IL COMPAGNO OSVALDO

 di DARIO BERTOLO ♦

Mi chiamo Osvaldo. O meglio, così mi facevo chiamare. Dicono che c’è una persona che vorrebbe rivedermi. Mi stupisco che qualcuno si ricordi di me, ormai il velo calato della storia ha svolto il suo compito, aiutato dal suo fedele e pietoso scudiero, il tempo.  Quindi aspetto, penso, ricordo. Ormai saranno passati 46 anni da quella mattina di metà marzo, fredda e umida come solo la Brianza sa accogliere. In realtà, e me lo ripeto spesso, ancora oggi non ho ben chiaro se sono stato io il carnefice oppure la vittima. In entrambi i casi, comunque un coglione. La bomba la volevo mettere davvero, e sarebbe stato un messaggio forte verso la azione destabilizzante sul ceto proletario da parte dell’imperialismo borghese, quello stesso che sulle spinte capitalistiche occidentali ha spalancato le porte all’impoverimento della classe operaia. Parole che so a memoria, chissà quante volte ripetute durante le fumose riunioni anarchiche dentro le stanze con le persiane socchiuse di via Romagnosi a Milano. Una utopia, certo, ma che coinvolgeva, aggregava. Scintilla divampante degli infiniti dibattiti nei quali parole come “lotta armata”,”rivoluzione “ e “rinascita operaia” erano il grido di battaglia a cui nessuno di noi si sottraeva, persi come eravamo nella convinzione ferrea e incrollabile che la società distopica nella quale vivevamo avrebbe potuto essere trasformata solo attraverso una rinascita culturale con basi anti occidentale e con una presa di coscienza collettiva. La Rivoluzione, certamente. Cruenta, come deve essere una rivolta sociale, ma con un obiettivo ben chiaro: l’annientamento totale della classe politica, sovranista e lobbistica, indiscussa padrona del Paese e la ricostituzione della democrazia sociale proletaria, esercitata dal popolo sovrano.

Con quali armi avrebbero potuto combatterci? Perché era indubbio che avrebbero reagito, come fa un animale ferito sotto attacco. Con ferocia, indubbiamente, ma anche con le trame striscianti e i subdoli intrecci, utilizzando le armi di propaganda e le paure collettive, retaggio di ferite ancora non rimarginate. 

Un colpo di Stato? Certo, lo ipotizzammo. Lo studiammo, e prima del 12 dicembre 1969 eravamo addirittura convinti che sarebbe stato imminente. E drammatico per noi, i nostri figli e le future generazioni. Dopo quella mattina le nostre certezze si disgregarono, perse come le speranze. Nessuno, fu la conclusione di alcuni di noi, sacrifica i propri figli per salvare i padri. Io non ero d’accordo. I potentati governativi, quelli economici, l’immagine rassicurante di una falsa, ma inevitabile trasmigrazione in positivo del malessere sociale post bellico, l’infondato perbenismo culturale e l’illusorio benessere economico mutuato dal dilagante consumismo a cui niente e nessuno può, e vorrà, rinunciare. Questi, ma molti altri, sono stati gli artefici della scissione politica ed ideologica voluta a tutti i costi per sovvertire il tessuto collettivo di un paese, altrimenti portato verso una visione socialista con forti connotazioni di sinistra radicale. Un prospettiva talmente allarmante che, pur di evitarla, si ricorse alla “contro-strategia” del terrore pianificata da quella parte oscura, bramosa e cospiratrice dello Stato, sacrificando, appunto, chiunque avesse ostacolato la genesi.

Ne ero già certo due anni prima, all’epoca del “golpe dei colonnelli” in Grecia. Nessuno mi credette, nessuno pensò che la deviazione autoritaria fosse “una delle”, se non “la” via obbligata al trionfo delle oligarchie nazionali il cui potere veniva scalfito ogni giorno sempre di più da un vento reazionario che stava soffiando impetuoso e dirompente in un paese inerte che imboccava speranzoso ,ma con fatica, il percorso di ribellione ai dettami coercitivi economici e politici imposti dalle potenze alleate dopo la guerra, e in particolare dagli Stati Uniti, o per dirla meglio, dagli “AmeriKani”.

Dopo la strage di Piazza Fontana, disorientamento e sconforto ci pervasero per alcuni mesi. Fin quando l’indole guerriera dei partigiani comunisti ebbe, finalmente, il sopravvento. Non a caso la sigla di lotta GAP così recita: Gruppi d’azione partigiana. Così come la “Voce Comunista”, il giornale che ho diretto fintanto che lo Stato assassino me l’ha tolta, la voce.

