POPULISMO E POPULISTI (II)
di NICOLA R. PORRO ♦
Giacobini, lazzaroni e cittadini
Mi trovo nell’imbarazzante situazione di chi lancia il sasso – contro i populismi e insieme contro l’eccesso di semplificazione nell’analisi del fenomeno – per poi nascondere rapidamente la mano. La mia materiale impossibilità a proseguire la riflessione avviata con l’articolo comparso sul blog il 29 dicembre us è dovuta a serie ragioni famigliari e sono sinceramente grato agli amici che hanno comunque voluto raccogliere il mio appello a sviluppare un confronto su un tema controverso e denso di implicazioni di attualità.
Dei contributi pervenuti sottolineerei tre aspetti principali: (i) l’accordo circa la necessità di fuoriuscire da una rappresentazione del populismo troppo schiacciata sull’attualità politica, con il rischio di pregiudicare una definizione non estemporanea del fenomeno; (ii) il ricorso agli strumenti di un pensiero “lungo”, che consideri gli antefatti storico-sociali – anche quelli remoti – dei populismi contemporanei; (iii) l’invito a connettere l’interpretazione delle insorgenze neopopulistiche con gli effetti sociali delle tecnologie digitali, come negli esempi delle fake news, non inedita ma moltiplicata nei suoi effetti comunicativi dalla rivoluzione telematica, o dei bitcoin, prosaicamente orientati a lucrare denaro ma insieme potenziale strumento di destabilizzazione degli equilibri finanziari globali. Confesso tuttavia di non possedere competenze specifiche in materia e mi limito a rilanciare le tematiche a chi meglio di me possa riprenderle e svilupparle.
È opinione condivisa che un tratto comune dei nuovi populismi consista nel ricorso a strategie e strumenti comunicativi che diano forma a una vera e propria narrazione della demagogia. Lo stesso Dal Lago, richiamato nel precedente articolo, assegna la giusta rilevanza a questa interpretazione, che pure non ne pregiudica altre a più ampio raggio. La narrazione populista risulterà infatti tanto più potente e pervasiva quanto più saprà sintonizzarsi con gli spiriti animali che alimentano le paure, i pregiudizi, i risentimenti veicolati e amplificati dalla comunicazione imperante nel villaggio globale della cosiddetta modernità liquida.
Leonardo Bianchi (La gente. Viaggio nell’Italia del risentimento, Minimum Fax, Roma 2017) ha associato questo tratto identificativo dei populismi di ogni colore al declino delle tradizionali identità sociali. Il nuovo populismo, infatti, non possiede e non ricerca un interlocutore sociale privilegiato come fu la classe operaia per i partiti marxisti o i ceti intermedi e l’imprenditoria per il liberalismo. I suoi interlocutori ideali sono di frequente le cosiddette comunità immaginate. L’espressione fu coniata negli anni Ottanta dal sociologo irlandese Benedict Anderson (Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Laterza, Roma-Bari, nuova edizione 2018) inaugurando una penetrante ricerca sulle fantasie etnoterritoriali che alimentano le strategie di allarme sociale della destra xenofoba. Oggi come allora il linguaggio degli imprenditori della paura è per definizione populista, spesso imparentato con il radicalismo reazionario, ma non è limitato ad esso.
