All’origine dello stato e della sovranità. Prima parte.
di ANTONIO MAFFEI ♦
Mi complimento con Nicola R. Porro per gli articoli pubblicati su spazioliberoblog, che hanno evidenziato le sue profonde ed estese conoscenze sulla società, su come funziona e come cambia il potere, sul populismo e i populisti.
La lettura degli articoli di Nicola mi ha fatto fare alcune brevi considerazioni e mi ha impegnato moltissimo per la vastità dell’argomento trattato, anche se, certamente, non faccio parte della diffusa corrente di pensiero che ha come scopo principale leggere poco e con scarsa attenzione.
Il termine “populismo” è uno dei più ricorrenti nel dibattito politico attuale. I vocaboli “populismo” e “populisti”, ormai diventati di uso comune, sono derivati, come è noto, dalla parola “popolo”.
Il vocabolo popolo nel suo senso più peculiare rappresenta il complesso degli individui di uno stesso paese che, avendo origine, lingua, tradizioni religiose e culturali, istituti, leggi e ordinamenti comuni, sono costituiti in collettività etnica e nazionale, o formano comunque una nazione (Treccani). E’ anche una espressione giuridica, ed ha un valore storico-culturale o religioso, che indica l’insieme delle persone fisiche che sono in rapporto di cittadinanza con uno Stato tali da essere titolari della sovranità che il più delle volte non viene esercitata in maniera diretta, ma delegata a uno o a più rappresentanti.
In epoca romana ben note sono le suddivisioni di classe in patrizi e plebei. Nella tarda romanità prevalse il termine “proletariato” che indicava la massa di popolazione che aveva come ricchezza solamente i propri figli (prole).
I Tedeschi privilegiarono il vocabolo “Volkskunde”, che venne coniato prima dell’inglese folklore. Il termine “Volkskunde” in origine significava “popolo” o meglio “il popolo armato in marcia”. Muoversi in gruppo con le armi pronte ad ogni attacco nemico produceva, spontaneamente, un’estasi di gruppo in una forma molto cosciente. Questi concetti furono ripresi nel novecento dal Nazionalsocialismo quando istaurò la politica della “Gioia di massa” con la costruzione dei vasti villaggi delle vacanze e delle navi da crociera popolari. Tutti potevano andare in vacanza a prezzi molto contenuti. Con questa politica si ottennero, in modo indotto, dei notevoli risultati di fiducia e distensione nella popolazione tedesca.
Come espressione della cultura urbana, definita anche come “civiltà”, nei comuni medievali, in opposizione all’oligarchia degli ottimati, si parlava di governo del popolo, di casa del popolo e il capitano del popolo ne era spesso la massima autorità. Ma è con l’epoca delle rivoluzioni, e, in modo peculiare, con la Rivoluzione francese che si conferma, in forma definitiva, l’idea di sovrapposizione e fusione tra la democrazia e il governo dell’intero popolo, come riconosce anche la nostra Costituzione, quando stabilisce, nel suo primo articolo, che la sovranità appartiene al popolo. E in nome del popolo italiano è la solenne formula di atti particolarmente importanti come le sentenze dei tribunali, in cui la magistratura riconosce di agire, in base alla legge, per conto del popolo sovrano. In nome del popolo sono state tuttavia esercitate spesso forme di governo autoritarie e dittatoriali.
Nel 1919 fu fondato da don Luigi Sturzo il Partito Popolare Italiano, rappresentante da un lato la difesa dei valori cristiani, dall’altro il legame con i Liberi Comuni medievali italiani, da qui il forte impegno per il decentramento amministrativo ed uno Stato più snello. Il P.P.I. permise alle masse cattoliche di entrare nel gioco politico, superando la tradizionale posizione cattolica di estraneità alle cose del Regno. Fu un partito politico di cultura popolare, definita popolarismo, che parlava il chiaro linguaggio della democrazia e della libertà.
Il popolarismo non si deve confondere con il populismo e con i populisti. Il populismo (dall’inglese populism, traduzione del russo народничество narodničestvo) è un atteggiamento culturale e politico che esalta genericamente il popolo, sulla base di principi e programmi ispirati a una visione demagogica del socialismo. Il populismo può essere sia democratico e costituzionale, sia autoritario. Nella sua variante conservatrice è spesso detto populismo di destra.
