SULLE ORME DI SAM PECK – LAOS (PARTE – 3)

di GIANCARLO LUPO 

Alla scoperta dei Hmong, terza parte

Mi alzo un po’ di volte con la lampada elettrica per uscire all’aperto, sotto il cielo stellato, a pisciare. Sento un ululìo di cani, un ronzio lontano, poi nessun rumore.

Torno a letto e dormo, nonostante fetore e sporcizia mai visti prima.

Sveglia alle sei, Jessica dorme, mr. Lee si è alzato e armeggia nella polvere.

Un’aura lattiginosa persa nel tempo, i bambini bellissimi, in abiti laceri, a piedi nudi, sporchi, giocano nel chiarore mattutino, come se fossero i padroni di un mondo in disfacimento: avvallamenti del terreno su cui scorre piscio di animali, rifiuti, cartacce sospinte dal vento, mucchietti ben distinti di escrementi umani. Children PlayinI bambini comunque ridono, si tuffano nei fiumi della foresta, nuotando con le sanguisughe, salgono sugli alberi assaporando libertà, cacciano animali come i “grandi” e vivono, come se questo non dovesse mai finire. Eppure a 12 anni l’infanzia ha termine e loro si accorgono di popolare un mondo dimenticato dalla storia, in rovina, e sono già pronti a entrare nell’età adulta e a rompersi la schiena sui campi di riso.

Facciamo colazione con pane schifoso, marmellata schifosa, caffè schifoso, mentre il padrone di casa, accovacciato a torso nudo, con un sarong a coprirgli le gambe, fuma oppio dal tubo di bambù.

Salutiamo. Do una parte delle penne alla donna di casa per ringraziarla dell’ospitalità, ne do direttamente una a un bambino che guarda diffidente, avrebbe preferito l’iPad.

Oltre il villaggio è di nuovo foresta. Con me porto i soliti sei litri di acqua che la nostra guida ha bollito la sera prima e ha infilato nelle stesse bottiglie.

Mr. Lee indica un punto lontano, oltre i monti, la nostra meta finale: in tutto dobbiamo percorrere 42 km, molto faticosi perché sono sempre discese e salite. La guida, munito di un’accetta, taglia pezzi di bambù e ci fabbrica due solidi bastoni da passeggio.

Per sentieri ripidi, passiamo oltre il fiume Wai Tia, scivolando sopra le rocce che affiorano dall’acqua. Mentre risaliamo sento un pizzicore alla base della gamba. Un verme nero aderisce perfettamente alla mia pelle, è la prima volta che mi capita. Chiedo a mr. Lee cosa fare per staccare la sanguisuga. Lui prende il mio repellente per zanzare e con un semplice spruzzo la sanguisuga si stacca, avvelenata, mentre una scia di sangue cola sul mio piede. Risaliamo verso macchie e foreste sempre più intricate. La guida taglia i bambù per renderci più agevole il passaggio.

Alle dodici facciamo una sosta per mangiare riso e verdure con un cucchiaio minuscolo. Ricominciamo a camminare sotto il sole che filtra tra i rami. Caldo, ma meno del giorno prima. Panorami mozzafiato su vallate e montagne di verde, con nuvole in lontananza. A un certo punto, le nuvole nere, che avevano minacciato pioggia all’orizzonte, scaricano. L’argilla rossa diventa poltiglia fangosa.

Fortunatamente per le due arriviamo, a 1200 metri di altezza, nel villaggio Bok Quai (piscina per i bufali). Qui vivono 400 persone, è molto grande. La capanna è simile a quella del giorno prima. In un angolo c’è una specie di altare, perché la casa che ci ospita è dello sciamano. Gli sciamani sono più medici che uomini di religione, curano le persone e ci si rivolge a loro solo quando qualcuno sta male.

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Mentre gioco coi bambini mi accorgo che un’altra sanguisuga nel piede si avvita su sé stessa prima di aderire alla pelle e si attacca. Quando la tolgo inizio di nuovo a sanguinare, mr. Lee mi dà due cerotti, ma il sangue non si arresta. La guida spiega il trucco per guadare i fiumi senza essere martoriati dalle mignatte, mi mostra i suoi pantaloni, abboccati fin sopra il ginocchio. Cammina in ciabatte, guada i fiumi e in questo modo si rende subito conto se qualche sanguisuga si attacca alla pelle; il vermetto nero e lungo, infatti, non morde subito, così lui ha tutto il tempo di toglierlo.

Non possiamo uscire perché piove troppo forte e siamo inzaccherati di fango.

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Vedo un tizio fuori, nudo, che si lava sotto la pioggia. Una vecchia sorride in un angolo della capanna. È la madre dello sciamano. Chiedo a mr. Lee di sapere quanti anni ha. 70 o 80 anni, non ricorda, il momento della nascita non è importante per loro. Anche la nostra guida non sa in che giorno è nato.

Un nipote, uno dei 13 figli dello sciamano, arriva baldanzoso, avrà 15 o 16 anni.

