SULLE ORME DI SAM PECK – SCISCIAÙ (STORIE DEL RIO JAUAPERI) – BRASILE, AMAZZONIA (II)

di GIANCARLO LUPO ♦

Testi di Giancarlo Lupo e Alfonso Prota

demarca paragrafo

La Foresta di foglie, rami, fusti e radici è unica, unita, compatta. Non ci sono pietre, solo foglie marcite a terra e sempreverdi sugli alberi. Gli odori cambiano senza soluzione di continuità, dalla resina alla merda di macaco. La Foresta di vello, piume, scorze, unghie e denti è frammentata. Solo tracce, resti. Noci spezzate sono coppe dentro cui scimmie raccolgono l’acqua. Cilindri fallici di detriti e foglie, infissi tra le fronde, sono avanzi di cigara (cicale). La Foresta ha mille occhi e nessun aspetto. La Foresta è movimento, rumore, forte, insistente.

Versi secchi e striduli. I Guariba, le scimmie urlatrici. Medie dimensioni, pelo marrone. È probabile che ci guardino incuranti. Noi non le vediamo. Possiamo solo immaginarle mentre si spostano da un albero all’altro, grandi salti e lunghe scivolate sui rami. Il maschio dominante emette suoni simili al barrito di un pachiderma. I raggi del sole penetrano a fatica attraverso l’intrico vegetale. Il sottobosco ha la luce livida di una verde cattedrale gotica.

Nel fitto Ghedi apre la strada con il machete, rallenta, guarda in alto, annusa l’aria. Rumori di fronde. Un pato, un’anatra nera, sbatte le ali. Rumori di acqua. Gli arirahna (lontre giganti), si azzuffano e si tuffano in acqua per schivare la nostra presenza. Con il muso annusano l’aria: siamo prede o predatori?

Risaliamo sulla canoa. I jacaré si immergono al nostro passaggio. Si vedono solo occhi rossi e gorghi d’acqua. La notte confonde le tracce. Nasconde. Il silenzio rimbomba i rumori. Nel buio un tucunaré diventa un sapo (rospo), il percorso si illumina di lucciole dalla luce ferma. Torniamo al villaggio. Dormiamo.

C’è un cimitero di formiche con le ali, in uno dei pochi posti illuminati. Altre formiche raccolgono resti di ali staccate.

Qui non c’è frutta, a parte sporadici açaí, abiù, banani, manghi. Le piante della Foresta sono troppo aggressive, è impossibile far nascere altro. Se non sono le piante, parassiti e animali selvatici vanificano ogni sforzo colturale.

Un’Anaconda sta ingoiando un caimano. La nostra presenza la minaccia, sputa una zampa, poi il resto del corpo non ancora digerito. Si mette in alto, sfrigola la lingua biforcuta, è pronta a combattere. L’anaconda prima stritola le sue vittime, poi le ingoia. Impiega settimane per digerirle.

Mi sveglio sudato, attorno a me è buio, il verso della scimmia urlatrice e la zanzariera bianca, come in una prigione di stoffa.

È solo un sogno. Lo so. Non è facile vedere animali qui.

La Foresta è abitata. Insetti, aracnidi, vermi, in alleanza con le piante, condividono strategie di difesa. Il quaranta per cento della biomassa dell’Amazzonia è formiche. Quelle rosse, correcao, costruiscono tunnel che circondano le venature degli alberi. Il formicaio in cima. Usano foglie e detriti. Le formiche taglia foglie vivono sottoterra. Coltivano funghi.

Di fronte all’insenatura c’è un formicaio ovale, allungato, appeso a un albero. Formiche pilliù. Ghedi ci mette una mano sopra. Un esercito di formiche sale e copre il braccio. Lui strofina mani e braccio. «Odora qui.» È simile al repellente per zanzare. E funziona. Un formicaio a terra vomita formiche grandi quanto un pollice. Le tucandera sono velenose, un morso è come quello di scorpione. Uno dei riti di iniziazione, di passaggio dalla pubertà all’età adulta per i maschi di alcune tribù, prevede di infilare il braccio nella tana di tucandera. Un guanto di tucandera, così chiamano questa iniziazione, “Il Guanto di tucandera”, nero e velenoso.

Verso Bacabà con la canoa. Gli hanno dato il nome dei bacabao, palme enormi che fanno frutti simili a olive nere, come l’açaí. Dal Bacabà inizia la terra firme, la Foresta di terra. Il cammino è una salita erta e fangosa. Sempre più intricata. Una cupola verde compatta, di fiori, foglie e frutti, che si fa attraversare da pochi scampoli di luce. Ci sono cecropie, euforbie, taccamache, guaraban, palmizi di ogni specie. A terra un cimitero di foglie imputridiscono. Le più basse sono bucherellate da pioggia e parassiti.

Passiamo vicino a un castagno del Brasile alto una ventina di metri. Il frutto è simile a una noce di cocco. Ghedi ne spezza metà con il machete e ne estrae un seme. Ha il sapore della mandorla.

Camminiamo. Tutto è intricato, rami e tronchi marciti, caduti, germinano di funghi, bianchi e marroni. Dall’alto filtra la luce, troppo poca. La Foresta è dominata dal buio. E dall’umido. Ghedi taglia un grosso ramo con due colpi di machete. Lo rigira su se stesso. Cadono gocce di acqua. Ne beviamo un po’ a turno. Il cipo d’agua è una liana. L’acqua che bevono indios e caboclos quando sono fuori a caccia. Gli odori cambiano, sempre. Saranno le resine, le foglie, gli alberi. Mi invadono “come una colonia di termiti all’interno di un tronco d’albero caduto.”

La casa di farihna. Gli uomini e le donne del villaggio raccolgono il tubero della manioca, lo sbucciano, lo lasciano macerare in acqua uno due giorni: che perda il proprio acido (veleno repellente per le zanzare e letale per le formiche). La manioca la infilano in una macchina di legno con le lame per tagliarla. A lato c’è una pressa, sempre di legno. La polpa è sminuzzata con grattugie, ridotta in polvere con un pestello, in un mortaio. Poi la spremono e la filtrano in una specie di setaccio. Sotto una tettoia di legno, Alessandro toglie una copertura da una specie di forno di pietra ed estrae un enorme padellone nero per l’ultima fase della lavorazione. La manioca si cucina a lungo e si rimesta con un remo, nel padellone. Richiede un giorno intero di cottura.

GIANCARLO LUPO