Molto note sono le manifestazioni del populismo russo nato a fine ottocento e quello latino-americano messo in evidenza tra il XIX e il XX secolo, che con il fenomeno contemporaneo hanno ben pochi elementi di contatto. Nicola R. Porro, ispirato da una vasta letteratura, pone l’attenzione sull’esame del come anziché sul cosa delle organizzazioni dei populisti, adottando un interesse particolare alla personalità del loro leader che, senza una chiara ideologia politica, è perennemente in conflitto con i diversi modelli di governo e mostra, in forma più o meno evidente, una enorme sfiducia dell’avversario politico. Il leader populista, con una forte personalità e teatralità, comunica alle masse, con degli abili artifici linguistici, le verità mai rivelate.
Come ha osservato Luciano Damiani, in risposta all’articolo di Nicola, “Ho letto attentamente, sperando di non aver perso qualcosa, questo articolo. Vorrei citare qualche passo, ma mi limito a notare come sia, secondo me giustamente, riconosciuto il fatto che il populismo non sia prerogativa di alcuni ma più o meno di tutta la politica aggiungerei “importante” ovvero di tutti quei partiti che ambiscono a porzione di potere. Sono convinto che il metodo populista sia l’inevitabile conseguenza del fatto che la politica, intesa come lotta fra parti, ha nella promessa e nell’ingiuria, le armi più comuni. Come populista è la “guerra” alla casta, altrettanto populista è in modo e sostanza l’azione degli avversari politici. Basti, per essere attuali, vedere come tutti i partiti in lizza per un posto a Palazzo Chigi abbiano inventato la propria versione del “reddito di cittadinanza”, chiamandolo diversamente e proponendo diversità che non lo rendono in realtà gran che diverso dagli altri. Potremmo disquisire sui populismo dei bonus come di quelli marchiati Berlusconi, passando per leghe e case varie. Che lo si usi per conquistare posizioni di potere o per mantenerle, fa poca differenza”.
Condivido l’osservazione di Damiani e ritengo che il termine “populista” sia troppo generico. Tutti i leaders, da che mondo è mondo, hanno una forte componente di teatralità che contribuisce ad evidenziare la loro personalità utilizzata per affascinare la folla. Sarebbe meglio parlare di una “mentalità e di uno “stile” populista. Reputo molto interessante affrontare anche l’argomento relativo alle nuove forme di “nazionalismo” confrontandole con le forme di “paternalismo-populismo-nazionalismo” di Mussolini e di Hitler.
Peter Wiles ha scritto “A ognuno la sua definizione di populismo, a seconda del suo approccio e interessi di ricerca” (Wiles 1969). E’ necessario ciò nonostante prendere atto che i termini populismo, populisti e nazional populismo sono diventati di uso corrente.
La verità, tuttavia, si conosce solo a piccole dosi. Formulando l’augurio che il mio lavoro possa servire per ulteriori approfondimenti della ricerca, nella seguente relazione cercherò, sulla base delle mie conoscenze e delle mie ricerche, spesso rimaste ancora inedite, di sviluppare le ipotesi sinora elaborate sul’evoluzione dell’idea dello stato e della sovranità cercando di individuare e risolvere dei passaggi rimasti poco chiari.
Questa mia ricerca evidenzia come il nostro paese abbia concepito, prima della Grecia, delle originali forme di potere. Per non appesantire la lettura ho ridotto al minimo i riferimenti bibliografici, che sono riportati per intero nella ricerca che ho pubblicata l’anno scorso (Maffei 2017).
Etruria meridionale. La “riforma” demografica del Paesaggio Culturale nell’evoluzione dall’Età del Bronzo Finale alla Prima Età del Ferro.
Gli insediamenti costieri dei “navigatori tirreni”.
Come area “campione” ho scelto l’Arco del Mignone (Maffei 1990 a; Maffei 2012 b, 9), territorio omogeneo dal punto di vista antropogeografico, oggetto da più di cento anni delle ricerche sistematiche dell’Associazione Archeologica Centumcellae, che si presta, in modo particolare, ad una verifica molto dettagliata presentando delle situazioni storiche ed archeologiche chiare e di grande evidenza per questo tipo di esame.
Ubicato tra le città di Tarquinia e Cerveteri, l’Arco del Mignone, che comprende i territori dei comuni di Civitavecchia, Santa Marinella, Allumiere, Tolfa e parte di Tarquinia, è relativo all’entroterra della città romana di Centumcellae, l’attuale Civitavecchia, e costituisce un omogeneo bacino antropogeografico esteso per circa 600 chilometri quadrati in un’area posta subito a nord di Roma, facente parte dell’antica Tuscia e delimitata dal mar Tirreno e dal sinuoso arco finale del fiume Mignone.
