STORIA DI UN ALLENATORE
di STEFANO CERVARELLI ♦
In questi giorni il nostro calcio è in festa sia per vittoria sulla Polonia e che per le celebrazioni del 120° anniversario della fondazione della FGCI. Celebrazioni il cui punto più alto si avuto con il ricevimento in Quirinale da parte del Presidente della Repubblica Mattarella di tutte le maestranze calcistiche; non sono mancati, ovviamente, tanti bei discorsi incentrati sul nostro valore, sulle speranze, sui traguardi da raggiungere non mancando, naturalmente, da parte di nessuno consigli e suggerimenti su come il nostro sport nazionale debba migliorarsi, anzi, usando un termine del nostro Presidente” modernizzarsi”.
In questa cornice di festa ed autocelebrazione la Gazzetta dello Sport si è resa artefice di un gesto di grande sensibilità che acquista più valore CONSIDERANDO I TEMPI CHE STIAMO VIVENDO.
Un gesto che vorrei riproporre ai nostri amici che magari non hanno l’abitudine, o il tempo, di leggere il giornale rosa.
Si tratta di questo.
Il 16 ottobre 1938, esattamente ottant’anni fa, in una grigia domenica d’autunno, lo stadio Littoriale di Bologna non era pieno, solo 9.000 persone. Cominciavano tempi magri, i soldi più che per andare allo stadio servivano a casa per cose più importanti, non ultima la necessità di mettere insieme il mangiare per famiglia.
Quella domenica si giocava Bologna-Lazio. Vinse il Bologna 2-0. Quelle 9.000 persone lasciarono lo stadio soddisfatte della vittoria della loro squadra e non sappiamo se in seguito ebbero la percezione di aver non assistito solo ad una partita bensì ad una partita destinata a passare alla storia come l’ultima partita dell’allenatore Arpad Weisz.
Chi era? Un ebreo di origine ungherese che, precedentemente, alla guida dell’Inter aveva avuto il grande merito di scoprire Giuseppe Meazza, quando questi era ancora giovincello e non immaginava certo che sarebbe divenuto uno dei più grandi, se non il più grande, giocatore italiano.
Weisz a Bologna era arrivato nel 1935, portando la squadra rossoblu a vincere due suddetti (1936.1937) riuscendo poi, impresa quasi impossibile a quel tempo, a battere la squadra inglese del Chelsea nella finale di un torneo europeo.
Le sue capacità erano notevoli ed i suoi metodi completamenti rivoluzionari nel calcio di allora.
Basti dire che era sua abitudine disegnare schemi alla lavagna che poi faceva regolarmente provare e riprovare ai suoi giocatori con lui stesso sul terreno di gioco a muoversi ed impartire disposizioni.
Questo quando i tecnici di allora erano soliti dirigere l’allenamento dai bordi del campo in giacca e cravatta.
Fu grazie lui che in Italia si conobbe quello che poi divenne” l’eccellente calcio danubiano”.
Però……però arrivò il giorno che in Italia, in pieno regime fascista, per l’allenatore ebreo non c’era più posto: erano state promulgate le leggi razziali.
Fu costretto a lasciare la guida del Bologna e successivamente, nel gennaio 1939, dovette scappare con la famiglia prima a Parigi, poi in Olanda, dove ebbe la possibilità di allenare.
Qui, però, venne scoperto dai nazisti, arrestato dalla Gestapo il 2 agosto 1942 e deportato, insieme alla famiglia, in un campo di concentramento.
La moglie Elena e i due piccoli figli Roberto e Clara vennero quasi subito mandati alle camere a gas di Birkenau. Lui Arpad Weisz fu destinato ai lavori forzati in Alta Slesia dove, stremato dal dolore, dalle fatiche e denutrito, morì il 31 gennaio 1944.
Nello stadio di Bologna una targa ne ricorda la memoria.
Che dire? Quali parole aggiungere?
Grazie alla Gazzetta che con questo ricordo incorniciato in pagine di cronache cerimoniali un giorno in cui il giornale sarà andato in mano a tanti giovani (grazie anche ai successi della pallavolo femminile) e usando il calcio come mezzo, fa sì che certi episodi, certi tragici momenti storici, non vadano dimenticati perché rappresentarono l’estrema conseguenza prima della discriminazione e poi dell’odio razziale.
Un odio sulla cui origine non si rifletterà mai abbastanza.
STEFANO CERVARELLI