendo inconcepibile l’abbandono in cui è lasciato dagli organi preposti un complesso altomedioevale di tanto valore storico.
Ancora di Antonio Maffei sono i due scritti che seguono. Il primo è intitolato Appunti su alcuni documenti relativi ad emergenze architettoniche medioevali, il secondo tratta de Il monastero di Santa Maria del Mignone e il Casalone di Tolfa. I limiti di una presentazione non mi consentono di entrare in un’analisi dettagliata di questi studi, che abbracciano argomenti assai vasti ed appassionanti, legati anche all’origine, da porre appunto in epoca medioevale, di numerosi toponimi ancora presenti nel nostro territorio. L’indagine di Maffei, corredata da fotografie inedite e da una, suggestiva cartina che ricostruisce la posizione dei siti, dà modo di rendersi conto della altissima densità degli insediamenti , in particolare chiese e castelli, che popolavano la zona.
Per quanto riguarda le chiese di Civitavecchia, argomento di cui mi sono a lungo occupato, vorrei aggiungere qualche osservazione a quanto esposto da Maffei. Una chiesetta di Sant’Antonio esisteva nella località anonima a est della città, da non confondere con l’altra di S. Antonio Abate costruita nel Borgo nel 1749, poi dedicata anche a S. Antonio di Padova, e, infine, demolita, ricostruita e dedicata nell’856 a l’Immacolata Concezione. Il Signorelli la definisce Sant’Antonio della Selva e ciò può darci un’idea della diversa situazione arborea dei dintorni di Civitavecchia nei secoli passati. Credo che la chiesa possa essere identificata nel Casale esistente, trasformato nello stato attuale tra la fine del ‘700 e la metà deIl’800. La chiesetta era ancora in buone condizione nel 1699: una sua veduta prospettica, con il tetto a due spioventi e il campanile, ci è data dalla Pianta del nuovo acquedotto di Innocenzo XII, disegnata da Cinzio Fiori ed incisa da Alessandro Specchi.
La chiesa di S. Ferma (S. Fermina) fu nome imposto ai Civitavecchiesi dallo stesso Innocenzo XII, ma con scarsi risultati iniziali) era, invece, situata a nord della città, nello stesso luogo della più antica basilica presso la darsena, e fu demolita prima del 1638 per realizzare i fossati attorno alla cinta del Sangallo. Di questa chiesa e delle sue appartenenze, tra cui la casa rinascimentale in via Manzi, ho pubblicato numerose notizie. La casa apparteneva alle rendite del Beneficiano della chiesa di S. Ferma e pervenne ai beni di S. Maria nel 1585. Anni addietro ho proposto alla Giunta Municipale di procedere alla sua acquisizione. La proposta fu accolta e deliberata, incaricando l’Assessorato alla Cultura di curarne l’attuazione. A tutt’oggi però, essa non ha potuto aver luogo, mentre l’edificio continua a degradarsi.
Sulla cella di S. Maria al Mignone, lo studio di Antonio Maffei fornisce un esempio di ricerca metodologicamente esemplare: i documenti archivistici sono puntigliosamente analizzati e sottoposti a riscontri topografici e toponomastici, a loro volta verificati con dettagliate esplorazioni dei luoghi, scandagliati palmo a palmo per l’individuazione di indizi e persistenze. Il risultato è dei più felici e convincenti: gli antichi toponimi del Regesto Farfense ritrovano la loro collocazione. Ripa Alba, Casa Securi, Casale Canneto Leone, Casale Cerviano, Terra Astaldi, ecc. ecc. riemergono dalle nebbie del IX e del X secolo per acquistare consistenza topografica, ritrovare i propri confini, i corsi d’acqua e le via di comunicazione, restituendoci un frammento di territorio rurale nello stato di oltre un millennio addietro.