Tale territorio, caratterizzato nella zona centrale da un importante bacino minerario e dal massiccio boscoso di Allumiere-Tolfa, e costituito da aspri monti vulcanici che si elevano maestoso tra le fertili pianure di Cerveteri e di Tarquinia, da millenni è stato destinato, in gran parte, a pascolo brado per cavalli e vacche di una razza molto rustica, simile alla maremmana, che si è selezionata naturalmente.
La vocazione economica a pascolo brado cespugliato ed arborato, che non necessita di nessun tipo di lavorazione del terreno, nell’Arco del Mignone ha vincolato i “Paesaggi Culturali” che sono rimasti immutati da millenni, anzi, utilizzando le parole di Emilio Sereni, “fossilizzati”, favorendo, in modo determinante, la conservazione dei resti materiali del passato dell’uomo.
Nell’Arco del Mignone durante l’Età del Bronzo Antico, Medio e Recente, in località interne e sul litorale di Civitavecchia sorsero i primi consistenti nuclei abitati riferibili alla cultura Appenninica (Barbaranelli 1954-55; Maffei 1971).
Gli insediamenti occupano spesso siti naturalmente fortificati sovrastanti i principali corsi d’acqua, come Luni sul Mignone, San Giovenale, Tufarelle, Codata delle Macine, Pian Sultano, o sorgono su alture isolate e scoscese, come la Castellina sul Marangone, l’Elceto, la Rocca di Tolfa, la Tolfaccia, Monte Rovello, Quota 77, Oliveto di Cencelle, Omo Morto, Poggio della Nebbia.
Sulla stessa costiera tirrenica di Civitavecchia, alla foce del Marangone, delle Guardiole e del Malpasso, troviamo delle notevoli testimonianze di abitati sorti in funzione di ottimi approdi naturali e risalenti all’età del Bronzo Antico, Medio e Recente.
A queste antiche popolazioni, che consolidarono ed affinarono le precedenti esperienze di navigazione sul mare, si devono i primi rapporti commerciali e culturali con le isole del Tirreno e con le lontane terre della Grecia.
A Luni su Mignone (Östemberg 1967, 128) e a Monte Rovello (Toti 1973), il ritrovamento di frammenti ceramici micenei, ci offre una tangibile testimonianza di quei contatti culturali e commerciali che le popolazioni locali ebbero con i famosi Achei, descritti nel poema d’Omero.
Nella successiva età del Bronzo Finale (1100-900 a.C.), nell’Arco del Mignone si nota un fenomeno definito come “affermazione degli insediamenti su area difesa” che vede un intenso popolamento nella zona montuosa centrale di Allumiere e Tolfa e sulle pianeggianti castelline tufacee che si ergono a strapiombo per 40-50 metri sul fiume Mignone e sul rio la Vesca. In questi insediamenti naturalmente fortificati e ubicati in posizione arroccata e strategica, le testimonianze della cultura materiale rivelano il fiorire della vivace facies di Allumiere, che costituisce l’aspetto più significativo della civiltà Protovillanoviana (Toti 1973).
I venti insediamenti riferibili con certezza a questa cultura presentano opere artificiali di difesa, che potenziano l’arroccamento naturale e delimitano un’area variabile da tre a cinque ettari. Insediamenti protovillanoviani più estesi di dieci ettari sono ipotizzabili solamente per Luni sul Mignone, San Giovenale, l’Elceto, la Tolfaccia.
Durante l’Età del Bronzo Finale, in posizione dominante sulla costa, come avamposto e sbocco sul mare delle comunità protovillanoviane dell’interno, troviamo solo l’abitato fortificato della Castellina sul Marangone, disposto sopra una ripida collina per controllare la via naturale di penetrazione dal mare al bacino minerario di Allumiere.
I ritrovamenti archeologici hanno da tempo evidenziato per la Civiltà Protovillanoviana l’esistenza di una organizzazione pubblica complessa e variegata riconducibile ad una forma molto avanzata di società che da tempo aveva superato una strutturazione definibile con il termine generico di chiefdom.
Il sistema insediativo arroccato per natura dell’Età del Bronzo presuppone una conflittualità tra i singoli stanziamenti o tra insiemi di stanziamenti. In questo periodo, quando nel territorio scorrazzavano gruppi armati di aggressori, abitare in un luogo ben difeso era una necessità vitale.
