SULLE ORME DI SAM PECK – Messico, Chiapas (II)

di GIANCARLO LUPO ♦

A 10 anni dalla rivoluzione zapatista (prove per un turismo surreale)

Ogni tanto mi avvicino a Christian che continua a lavorare. “Che stai facendo?” gli chiedo.

“Una base per installare una cucina in uno spazio comune”.

Ha iniziato da sei settimane e non è ancora a metà dell’opera.

Parliamo ancora con le ragazze italiane che hanno avuto varie peripezie, Veronica è stata colpita dalla maledizione di Montezuma, ovvero ha avuto una intossicazione alimentare da cui si è ripresa solo recentemente; Barbara invece ha riportato una ustione di secondo grado alla mano due giorni fa per spegnere una candela che stava mandando a fuoco la capanna avuta in assegnazione. Ha ancora la fasciatura.

I surreali pericoli del combattimento rivoluzionario per i turisti occidentali.

Cerchiamo di capire come funziona la vita a Oventick, ma anche le due ragazze sono arrivate da pochi giorni, anche loro hanno dovuto lasciare i passaporti che riprenderanno al ritorno.

Intanto è già tardi, rimandiamo la visita al giorno successivo. Ritorniamo alla capanna e dormiamo vestiti dentro i sacchi a pelo. Fa molto freddo, le tavole di legno sono scomodissime e gli spifferi entrano dalle fessure delle pareti di legno e lamiera.

Dormiamo a tratti, poi verso le 4 e 30 i primi rumori. Tra l’altro non è chiaro quale orario dobbiamo seguire. Il Chiapas è uno dei pochi posti, sempre per rimanere nel campo del surreale, che ha tre tipi di orario: ufficiale, governativo e rivoluzionario. Le lancette segnano sempre ore diverse.

La nostra capanna dà proprio sulla strada e siamo svegliati da un suono ininterrotto di clacson. Christian mi informa sulla causa del rumore, il venditore di tortillas annuncia l’arrivo dei suoi prodotti ai campesinos che vanno a lavorare nei campi.

Gli chiedo a che ora inizia la scuola, quando cominciano le attività, quando Ishmael (è lui a dirigere i lavori degli osservatori internazionali) ci dirà che cosa possiamo fare per aiutare la comunità. Christian afferma di non sapere niente e rimane sul vago. Delle due l’una, o vige una segretezza estrema, oppure qui la concezione del tempo, coi tre differenti tipi di orario, è solo funzionale al caos. Non esistono problemi spazio temporali. È tutto relativo: la scuola inizia quando arrivano i bambini e i lavori si decidono sul momento. L’eterno “Ratito” aleggia sempre.

Con la luce del sole possiamo osservare meglio l’accampamento. Le case si affacciano su un pendio molto inclinato. Dall’altro lato della strada maestra c’è il nostro capannone. In fondo al declivio, su un piano, è costruito un campo da pallacanestro. Sulla sinistra una casa a due piani, la clinica zapatista. Vanessa, l’infermiera francese che fa subito amicizia con Rosi, ci racconta che la clinica, La Guadalupana, è stata inaugurata nel 1992 da un certo Anastasio, un medico molto amato dagli indios.

La clinica è abbastanza funzionale, uno studio dentistico, uno studio oftalmico e uno studio ginecologico. Non è ancora completa, mancano molti medicinali e moltissimi materiali, ma c’è anche una sala operatoria. Nella Guadalupana è presente solo una piccola farmacia con i rari medicinali della solidarietà internazionale. In compenso hanno una grande quantità di prodotti di erboristeria che qui rappresentano la medicina tradizionale.

Le ragazze triestine ci avevano preannunciato che c’è molto bisogno di dottori e infermieri.

Gli indios seduti davanti ai porticati ci guardano, salutano e sorridono se noi salutiamo e sorridiamo. Una donna è intenta al suo telaio. Un bambino mangia una pannocchia di mais più grande di lui. Cani e galline condividono lo stesso spazio degli uomini, alcune bestie sono proprio male in arnese. Incontriamo il tipo che ci ha sequestrato i passaporti il giorno prima e proviamo a chiedere informazioni. Non sa niente e sembra anche un po’ scontroso. In fondo è colpa nostra, ci siamo mostrati troppo diffidenti il giorno prima con i passaporti. Quando ci allontaniamo sento che sputa per terra dietro di me, nel modo che hanno gli indios per mostrare risentimento verso gli stranieri. Tzozil è l’etnia e l’idioma predominante a Oventick. Negli anni ottanta Samuel Ruiz, allora vescovo di San Cristóbal de Las Casas, scelse il tzozil come lingua sacra e in questa lingua tradusse la Bibbia.

L’opinione pubblica riveste un ruolo importante, fondamentale, nella lotta, ma noi rimaniamo corpi estranei. L’opinione pubblica è il sostegno principale della Rivoluzione e della guerriglia che si combatte nella foresta, dove le condizioni di vita non hanno niente a che vedere con quelle che vediamo qui. Questo accampamento, benché povero, non si può negare, è una sorta di isola felice rispetto ai campi nomadi nella foresta, dove non c’è acqua (i guerriglieri a volte sono costretti a bere la loro orina), c’è penuria di cibo ed è difficilissimo garantire ai bambini istruzione e cure mediche.

Da lontano vediamo Christian e Veronica che calpestano materia melmosa in una fossa.

Da ieri millantavo che li avrei aiutati e a questo punto non posso certo tirarmi indietro.

“Venite,” ci dicono ridendo.

Riccardo vuole scattare le foto. C’è una bellissima luce e non può perdere l’occasione. Prima defezione. Rosi continua la visita dell’infermeria insieme a Vanessa. Seconda defezione.

E io? Non ho scelta, devo darmi da fare. Mi tolgo le scarpe ed entro nel pantano. Veronica mi informa che si tratta di merda di vacca mischiata a sabbia e acqua. Va calpestata per sminuzzarla.

“Questo è il nostro lavoro oggi,” dice Christian continuando a ridere. “Pestare merda.”

Il giorno prima, lui e Koji avevano sbriciolato la sabbia e l’avevano buttata nella buca. Oggi dobbiamo aggiungere merda, acqua e altra calce e rimescolare l’impasto ottenuto coi piedi. Intanto l’altra ragazza e Koji sfilacciano le foglie delle pannocchie di mais. Quelle non troppo secche però, in caso contrario non sono ben resistenti. Le foglie sfilacciate serviranno per dare struttura ai mattoni rudimentali.

Gli indios fanno proprio tutto con il mais. Vestiti, pane, mattoni.

Lavoriamo tutta la mattina. Riccardo scatta delle foto ai bambini che giocano a pallacanestro instancabili, riescono a giocare finché non tramonta la luce del sole.

Finalmente arriva l’ora del pranzo. Ci sediamo a tavola e preghiamo Montezuma di non lanciarci la sua maledizione. Non sappiamo che ore sono, non sappiamo quando andremo via, sappiamo solo che qui stiamo bene, anche se difficilmente riusciremo a comprendere realmente le necessità e la vita degli indios, anche se loro ci tratteranno sempre con un certo sospetto.

Per ora stiamo bene.

Dividiamo il pranzo e le risate con i visitatori internazionali, mentre tutto sfuma nel clima surreal rivoluzionario di Oventick.

GIANCARLO LUPO

Articolo scritto nel dicembre 2004

Post fatto:  Nel 2014 il subcomandante Marcos (vero nome Rafael Sebastian Guillén), allora 56 anni, rassegna le sue dimissioni come portavoce dell’Ezln, dopo quasi due decenni da leader.