Ad accomunare le variegate appartenenze del populismo di nuova generazione c’è soprattutto la mitologia della gente comune. Nell’Italia postbellica essa trovò espressione, guadagnandosi anche un consistente quanto effimero consenso elettorale, nel movimento dell’Uomo Qualunque. A scala internazionale la retorica della “gente” avrebbe sedotto, fra i Cinquanta e i Sessanta, l’universo dei piccoli commercianti francesi abbindolati dall’oratoria apocalittica di Pierre Poujade. Un decennio più tardi la piccola borghesia danese, insofferente di un sistema di Welfare equo e generoso ma fiscalmente oneroso per i ceti medi, consegnò per conto della “gente” la propria rabbia al populismo ringhiante di Mogens Glistrup e del suo sedicente Partito del progresso. Fra gli Ottanta e i Novanta un altro profeta del populismo, lo statunitense Ross Perot, chiamò la “gente” a mobilitarsi per rendere l’America di nuovo grande. Slogan di facile presa che sarà replicato pari pari pochi decenni più tardi dalla propaganda elettorale di Donald Trump. Gli esempi potrebbero continuare a lungo, per esempio volgendo lo sguardo verso i regimi xenofobi dell’Europa orientale. Governi basati su partiti della “gente” ormai in rotta di collisione con i valori fondanti della UE. Per non parlare delle democrature al governo di grandi Paesi come l’India, la Russia e la Turchia, guidate da leader che hanno fatto del populismo il carburante ideologico e il codice comunicativo capaci di alimentare a scala di massa un risentimento vittimistico indirizzandolo non solo e non tanto contro le democrazie occidentali quanto contro la cultura dei diritti tout court.
Il populismo si afferma sempre in contesti di disagio sociale emergente generando un corto circuito con una strisciante crisi di legittimità della classe politica di governo. Il conflitto è sempre ubicato fra un indistinto alto (la casta) e un altrettanto indistinto basso (la gente). Bianchi propone perciò di sostituire alla dizione di populismo quella di gentismo. Dopo la meteora del qualunquismo postbellico, il gentismo si identificò, nell’Italia degli anni Ottanta-Novanta con gli sproloqui televisivi di un opinionista sui generis come Gianfranco Funari. Sermoni furenti, voce alterata dall’ira, qualche sapiente ricorso alle tecniche del cabaret, Funari accreditava un’idea della politica a suo modo antagonistica. Fondata però su una rappresentazione ambigua e grossolana del conflitto. La prima narrazione del nuovo populismo, in formato ancora analogico e televisivo, metteva in scena un attore collettivo immacolato e per definizione alieno da interessi meschini e tentazioni opportunistiche – il popolo, la ggente – impegnato nell’impari lotta quotidiana contro i soprusi della casta e una ragnatela di poteri spesso invisibili ma sempre maligni e corrotti.
Venti anni dopo, la filosofia del gentismo, trapiantata in diversi movimenti politici e veicolata dalla comunicazione digitale, si è arricchita di nuovi insidiosi ingredienti. Fra questi ha trovato cittadinanza una rappresentazione sospettosa della scienza. In politica ha accreditato la ricerca di qualunque mediazione fra parti diverse come corruzione, tradimento, inciucio. I corpi sociali intermedi – partiti politici, sindacati, sistema dell’associazionismo –sono stati dipinti come il nemico principale di ogni autentica sovranità popolare. Il gentismo rovescia perciò la rappresentazione della democrazia propria della modernità politica e dei regimi parlamentari. Se solo lo avessero letto, i leader gentisti dei nostri giorni condannerebbero senza esitazioni il vecchio Tocqueville a un metaforico rogo della memoria. A lui e alle sue riflessioni di inizio XIX secolo sulla nascente democrazia americana, si deve infatti una rappresentazione delle moderne società di massa che associa civismo e democrazia proprio alla forza e al ruolo dei corpi sociali intermedi. Una visione che ha segnato la differenza fra comunità politiche rappresentative, da un lato, e il tribalismo del capo, dall’altro. La nuova politica sembra affidarsi spesso, del resto, a utopie regressive, non esclusa quella nostalgia dello sciamano che affiora nelle farneticazioni contro la scienza di qualche (non sempre disinteressato) mestatore.