La presenza in questi insediamenti di spessi muraglioni di protezione e a Luni sul Mignone e a Monte Rovello di capanne imponenti, che possiamo considerare “monumenti pubblici”, essendo state realizzate solamente con un grande lavoro comune di tutta la collettività, testimonia che queste popolazioni erano coscienti di vivere in un “insediamento-stato sovrano”.
Nella zona dell’Arco del Mignone nel IX secolo a.C. all’inizio dell’età del Ferro, gli abitati protovillanoviani arroccati ed ubicati nel comprensorio montano d’Allumiere e Tolfa, furono, all’improvviso, abbandonati e sulla bassa costiera tirrenica di Civitavecchia, che si estende per circa venti chilometri, sorsero contemporaneamente, una di seguito all’altra, ben dodici enormi comunità protourbane (Barbaranelli 1956; Barbaranelli 1966; Maffei 1981 b), impiantate sul terreno “vergine”, che si svilupparono in funzione di ottimi approdi naturali e di copiose sorgenti di acqua potabile che tuttora scaturiscono sulla riva del mare.
Tra la fine del decimo e l’inizio del nono secolo a.C., come ho già detto, viene avviata in Etruria una complessa operazione, che costituisce una vera e propria “riforma” o “rivoluzione” del Paesaggio Culturale, tendente ad unificare tutti gli abitanti dei singoli insediamenti, aventi in comune origine, etnia, lingua, tradizioni religiose e culturali. Nella piena coscienza di appartenere ad una sola comunità, ad un solo popolo, che nell’antichità corrispondeva al concetto di nazione, è istituita non più un “insediamento-stato sovrano”, ma una “collettività nazione-stato sovrano” pianificata in forma responsabile che mira ad assicurare condizioni abitative più vantaggiose, incrementare i rapporti sociali, favorire lo sviluppo delle pratiche colturali, artigianali e dei commerci, per facilitare anche una migliore qualità della vita.
Dai modi del mutamento delle connessioni tra le forze insite nella società dell’epoca, questa complessa operazione costituisce, chiaramente, uno strumento ideologico derivante da una precisa scelta politica della classe dominante.
L’abbandono simultaneo in tempi molto brevi delle numerose e ben protette sedi insediative degli “abitati-indipendenti” protovillanoviani, o semi indipendenti, ubicati sui rilievi interni, e la conseguente fondazione sulla bassa costiera rocciosa di Civitavecchia non di piccoli insediamenti villanoviani, come avviene nella restante parte dell’Etruria, ma di vastissime comunità, presuppone l’avvenuto consolidamento di un organismo politico-religioso “universale” detenente un potere assoluto (sul tipo, possiamo immaginare, della successiva società etrusca dei “principes” e religioso delle dodici città) che progettò una pianificazione sistematica per costituire il primo esempio di sinecismo, ovvero di una “coagulazione” in forma cosciente della popolazione in agglomerati abitativi, vere e proprie “comunità” che a ragione, per la loro vastità e vivacità abitativa, possiamo definire “protourbane”, ubicate sulla riva del mar Tirreno in località con clima temperato e di facile accesso.
Una riforma del Paesaggio Culturale di tale portata, in un breve e ben definito periodo storico, presuppone che sia stata originata da una combinazione di cause e di effetti risultanti da un profondo “disagio” esistente nel precedente assetto insediativo territoriale che condizionava in modo sfavorevole le attività umane.
Ma da quali situazioni scaturiva questo “disagio”? Le ricerche sulla storia delle variazioni climatiche avvenute in Italia dal paleolitico ad oggi costituiscono, sin dagli anni ottanta del XX secolo, un prezioso ed originale contributo per individuare le motivazioni reali che hanno condizionato i mutamenti degli eventi umani in un ambiente geografico e climatico ben definito (Pinna 1984).
Le rigorose ricerche scientifiche effettuate in questi ultimi anni sui sedimenti continentali e marini, sui ghiacciai, sulle variazioni del livello marino, sui pollini fossili ecc. hanno permesso di verificare che il clima è cambiato frequentemente e tali mutazioni, aventi un arco di tempo plurisecolare, hanno condizionato lo sviluppo dei boschi, dei pascoli, dei lavori agricoli e la stessa vita dell’uomo.