Completa questa ricostruzione lo studio di Angelo Porchetti su Le strutture murarie del Casalone di Tolfa, il cosiddetto casale delle Cese, trasformato nel ’600 ma ancora conservante al piano terreno una doppia serie di campate con volta a crociera su pilastri ed arconi di più antica origine. Anche questo studio è un esempio di un metodo di indagine da estendere alle numerosissime emergenze architettoniche rimaste nelle campagne e colgo qui l’occasione per invitare quanti sono interessati all’iniziativa della Ripartizione Urbanistica iniziata da alcuni anni per il censimento, il rilievo ed il piano di recupero dei Casali di Civitavecchia (alcuni dei quali sono oggi all’interno del nucleo urbano), la cui conservazione ed integrità è sempre più minacciata dal tempo e dalle mire edificatorie dei proprietari.
Proseguendo l’esame del volume, troviamo il capitolo di Ennio Brunori dedicato a Nuovi elementi per la ricerca nel medioevo delle Tolfe e delle Allumiere. Anche in questo caso, testo e fotografie si integrano per fornire un quadro suggestivo di un periodo lontano e poco conosciuto, ma di cui restano testimonianze ancora consistenti, la cui esplorazione può dirsi appena iniziata. Tolfa Vecchia, Tolfa Nuova, Santa Severina, Carcàri, Monte Castagno, Castrum Ferrariae, Valmarina vanno acquistando una realtà archeologica insperabile appena dieci anni addietro, quando i loro nomi sembravano definitivamente relegati nelle pergamene.
Certo, occorrono ulteriori studi e ricerche sul campo, rilievi topografici ed architettonici, per giungere ad una conoscenza più completa di questo patrimonio storico. Dovrà essere superata quella riluttanza degli enti locali cui accennavo: è in primo luogo il Comune, che può ottenere a questo fine contributi provinciali e regionali, a dover promuovere tali studi, incentivando e coordinando le singole ricerche, portate avanti finora con scarsi mezzi e con la sola passione dei ricercatori. Già l’opera di riunire ed ordinare in una sede il materiale raccolto o elaborato da studiosi isolati porterebbe ad un immediato arricchimento delle conoscenze, ma quanto, personalmente, ho cercato di suggerire al nostro Comune non ha avuto ancora l’esito sperato. Villa Albani sembrava una prima sede idonea allo scopo, ma le iniziative si sono arenate, pur essendo disponibile una mole notevole di materiale. Qualcosa si è cercato di fare con le ricerche condotte in sede universitaria da numerosi studenti, che sono state raccolte dal Centro di documentazione urbanistica e saranno prossimamente pubblicate nei quaderni trimestrali editi dalla Amministrazione comunale.
Infine, apprendiamo con soddisfazione dall’Assessore Insolera dei passi compiuti verso l’istituzione del sospirato Museo Civico.
Un’ultima annotazione vorrei farla sul Castrum Ferrariae. Brunori ne traduce il nome in “ferraria”, certamente corretto e corrispondente all’antico. Tuttavia, la forma in cui esso ci è pervenuto nella toponomastica è quella di “Ferrara”. La tenuta di Ferrara, appartenente alla Camera Apostolica, si estendeva per 316 rubbie, pari a 581 ettari, nel territorio di Civitavecchia, residuo di una più ampia estensione che riguardava il territorio di Allumiere. Essa appare delineata nel catasto Gregoriano e nelle prime mappe catastali del Regno d’Italia, il che rende possibile individuare i confini verso il mare del Castrum, di cui parla la sentenza del 1319, circa la lite tra la camera urbana e Francesco de Gavellutis.
Segue nel volume una breve comunicazione di Odoardo Toti sul ritrovamento di due tratti scomparsi del Muro di cinta medioevale di Civitavecchia. Essa conferma con dati dimensionali e planimetrici quanto era possibile ricostruire sulla base delle antiche piante della città. Sulla cinta si dovrà tornare a riflettere alla luce di quanto è stato scoperto ultimamente nei lavori di restauro della torre dell’Archetto, lodevolmente finanziati dalla Cassa di Risparmio. Della torre si è iniziato un accurato rilievo, ma già il semplice ritrovamento dell’arcone interno, ogivale, e la constatazione che la base a scarpa risulta aggiunta alla torre primitiva anticipano la datazione rispetto al pontificato di Callisto III, cui, si deve, quindi, attribuire un rifacimento poi completato da Pio Il.