E così il pensiero ritorna inevitabilmente a quel momento, al sordo boato, preludio dell’abbandono dei sensi e padre dell’oblio. Non so se, in tutto questo tempo, ho avuto ragione oppure torto. Non so se le generazioni dopo di me hanno saputo far luce sui tanti misteri irrisolti e oscuri di quella straordinaria, tragica stagione. Del resto, non so neppure che senso avrebbe, per me, saperlo.

D’improvviso sento dei passi, leggeri. Una porta si apre e un ombra, dapprima immateriale e sbiadita poi sempre più definita, appare. La conosco, certo che la conosco.

E’ Inge…, la mia Inge

Finalmente potrò chiederle se non sarò morto invano.

Berto 2

 

DARIO BERTOLO

—————–

Giangiacomo Feltrinelli era figlio di Carlo, che tra gli anni Venti e la prima metà degli anni Trenta fu in esponente di spicco della finanza italiana.

Rimasto orfano di padre nel 1935, si stabilì con l’adorata madre Gianna Elisa Gianziana a Roma e fu proprio lì che durante la seconda guerra mondiale aderì al Gruppo di Combattimento Legnano, contribuendo alla liberazione del paese dai nazifascisti. Alla fine della guerra si iscrisse al Partito Comunista Italiano e nel 1948, a Milano dove nel contempo si era trasferito, lavora alla realizzazione di una Biblioteca che potesse raccogliere materiale e documenti inerenti la storia del movimento operaio italiano e internazionale.

All’inizio del 1949 promuove la nascita della Cooperativa del libro popolare (Colip), il cui fine è la promozione della letteratura e della cultura a un prezzo accessibile presso i giovani e presso le classi popolari.

Nel 1951 viene aperta a Milano, in via Scarlatti 26, la Biblioteca Giangiacomo Feltrinelli, costruita grazie alla collaborazione di giovani storici e di esponenti dell’intellettualità.

Nel 1952 fonda la rivista “Movimento operaio”.

Nel 1955 fonda la Giangiacomo Feltrinelli Editore

Nel 1956, a causa dei fatti d’Ungheria, firma una lettera aperta di condanna dell’intervento sovietico nel paese satellite e l’anno successivo rompe definitivamente con il Pci.

Nel 1958 pubblica il “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa mettendo a segno un altro grande successo internazionale.

Il 14 luglio 1959 Giangiacomo conosce Inge Schonthal, che sposerà in Messico in quell’anno.

Il 25 marzo del 1961 viene inaugurata la nuova sede dell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli a Milano, in via Romagnosi 3. L’inaugurazione avviene alla presenza dell’allora ministro della Pubblica Istruzione Giacinto Bosco e di numerosi studiosi italiani e stranieri.

Nel 1964 Feltrinelli compie il primo viaggio a Cuba, stabilendo un sodalizio con Fidel Castro.

Nel 1967 fonda e dirige l’edizione italiana della rivista “Tricontinental”, organo bimestrale dell’organizzazione di solidarietà dei popoli d’Asia, Africa e America Latina.

Nel 1968 Fidel Castro affida a Feltrinelli il Diario di Bolivia di Ernesto Che Guevara. L’edizione italiana sarà la prima traduzione mondiale.

Nello stesso anno si recò in Sardegna, per prendere contatto con gli ambienti della sinistra e dell’indipendentismo isolano.

Il 12 dicembre 1969, ascoltata alla radio la notizia della strage di Piazza Fontana, mentre si trovava in una baita di montagna, decise di tornare a Milano. Feltrinelli, che aveva preso a finanziare i primi gruppi di sinistra decise di passare alla clandestinità a seguito di una serie di sospetti e voci di un imminente arresto per la sua vicinanza agli ambienti anarchici.

Nel 1970 fonda I GAP (Gruppi d’Azione Partigiana)

La notte del 14 marzo 1972 Giangiacomo Feltrinelli viene ucciso da un’esplosione, presso un traliccio dell’alta tensione a Segrate. La tesi ufficiale parla di un incidente occorso nella preparazione di un attentato dinamitardo. Ma da subito la versione ufficiale suscita parecchie perplessità.

Il 28 marzo 1972 si svolsero i funerali al Cimitero monumentale di Milano, con i giovani che intonarono L’Internazionale e lanciarono slogan contro la «borghesia assassina».

Il 20 settembre 2018 muore a Milano Inge Feltrinelli, nata Schönthal