“Si è accertato che trattasi di variazioni di temperatura e di piovosità che possono apparire minimi: da uno a quattro gradi centigradi delle temperature medie annue e di un 20% o 30% della quantità di precipitazioni. Ma se le precipitazioni annue per qualche decina di anni da una media di 700 mm si riducono a 500 mm, mettono in crisi l’agricoltura, mentre ne aumentano il rendimento se si accrescono a 900 mm. Una nevosità più o meno abbondante sui valichi determina un periodo più o meno lungo di fruizione delle alte vie transalpine con conseguenze economiche e sociali di grande importanza. Una variazione di temperatura di due gradi centigradi, se si protrae per qualche decennio, sposta di circa 300 metri di altitudine i limiti climatici delle colture, dei boschi dei pascoli e delle nevi perenni. Una variazione “fredda” di quella entità può privare di risorse alimentari le popolazioni che vivono sul limite climatico delle colture mentre, al contrario una variazione “calda” può migliorare grandemente il loro ambiente di vita.”.
Durante il neolitico e l’eneolitico nel territorio valdostano una “fase calda” del clima permise una vita più accogliente anche sui rilievi montuosi, e molti insediamenti sono ubicati ad oltre mille metri di quota.
Nei secoli successivi inizia un peggioramento climatico che culmina negli anni tra il mille ed il novecento a.C. con una fase molto fredda (Pinna 1996, 120).
“Secondo quanto dice H. H. Lamb, gli studiosi del mondo nordico hanno raccolto le prove che le genti da tempo insediatesi nella Penisola Scandinava, dove praticavano la pesca e l’agricoltura, a partire dal X a. Cr. secolo incontrarono difficoltà crescenti nelle loro attività, per cui cominciarono a spostarsi verso sud, così da raggiungere, attraverso lo Jutland, la Germania nord-occidentale, alla ricerca di luoghi con clima più mite” (Pinna 1996, 120).
Se consideriamo l’ubicazione nell’Arco del Mignone degli insediamenti protovillanoviani più importanti dobbiamo costatare che occupano la sommità di rilievi posti a quote abbastanza elevate, ad Allumiere il monte delle Grazie e l’Elceto raggiungono oltre 600 metri sul livello del mare. Sui monti Cimini gli importanti insediamenti di Monte Fogliano e Monte Cimino sono disposti tra i 950 e i 1.050 metri di altezza.
Oltre alla quota è necessario considerare la posizione interna di questi stanziamenti con un clima molto umido e freddo non mitigato dall’azione dell’aria del mare.
Motivare l’abbandono degli insediamenti protovillanoviani montani con questa “fase fredda” del clima è certamente un’ipotesi, ma è indubbio che questo evento sia da collocare tra il 1.000 e il 900 a. C. in totale coincidenza con le date indicate dagli studiosi del clima. Personalmente ho potuto verificare che sulla sommità del Monte delle Grazie, dell’Elceto, di Monte Fogliano e di Monte Cimino, durante gli odierni inverni, fa molto freddo e tira un forte vento. Abitare d’inverno in una capanna di frasche, anche con il clima attuale, presenta tante difficoltà.
Per ricostruire tuttavia in modo accettabile avvenimenti storici tanto lontani nel tempo senza il supporto di una qualsiasi testimonianza orale o scritta è bene tenere presente quello che Andrea Carandini sostiene da tempo. L’atteggiamento più soddisfacente e chiaro per affrontare degli interrogativi archeologici e storici è quello di fare congetture per arrivare ad una sequenza di idee verosimili.
Tralasciando, per il momento, l’individuazione delle cause che hanno provocato il nuovo assetto del paesaggio culturale, è necessario considerare gli effetti di tale “rivoluzione”.
L’evidenza ci fa considerare che nell’Etruria meridionale i detentori del potere nei singoli insediamenti (o gruppi) protovillanoviani, coscienti di appartenere ad un solo “popolo”, una sola “nazione” avente in comune lingua, religione, tradizioni, cultura, area geografica, vista la gravità della situazione, abbiano istaurato un dialogo. Le popolazioni dei Tirreni, dimenticate le antiche rivalità e abbandonati i pensieri di belligeranza, dialogando tra loro volontariamente e consapevolmente, trovarono un accordo con armonia d’intenti che ha portato ad una evoluzione dei concetti politici, sociali, insediativi e forse religiosi, dando origine alla pax villanoviana, ovvero ad una fase storica caratterizzata nell’Etruria meridionale da azioni pacifiche.