Tira fuori da una sacca alcuni volatili che ha cacciato. I bimbi eccitati giocano con quelli, come fossero bambole, prendendo i volatili per le ali e simulando combattimenti. Dopo poco il gioco finisce. La nonna spenna i chicken forest, come li chiama mr. Lee, e li cucina dentro pentole lerce. Usciamo fuori, in un momento di sereno, e andiamo in una capanna vicina, uguale a tutte le altre, dove c’è l’unico negozio del villaggio. Non ci sono mobili, tranne il letto di bambù su cui, in fondo, sono stese una mamma e una bambina. Jessica prende una coca cola da uno stipetto, io compro una bibita zuccherosa, che bevono i lottatori di muay lao, una specie di gatorade. Nel villaggio si vedono alcune capanne con pannelli solari installati sul tetto. C’è energia elettrica, non sempre e non per tutto però. Infatti non riesco a caricare il cellulare, si blocca.

 

Alle 4 lo sciamano sorridente ci invita a mangiare con loro. Si preparano due tavolinetti minuscoli, per adulti e per bambini. Mangiamo riso e ossa di volatile in un brodino dal colore grigio poco invitante. In una tazzina a parte un macinato di peperoncino molto piccante, tanto da farmi lacrimare. Lo sciamano mangia a quest’ora perché deve visitare un po’ di malati. Noi mangeremo di nuovo alle sei. Appena finiamo lo sciamano si alza e, dall’altare poverissimo nell’edicola, prende gli abiti sacri, ovvero qualche striscia di telo blu e un vestito nero.

Mr. Lee ripete che loro pregano solo quando qualcuno sta male. I centri di cura buddisti, cristiani e animisti sono solo a Luang Prabang. Mr. Lee è diventato cristiano quando sua moglie stava molto male e rischiava la vita. Allora aveva prima provato a portarla in un tempio buddista, in seguito aveva interpellato uno sciamano, infine, dopo esser stato in chiesa, la donna si era sentita meglio. Non aveva pensato di portarla da un dottore, costano troppo. I hmong celebrano la festa del nuovo anno il 24 dicembre, uccidendo un maiale e bevendo lao whisky.

Riposiamo un po’ mentre fuori continua a piovere. Per le sei mangiamo di nuovo, una scatoletta di tonno in salsa abbastanza schifosa, che cucina mr. Lee, vantandosene, come fosse la sua specialità.

6 luglio 2014

Durante la notte dormo poco perché sento abbaiare i cani (per difendere gli altri animali dai predatori oppure per difendere sé stessi dai hmong) o la pioggia battente.

La mattina sveglia alle sei. Umido in giro, tutto avvolto nella pioggia. I panni stesi fuori sono ancora fradici. Provo ad asciugarli vicino al fuoco, ma si affumicano e basta, rimanendo umidi. Facciamo colazione, intirizziti, con caffè schifoso e con gli avanzi del giorno prima, tonno sugo e riso. Mr. Lee è veramente convinto che sia una prelibatezza. Jessica ne lascia una buona parte, io mi sforzo per gentilezza, ma è veramente pessimo. Per le 8 partiamo. Regalo il resto delle penne allo sciamano che sorride. Prima di uscire dal villaggio passiamo dall’unico edificio in muratura, con un enorme cortile: la scuola.

Il sentiero è largo, di terra rossa e fango. Ci sarebbero solo tre ore di cammino, ma ne impiegheremo di più, a causa del fango. Nuvole e foschia avvolgono tutto nella solita atmosfera irreale. Fortunatamente non piove a dirotto, solo qualche goccia ogni tanto.

Mr. Lee dice che di solito alcuni trekker percorrono gli ultimi metri a marcia indietro perché i piedi fanno male, visto che la strada, piena di dossi e buche, è in discesa. Al terzo giorno ho solo tre bottiglie di acqua imbevibile che sa di plastica a furia di bollirla ogni sera. Ne sputo una buona parte.

Comincia a piovere forte, ma arriviamo all’Haskin village, dove vivono 391 persone, verso le 11 e 30. È un villaggio moderno, sullo stradone, c’è luce elettrica e un baracchino degno di questo nome, dove ci fermiamo a mangiare una zuppa con uova e noodles. Accanto a noi una famiglia: madre, padre e un bimbo malato. Sono appena andati in ospedale e ora il bimbo sta bene. Finiscono di mangiare e salgono di nuovo al villaggio carichi di roba.

villaggio hmong 170

Domando a mr. Lee come e dove seppelliscono i loro cari. Mi risponde che ci sono punti nel villaggio riconoscibili, perché sopra ci sono mucchi di pietre, per ricordare. Gli dico che non mi è sembrato di averne visti, mi risponde che per noi è più difficile farci caso, perché sembrano pietre messe in disordine.

Dopo poco tempo arriva il furgone, per riportarci a Luang Prabang.

7 luglio 2014

GIANCARLO LUPO