Ciò conferma alcune ipotesi che ho in corso di pubblicazione. Mi piace qui anticipare un particolare inedito: la Porta Romana delle stesse mura, quella che dalla prima strada si apriva verso il “monte delle ciarle” (poi Piazza S. Francesco ed oggi Vittorio Emanuele Il), si chiamava ancora alla fine del Seicento – quando fu demolita per far posto al Palazzo della Comunità – torre del Barone. Di essa, come è noto, esistono straordinarie vedute tra i disegni di Carlo Fontana e degli altri collaboratori del Bernini. Ad esse mi sono riferito nella costruzione di un plastico della città alla metà del XVII secolo, che spero potrà servire da base per realizzare una grande riproduzione tridimensionale della città antica, di cui arricchire il futuro Museo Civico.
Cesare Marletta è l’autore del saggio successivo, La chiesa e il campanile di S. Egidio Vecchio presso le Terme di Traiano. Molto importanti sono gli appunti del Bastianelli da lui pubblicati e le foto dei frammenti marmorei ritrovati nel sito della Chiesa.
Sono qui costretto a fare una puntualizzazione personale, richiamando anche quanto tentato — come dirigente della Ripartizione Urbanistica Comunale — da oltre un decennio, per porre fine ai lavori della cava. Nel 1975 ho eseguito il rilievo del monumento, constatando l’incongruenza stilistica tra le strutture del campanile e la sua corrente attribuzione al S. Giovanni in Taurina ricordato da Gregorio Magno. lì toponimo, il disegno allegato alla perizia del 1743 e le ricerche storiche chiarirono subito il vero nome della chiesa, del resto confermato dal manoscritto di Arcangelo Molletti e dalle diciture dell’acquerello a colori (che pubblicherò tra breve), eseguito nel 1895 dal celebre architetto Guglielmo Calderini, l’autore del palazzo di Giustizia di Roma, allora Direttore dell’Ufficio Regionale delle Antichità e Belle Arti.
Cercando di dare attuazione al programma del Comitato “Civitavecchia da salvare” e dalle indicazioni tracciate dal Dottor Toti nella tavola rotonda del 1971, redigendo nel ’74 il piano comunale per gli insediamenti produttivi ho ampliato la zona di tutela del P.R.G., preordinando all’espropriazione le aree circostanti il campanile.
Con proposta n. 59 del 20 novembre 1975, intitolata Campanile romanico della chiesa di S. Egidio, ho sottoposto alla Giunta municipale un intervento di esproprio e di restauro del monumento, quasi contemporaneamente ad uno analogo per il tempietto neoclassico di Lorenzo al Cimitero: altro gioiello della città lasciato in abbandono e deturpato, benché errate attribuzioni lo abbiano addirittura ritenuto “bramantesco”. Fu poi richiesta la collaborazione della Soprintendenza ed il 3 marzo 1976 fu eseguito un sopralluogo congiunto che, però, non ebbe sviluppi per mancanza di fondi.
Nel 1980, quale progettista del Programma Pluriennale di Attuazione del P.R.G., ho inserito agli articoli 33 e 34 il “restauro del campanile romanico di Sant’Egidio” tra gli interventi prioritari dell’Amministrazione comunale. Ma ancora senza esiti effettivi. La vicenda sarebbe un susseguirsi di tentativi falliti, se proprio ora non si stesse finalmente concretizzando un nuovo provvedimento, accolto con favore dalla Giunta, che ritengo destinato a felice conclusione. In proposito, pur senza voler precorrere l’effettiva soluzione del problema, voglio esprimere al Sindaco Fabrizio Barbaranelli ed all’Assessore Nicola Paternoster il mio apprezzamento per aver tempestivamente colto la preziosa occasione che si è presentata.
Sul campanile vorrei aggiungere qualche considerazione all’ottima esposizione di Cesare Marletta. Sant’Egidio era un abate benedettino vissuto tra il VII e l’VIII secolo, morto nel ‘721. Invocato dagli storpi e dai lebbrosi (il che potrebbe far pensare ad un nesso con la vicinanza alle sorgenti termali), è stato particolarmente venerato dai Franchi. A Roma era a lui dedicata una chiesa sul percorso dei pellegrini verso S. Pietro, dalla parte della via Cassia. Della nostra chiesa si hanno scarse notizie.