Facendo riferimento alle notizie che abbiamo sulla lega delle dodici città etrusche, è inevitabile pensare che la discordia politica esistente tra i vari insediamenti protovillanoviani possa essere stata appianata con un’azione di carattere religioso che produsse un primo esperimento di una pacifica confederazione avente precise caratteristiche religiose e politiche, almeno durante la Prima Età del Ferro.
Tale evento può essere spiegato, forse, con il fatto che la popolazione etrusca aveva una particolare concezione del mistico e della religione. Ogni avvenimento aveva un preciso significato ed era attribuito al volere delle divinità. Come c’informa Seneca, secondo il pensiero etrusco, tanto per fare un esempio, i fulmini non scaturivano per l’attrito tra le nuvole, ma le nuvole si scontravano appositamente per produrre fulmini.
In altre parole questo evento, possiamo supporre, indica che l’interpretazione del raffreddamento climatico fosse collegato ad un indebolimento dell’armonia celeste dovuto alla collera divina e solamente una mistica azione religiosa di pacificazione poteva placare tale rancore. Il compito essenziale della disciplina etrusca era quello di comprendere la volontà degli dei, più o meno occulta, e di valutare come avrebbe inciso sul destino degli uomini.
Al di la di ogni ipotesi, la presa di coscienza da parte di queste antiche popolazioni dell’esistenza di una “nazione” tirrenica-etrusca, costituisce un dato concreto che porterà subito, con la “pace” villanoviana, ad una fase di insediamenti protourbani e, successivamente con delle nuove pressioni. storiche, politiche e insediative, ad una fase di urbanizzazione vera e propria che vide la genesi della Civiltà Etrusca.
Sin dalle prime concezioni sulla nascita delle forme di potere, della “città” e dello “stato” in chiave storica e materialistico, da Tommaso Moro, a Hegel, a Carlo Marx ed Engels, il dibattito ha sostenuto due temi fondamentali collegati ad un’origine dell’idea in area “orientale” od “occidentale”.
Successivamente si è molto discusso sulla cronologia e sulle fasi di urbanizzazione nell’Italia centrale e se impulsi locali od esterni abbiano causato tale evento. La maggior parte degli studiosi concorda che la formazione della “città”, come l’intendiamo attualmente, sia avvenuta tra il VII e il VI secolo a.C. pur ammettendo delle riserve per una precocità urbana di Tarquinia e di Roma.
Sugli impulsi che hanno dato origine alla fase di urbanizzazione i pareri sono invece ancora nettamente contrapposti su due posizioni. Alcuni sostengono che l’archetipo di “città” sia pervenuto attraverso i rapporti con Greci e Fenici secondo un modello orientale (diffusionismo o orientalismo). La seconda ipotesi, molto cara agli studiosi di protostoria ed in particolare a Renato Peroni e a Francesco di Gennaro suo allievo, considera questo evento come il frutto di una lunga fase evolutiva sociale e politica effettuata in modo indipendente dalle popolazioni dell’Italia centrale (autoctonismo o occidentalismo).
Considerando che la città e lo stato in antico erano concepiti in modo diverso dal pensiero medievale e moderno, la complessità delle evoluzioni sociali, politiche, insediative che porteranno alla formazione di “Comunità Protourbane” e poi alla città vera e propria, suggeriscono, tuttavia, un atteggiamento di cautela considerando che le popolazioni protostoriche non erano chiuse in se stesse ma avevano contatti continui con tutto il Mediterraneo, e la comunicazione porta alla comunione delle idee. Alessandro Naso, in un suo studio sulle offerte fatte da aristocratici etruschi nei santuari greci, ha infatti dato prova di antichi e notevoli contatti commerciali e culturali reciproci tra oriente ed occidente.
Per quanto ho esposto in precedenza appare tuttavia chiaramente, al di la di suggerimenti percepiti esternamente, che la “rivoluzione villanoviana” ed il fenomeno protourbano in Etruria costituiscono – in se stessi – un evento che non solo anticipa episodi simili avvenuti in Italia e in Grecia, ma che introduce il concetto che queste popolazioni tirreniche, coscientemente, si sentissero parte integrante di una “collettività nazione-stato sovrano” e appartenevano ad un solo “popolo”. Tale fenomeno costituisce anche un avvenimento originale avente un enorme valore culturale, politico e sociale che rappresenta la prima e più antica base essenziale della civiltà occidentale.