La nuova parola d’ordine, per le élite populiste, è dunque disintermediazione. Nessun tramite fra leader e “gente”, occasionalmente promossa a “popolo”. Nessuna struttura organizzativa permanente che consenta, o quanto meno faciliti, l’esercizio della partecipazione politica. Tutto ciò che, a qualunque titolo, si frapponga fra l’emittente (la voce del capo, le predicazioni dello sciamano di turno) e le anonime masse mobilitate dal web è per definizione foriero di inganno e corruzione. A voler sottilizzare, la teologia della rete accredita l’illusione di una democrazia della moltitudine – l’inquietante metafora del nuovo protagonismo sociale coniata da Toni Negri (M. Hardt e T. Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004) – piuttosto che del popolo. È questa anonima moltitudine che identifica nel web una sorta di inedito spazio sociale dove milioni di persone sole e non di rado frustrate si convincono di esercitare, a colpi di clic, una sovranità finalmente sottratta all’odiata casta e allo stesso tempo totalmente artificiale.
In questa chiave il gentismo, o nuovo populismo, non rappresenterebbe altro che l’ennesima versione di quella filosofia della plebe, nutrita di pulsioni e di umori reazionari, che in ogni passaggio critico dell’Europa moderna e contemporanea si è sistematicamente allineata ai poteri della conservazione contro fermenti rivoluzionari e aspirazioni riformatrici. L’icona perfetta del populista non è il combattente rivoluzionario bensì quella di un Giano bifronte che riproduce due volti diversi e complementari delle rivoluzioni borghesi fra XVIII e XIX secolo. Quello del giacobino intransigente, innamorato della ghigliottina mediatica e pronto a seguire il Robespierre più bravo nell’eccitare il risentimento contro la casta. E quello del lazzarone postmoderno, pronto a rispondere all’appello di qualsiasi cardinale Ruffo si scagli contro le avanguardie illuministe, identificate come una casta di intellettuali spocchiosi rei di sognare un altro mondo possibile. La figura di Donald Trump, il miliardario di modesta cultura e dall’ego smisurato che si fa paladino della “gente”, identificata con l’universo adorante di Twitter, ne rappresenta anche qui l’idealtipo contemporaneo più convincente.
Concentrandosi sull’Italia di Tangentopoli, Bianchi individua un preciso evento simbolico che a suo parere scandirebbe la plateale emersione dell’offensiva neopopulista in incubazione. È la teatrale invettiva contro la politica tout court scagliata nel febbraio del 1992 da Beppe Grillo al teatro Smeraldo di Milano. La provocazione del comico genovese avrebbe raggiunto e mobilitato soprattutto una figura sociale anomala e irriducibile alle tradizionali categorie sociologiche. È quella che Davide Miccione (Miccione D., Lumpen Italia, il trionfo del sottoproletariato cognitivo, Ipoc, Milano 2015) ha definito il sottoproletariato cognitivodisegnando l’icona dell’ignorante ipermoderno: “Privo della storicità di sé stesso e di ciò che vede – scrive l’autore -, [disprezza la cultura umanistica ma] “non preferisce la scienza o l’economia o la tecnologia (a meno che quest’ultima possa ridursi alla semplice utenza coatta di marchingegni ludico-tecnologici). Egli, semplicemente, si alloca prima di questi incroci, mostrando disinteresse per qualsiasi forma di interazione intellettiva con il mondo”.
Il populista 2.0 esprime così inconsapevolmente una pulsione eversiva e sovversiva ancor più radicale di quella degli antichi rivoluzionari, ancorati all’idea industrialistica del conflitto sociale (proletariato vs borghesia), o di quella rivolta anarchica che in Europa ha attraversato per secoli come un fiume carsico la contestazione al potere costituito. L’idea guida non è principalmente quella di produrre migliore politica e di candidarsi a esercitare efficaci forme di governo. Questi slogan saranno più avanti riservati alla cattura del consenso elettorale. La pulsione di fondo è ben più radicale: alle classiche dicotomie del conflitto si contrappone l’opposizione noi-loro o alto-basso. Un’opposizione priva di qualunque congruenza logica e consistenza sociologica, ma efficace nel perseguire l’obiettivo reale, che il populismo condivide con il pensiero totalitario: negare alla politica in quanto tale diritto di cittadinanza e di rappresentanza. In questa ottica l’odiata casta condensa in sé qualunque nefandezza. Costituisce un insieme privo di distinzioni, giustificando nella “gente” una reazione biliare, pregiudizialmente refrattaria a qualunque valutazione di merito e incline a legittimare ogni possibile alternativa, anche la più stravagante e la meno rispettosa di una civile dialettica politica. In queste pulsioni si cela un’ispirazione integralistica che riemergerà periodicamente nella storia già densa dei nuovi populismi.