Il Molletti ne parla confusamente, accennando ad una dipendenza da S. Silvestro in Capite, d’osservanza prima basiliana e poi benedettina, il Calderini riferisce che il campanile sorgeva “fra i rottami di una antica Badia completamente diroccata” (da notare che nel 1898 il ministro Costantini approvò i lavori di risarcimento del campanile, ‘bene inteso che non si superi la spesa prevista di L. 50”).
La torre campanaria parte dal suolo con un basamento pieno, su un lato del quale vi è un arco rastremato simile a quello della porta del castello dell’Abbadia a Vulci. Sopra, delle lesene angolari formano in ciascuna faccia uno specchio centrale incassato, scandito da battute di quattro archetti su peducci. Al centro dello specchio per tre lati, si apre una monofora, vera e propria feritoia di tipo difensivo. Una quarta apertura, oggi slabbrata, fa da attuale ingresso.
Sopra gli archetti, corre orizzontalmente una cornice in nenfro a damier scalettato, oltre la quale la torre si restringe con una fila di blocchi sagomati a scarpa. Su questa restano, dalla parte superiore del campanile, altri 506 filari, con un architrave sagomato a T, che forse indica un’altra apertura. Almeno un altro piano, più sfinestrato, doveva concludere la torre sotto quello di copertura. lì piano delle monofore è coperto da una volta a crociera cilindroidica su costoloni a tutto sesto.
Malgrado le modeste dimensioni, l’esecuzione è accurata e la bicromia portata dalla cornice e dagli archetti dà il segno di una raffinata concezione estetica. lì motivo a dentelli può avere ascendenze islamiche indirette ma proviene dalla Normandia, attraverso architetture dell’ovest della Francia (come nella facciata di Èchillais, qui in fig. 6) e decorazioni lombarde (come nei Profeti del portale di Wiligelmo nel Duomo di Modena, datati 1099-primi del XII secolo). Anche le decorazioni dei plutei e degli altri elementi marmorei portano ad una datazione analoga o più tarda, in confronti con simili motivi del S. Abbondio a Como, del S. Savino di Piacenza, di S. Maria Maggiore nella più vicina Tuscania.
Proprio a Tuscania ci riconduce la struttura del campanile, simile — nelle diverse proporzioni — a quello del S. Giusto. lì che richiama i legami con Farfa e la comune matrice benedettina di obbedienza imperiale. Già nel X secolo sono forti i vincoli di S. Maria al Mignone con S. Giusto.
Nell’XI secolo vi è un rinnovamento architettonico di preesistenti abbazie, che si può connettere all’introduzione a Farfa della riforma cluniacense, con il rifacimento romanico della cittadella monastica (il cui impianto emicentrico non può non richiamare quello di Civita Vecchia). Appunto il campanile della seconda chiesa abbaziale di Cluny riassume e diffonde i più antichi caratteri di origine lombarda, con le lesene angolari, le archeggiature e le cornici che marcano completamente il piano, come ricorda J. Raspi Serra. L’adesione di Farfa alla riforma di Cluny avviene sotto l’abate Ugo, morto nel 1038. Tra il 1066 ed il 1072 si ha la serie di atti per il reintegro dei beni abbaziali da parte di feudatari che li avevano usurpati: tra l’altro, vengono riconosciuti a Farfa i diritti sulla metà dei proventi di Civitavecchia con tutte le sue pertinenze interne ed esterne, tra cui “aecclesias” e “monasteria omnia cum cellis suis”, tranne la chiesa di S. Lustro.
In questo periodo e negli anni successivi (in cui i rapporti tra la Chiesa ed i Normanni di Roberto il Guiscardo vedono fertili influenze anche in campo architettonico, possiamo, probabilmente, situare cronologicamente il nostro monumento.
lì clima propizio ad un certo fervore edilizio è confermato dalla donazione fatta nel 1108 dal vescovo di Tuscania al priore di Centocelle Alfonso Guidotto di un fondo per la costruzione di una chiesa.