Nell’Arco del Mignone e in particolare sulla bassa costiera di Civitavecchia questo evento straordinario è testimoniato in modo indiscutibile.
Ferdando Barbaranelli, che per primo individuò questi insediamenti villanoviani costieri (Barbaranelli 1956), resi evidenti da depositi antropici di grande spessore ancora presenti sulla riva del mar Tirreno per centinaia di metri, così descrive l’imponenza di tale fenomeno: “ Un vero e proprio affollamento demografico si registra sulla costiera nel periodo villanoviano. I villaggi si allineano ora lungo tutto il tratto roccioso da Capo Linaro sino alla località, a nord, cosidetta la “Frasca”, nelle vicinanze della spiaggia arenosa di S. Agostino.” (Barbaranelli 1966, 22).
I vasti insediamenti umani della prima Età del Ferro erano ubicati, sulla bassa costiera di Civitavecchia, in località Grottini, Quartaccia, Selciata, Torre Chiaruccia, Foce delle Guardiole, Foce del Marangone, Foce del Malpasso, Punta del Pecoraro, Mattonara, Buca di Nerone, Torre Valdaliga, Acque Fresche, Frasca. Inoltre sullo sperone roccioso ubicato prima della spiaggia di S. Agostino, Franco Capuani individuò i resti residui di un deposito antropico con ceramica villanoviana.
Non è stato considerato l’eccezionale approdo naturale, il migliore di tutta la costa dal Circeo all’Argentario, di Centumcelae-Civitavechia (il sito è stato sconvolto dai lavori per la realizzazione del monumentale porto voluto da Traiano). Una traccia di un insediamento protostorico costiero nella periferia di Civitavecchia è fornita da ceramica d’impasto non tornita recentemente individuata da Sergio Anelli al vecchio Prato del Turco, subito a nord del carcere di via Tarquinia, poco sotto l’ingresso della centrale elettrica di Fiumaretta.
In corrispondenza di ottimi approdi naturali, l’azione erosiva delle mareggiate ha evidenziato insiemi abitativi costieri ove tra il IX e la metà dell’ VIII secolo a.C. Sul terreno vergine si accumularono estesi depositi antropici stratificati di notevole spessore, come hanno evidenziato anche le recenti indagini effettuate sulla riva sinistra della foce del Marangone.
Il fenomeno sociale, politico, economico che provocò nell’Arco del Mignone l’abbandono repentino e totale degli insediamenti protovillanoviani del complesso montano ed il sorgere di vastissimi complessi protourbani sulla costiera di Civitavecchia, è unico nel suo genere.
Gli abitanti di questi insediamenti protourbani costieri, da identificare con i famosi Pirati o meglio Navigatori Tirreni delle fonti greche, popolazioni discendenti dalle comunità che avevano abitato questa zona almeno dall’Età del Bronzo Antico (1800 a.C.), popolazioni ormai da considerare “Etrusche”, trovarono nel “grande approdo dei Tirreni del Mare”, ovvero sulla bassa costiera rocciosa di Civitavecchia, ottime basi navali e nuovi modelli di vita: distaccandosi da una cultura e da un’economia tradizionale, tipicamente agricola e pastorale, scelsero l’avventura vissuta solcando il mare a bordo di navi agili e veloci.
L’intensa occupazione insediativa della fascia costiera di Civitavecchia è stata riportata all’attualità in un recente articolo ed è stato nuovamente messo in risalto “l’affollamento demografico” rilevato da Fernando Barbaranelli. Il fenomeno macroscopico degli insediamenti villanoviani di Civitavecchia è stato tuttavia sottovalutato, per non dire ignorato, anche in lavori di sintesi elaborati in questi ultimi decenni da molti studiosi che, pur non avendo una esperienza diretta di ricerca sul territorio, sulla base di notizie di seconda e terza mano considerano, con nuove argomentazioni, i vecchi ritrovamenti confrontandoli con le recenti scoperte. Come è stato evidenziato da Francesco di Gennaro (2008) i dati disponibili su questi insediamenti costieri, pur costituendo un archivio enorme di informazioni, non sono stati utilizzati sistematicamente per ricostruire metodicamente il paesaggio culturale.
Nella mia recente pubblicazione (Maffei 2017) ho riesaminato i vecchi ritrovamenti di Fernando Barbaranelli e i risultati dello scavo da me condotto a Torre Valdalga, per evidenziare l’importanza dell’affollamento insediativo della costiera di Civitavecchia nel quadro complessivo della protostoria italiana. Ritengo di averlo fatto con grande vivacità, tanto che l’amico Carlo Alberto Falzetti, nella premessa da lui fatta al mio volume, ritiene che abbia enfatizzato il ruolo di Grande Approdo dei Tirreni del mare. Nella realtà il mio forte messaggio era rivolto al ristretto numero di studiosi che s’interessano in modo specialistico di questi argomenti, perché avevano completamente dimenticato l’enorme valore dei ritrovamenti effettuati sulla costiera di Civitavecchia. Il messaggio è arrivato a destinazione con ottimi risultati, come mi ha confermato l’amico Francesco di Gennaro.
ANTONIO MAFFEI
Riferimenti bibliografici
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Fernando Barbaranelli, Villaggi Villanoviani dell’Etruria meridionale marittima, in Boll. Pal. It. X 1956
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Fernando Barbaranelli, Ricerche paletnologiche sulla costiera tirrenica a nord di Capo Linaro, in Atti del VI Congresso Internazionale delle Scienze Preistoriche e Protostoriche, Sezioni V-VIII, 1966
di Gennaro 2008
Francesco di Gennaro, Insediamenti protostorici della costa medio tirrenica, in Il monitoraggio Costiero Mediterraneo: problematiche e tecniche di misura, Firenze 2008
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Antonio Maffei, Il complesso abitativo proto-urbano di Torre Valdaliga, in La preistoria e la protostoria nel territorio di Civitavecchia, Ass. Arch. Centumcellae, Civitavecchia 1981
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Antonio Maffei, Premessa – Le ricerche effettuate dall’Associazione Archeologica Centumcellae nell’Arco del Mignone in cento anni di volontariato – 11/11/1911 – 11/11/2011, in Cento anni di ricerche per la ricostruzione dei Paesaggi Culturali e per la redazione della Carta Archeologica dell’Arco del Mignone, Associazione Archeologica Centumcellae, Civitavecchia 2012
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Antonio Maffei, La città e il porto di Centumcellae-Civitavecchia, approdo dei Navigatori Tirreni, scalo di Roma, Civitavecchia 2017
Nastasi 1992
Francesco Nastasi, Navi villanoviane, in Archeologia Viva n. 27 – Marzo 1992
Östenberg 1967
Carl Eric Östenberg, Luni sul Mignone e problemi della preistoria d’Italia, A.I.R.R.S. Lund 1967
Peroni 1953
Renato Peroni, La stazione preistorica di Malpasso presso Civitavecchia, in BPI 1953
Pinna 1984
Mario Pinna, La storia del clima. Variazioni climatiche e rapporto clima-uomo in età postglaciale, Società Geografica Italiana, Roma 1984
Pinna 1996
Mario Pinna, Le variazioni del clima, Franco Angeli Milano 1996
Wiles 1969
Peter Wiles, Populism: Its Meanings and National Characteristics (1969)
Torelli 1986
Mario Torelli, La storia, in Rasenna – Storia e civiltà degli Etruschi, Milano 1986
Toti 1962
Odoardo Toti, Civitavecchia – Rinvenimento di tre pozzetti domestici in località “La Mattonara”, in Not. Sc. 1962
Toti 1973
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Biancofiore – Odoardo Toti, Monte Rovello, testimonianze dei Micenei nel Lazio, Incunabula Graeca vol. LIII 1973
Toti 1993
Odoardo Toti, Brevi considerazioni sulle presenze costiere della prima età del ferro, in Bollettino della Società Tarquiniense di Arte e Storia 1993
Intendo dedicare il tempo che merita all’articolato contributo di Antonio. Intanto però voglio ringraziarlo degli apprezzamenti e soprattutto di aver colto le intenzioni delle mie riflessioni sul populismo. Condivido inoltre la considerazione circa il significato approssimativo, impreciso e variabile del concetto stesso di populismo. Lo adottiamo per convenzione sperando di riuscire a scomporlo e “sezionarlo” con strumenti efficaci. Aggiungo infine che la formula è sensibile ai contesti culturali in cui viene adottata. Per un liberal statunitense, ad esempio, l’espressione “populism” evoca semplicemente la filosofia costituzionale democratica sintetizzata nell’incipit “We…the People”. Dopo l’irruzione di Trump sulla scena politica sono in corso aggiornamenti…
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