Siamo così giunti alle pagine finali del volume, che comprendono un ricco catalogo di Monete correnti nel territorio civitavecchiese tra il X e il XVI secolo, opera paziente e puntuale di Mario Galimberti, ed un repertorio – ampiamente illustrato anche da riproduzioni a colori – scritto da Sandro Angioni sui Ritrovamenti di ceramica medioevale e rinascimentale a Civitavecchia. I due contributi sono di grande importanza perché rappresentano il supporto indispensabile alle ricerche nelle altre banche storiche di cui ci siamo occupati. Non è senza significato che le monete, provenienti da vari siti dell’entroterra, abbraccino un arco temporale assai esteso che parte dal 1000, mentre le ceramiche, provenienti per la quasi totalità dal centro storico di Civitavecchia (e benché siano frutto di ritrovamenti sporadici e non di ricerche sistematiche) datino solo a partire dal XIII secolo.
Gli argomenti da trattare sarebbero ancora numerosi, ma credo di aver sufficientemente delineato il valore della iniziativa della nostra Associazione Archeologica. Alla quale voglio augurare un sempre maggior successo, nella certezza che questo abbia un diretto rapporto con la crescita culturale della città, dalla quale e solo dalla quale può derivare, a sua volta, uno sviluppo armonico di tutte le altre attività sociali ed economiche, nel rispetto per un territorio che è fonte ricca, ma facilmente depauperabile, di conoscenze e di progresso.
FRANCESCO CORRENTI
“L’813, I’823 e l’846 sono le date più probabili dei ripetuti sbarchi arabi a Centumcellae”.
Egregio Architetto questi “arabi” venivano dall’Arabia Saudita ?
http://italyunzipped.blogspot.com/2015/06/rogo-di-biblioteche-e-libri-cronologia.html
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Gentile Architetto, è evidente il proposito di riesumare la memoria dell’Associazione Archeologica Centumcellae. Recentemente anche Odoardo Toti ha ricordato ed esortato un rinnovamento, con nuovi iscritti, dell’Associazione. Ricordo Antonio Maffei, Cesare Marletta, Carlo Alberto Falzetti, Francesco Nastasi, Franco Capuani, mio cugino. Per professione ho dedicato cura alla Storia Generale ed alla storiografia e negli ultimi anni, lontana dalla scuola, sono socia della Società Storica Civitavecchiese, con Presidente Enrico Ciancarini. A mio giudizio, la Società Storica Civitavecchiese ha dato un notevole contributo alla cultura cittadina e non solo. La Società ha prodotto bollettini nel corso degli anni, ha promosso incontri in luoghi storici, ha indagato su aspetti di natura storica, archeologica ed antropologica legati al nostro territorio. I collaboratori hanno acquisito il buon metodo di citare le fonti, più che storici sono stati bravi storiografi. Inoltre Odoardo Toti, che ci tutela, ci ha esortato a ripulire Aquae Tauri e siamo felici di aver aperto la strada al progetto universitario sugli scavi ad Aquae Tauri. E’ vero, tra storici, archeologi vi sono screzi, a volte motivati. Prendiamo ad esempio la ripulitura della presunta villa pulcherrima. Proprio il dottor Toti ha ricordato il ruolo dell’Associazione Centumcellae e della sezione archeologica della Società Storica Civitavecchiese, curata da Glauco Stracci, senza far intervenire , per la ripulitura, il Gruppo Archeologico Romano. Io mi diverto quando vedo su facebook screzi e gelosie, forse perchè abituata al colloquiare di J. Le Goff con J.P.Vernant ! Illuminante , a questo proposito, la storia personale del collega Giovanni Insolera, che ha preferito la sua terra d’origine, Corneto.
Ho tra le mani ” Iscrizioni e stemmi pontifici nella storia di Civitavecchia”, Associazione Archeologica ” Centumcellae”, con fotografie di Gigi Seghenzi, 1984. Ricordo in quegli anni una prima lezione itinerante per gli studenti liceali curata da Giovanni, partendo dalla iscrizione di Leone IV ( 854 ) fino allo stemma di Enea Silvio Piccolomini. Tra una pizza della Ternana o un panino alla nutella, noi insegnanti esortavamo gli studenti, con l’esempio, a riconoscere gli spazi storici della Città. Questi bistrattati insegnanti, quanti li potrei nominare! Dico spazi storici, ma non si devono dimenticare i tempi: quel ribollire degli anni Sessanta e Settanta, i legami con il Partito Comunista e la rottura con il Partito Comunista. Credo che l’ottimismo di allora non possa essere più valido ora; io avrei problemi con il revisionismo storico di ora…assieme alle scie chimiche ed alla terra piatta…
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Aggiungo questa breve nota al mio commento di questa mattina.
Dicevo degli spazi storici e devo ricordare La Casa della Memoria Civitavecchiese in Piazza Leandra. In inizio la stessa, voluta da Enrico Ciancarini , Società Storica Civitavecchiese, e da Annalisa Tomassini, era situata nella Galleria del Melograno della Biblioteca comunale, anzi avevamo un ampio locale al piano terra che dava sul cortile, ma fummo sfrattati e , per buona sorte, ci fu dato un angustissimo locale in Piazza Leandra, di fronte alla sede dell’Associazione Centumcellae. Bene, uno spazio nel centro storico, nell’ombelico della Città Vecchia! La Casa della Memoria continua la sua azione con lodevoli iniziative fotografiche, in particolare curate dall’Associazione fotografica di Civitavecchia e da Francesco Cristini. Alla supervisione rimane “Gigi Veleno”, che iscrive, consegna i bollettini ai soci e…accoglie i croceristi.
Forse il messaggio del tuo articolo, gentile architetto, è anche il mio, di Ciancarini, di Toti, di De Paolis, di Maffei: “ Come rimettere la storia, l’archeologia, l’urbanistica, l’ antropologia urbana ( non dimentichiamo il ruolo avuto da L’Osteria della Memoria, Società Storica Civitavecchiese) al centro del dibattito pubblico? Come chiedere “ elemosine” all’Amministrazione Comunale di Civitavecchia per sostenere iniziative culturali e per far rivivere Piazza Leandra, con i suoi abitanti, come soggetti attivi e partecipanti?
Ho tra le mani i saggi che tu, Architetto, hai ricordato: Odoardo Toti, La città medioevale di Centocelle; Civitavecchia ed il suo entroterra durante il Medioevo, Antonio Maffei, Cesare Marletta…a cura della Associazione Archeologica “ Centumcellae” . Spesso ho consultato il saggio di Marletta su S. Egidio vecchio presso le Terme di Traiano, con la preziosità degli appunti del Bastianelli. Ho tra le mani “ Chome lo papa uole”, dove posso leggere di Leonardo da Vinci, Manzi , Annovazzi e Bastianelli. Posso sognare il Palazzo di Diocleziano a Spalato ( 293-305) e la villa pulcherrima “ imminet litori”, dopo aver letto , in modo dettagliato, la questione dell’ ubicazione della villa.
Rido e mi diverto a seguire gli screzi di archeologi e dilettanti archeologi, che fanno parte della mutazione antropologica urbana; provo una sana e morbosa curiosità per gli spazi storici e adoro Marc Augé, che a proposito dei non luoghi sottolinea: …le componenti principali del paesaggio della periferia urbana odierna ( grandi centri commerciali, Fiumaretta, ex Italcementi) condannano l’individuo alla solitudine e all’anonimato proprio nella misura in cui questo paesaggio squalifica, …” perduto tra un passato senza traccia e un futuro senza forma”.
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Avevo letto a suo tempo questi commenti di Paola Angeloni ma non ero riuscito a rispondere, perché, devo dirlo sinceramente, allora non avevo capito come non far sparire quello che scrivevo. Adesso che l’ho capito, dati gli scambi di idee con Paola di questi giorni, preferisco rifarmi alle cose scritte appunto ultimamente, ma anche di ripromettermi di esprimere compiutamente e direttamente il mio pensiero in una occasione che desidero organizzare per i primi di ottobre, in cui mi auguro di riuscire a fare incontrare e dialogare le diverse “voci” per giungere ad un clima più sereno, indispensabile per raggiungere obiettivi che sono comuni e certamente condivisi.
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