Questo profilo appena abbozzato si attaglia a manifestazioni e culture anche molto differenti fra loro. Richiama, ad esempio, il fenomeno ormai lontano del plebeismo, inteso come indiscriminata inclusione nella sfera della politica di tutto quanto evocasse demagogicamente la ribellione sociale. Contro le tentazioni plebeistiche il Pci aveva condotto nel Mezzogiorno, dalla fine degli anni Quaranta sino alla rivolta di Reggio del 1971, una vigorosa campagna, soprattutto dalle colonne di Rinascita (Macaluso E., Franchi P., Cinquant’anni nel Pci, Rubbettino, Soveria Mannelli Cz 2003).
Settant’anni dopo, lo scenario comprende le insorgenze xenofobe, il qualunquismo digitale, le occasionali jacquerie dei Forconi e la costellazione dei movimenti no-qualcosa che sembrano ispirati a una sorta di fondamentalismo del particolare. Accogliendo la tesi della politologa Nadia Urbinati a proposito dei cinquestelle (“Il pensiero populista” in www.leparoleelecose.it, 9 settembre 2015; “M5S. Dal movimento di tutti al partito di qualcuno” in Repubblica, 10 settembre 2017), la definizione più appropriata di queste forme di antagonismo sarebbe quella di antipartitismo. Il rancore verso i partiti esprimerebbe un risentimento profondo e sfuggente, diverso dalla consueta e ricorrente insoddisfazione verso i poteri elettivi. Nel mirino del gentismo (o antipartitismo o plebeismo che dir si voglia) c’è la politica tout court e non, come fu per il ’68, la pur radicale contestazione della forma organizzativa e della capacità di rappresentanza sociale dei partiti. In questione sarebbe l’idea stessa di democrazia organizzata, di interessi sociali coerenti con un programma, di leadership legittimate da procedure. Il “cittadino” telematico sembra affascinato da quel mondo rovesciato che Bachtin ha rappresentato nella metafora del carnevale. Un’arena spettacolo in cui sostituire al noioso linguaggio della politica quello scoppiettante e tonante dell’imbonitore di turno. Un circo delle illusioni dove indossare, ancora una volta e in maniera interscambiabile, le maschere del giacobino fondamentalista e del lazzarone sanfedista. Identità che concorrono a definire una caricatura delle classi sociali. È quella del sottoproletariato cognitivo di cui dovremo occuparci.
NICOLA R. PORRO
Caro Nicola, come al solito la tua analisi è lucida ed interessante. Se ho ben compreso al tuo intervento ne seguiranno altri da parte tua e si spera di altri amici del blog. Mi incuriosisce un aspetto che nelle tue riflessioni di oggi emerge poco: il rapporto tra economia globale,grande finanza, grandi monopoli e sviluppo dei populismi. Se questo legame c’è e non credo ci siano dubbi a tal proposito, non pensi che ciò rappresenti un elemento di novità rispetto a forme di populismo che, come tu dici, si sono affermati in passato pur sempre in contesti di disagio sociale, ma profondamente differenti rispetto alla realtà odierna? E non dovrebbe essere il principale argomento di riflessione per una sinistra che perde sempre più consenso fra quegli strati di popolazione che una volta si identificavano genericamente come classe lavoratrice?
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In effetti una parte consistente della letteratura dedicata ai populismi si concentra sulla loro relazione con le dinamiche della globalizzazione. Entrambi i termini – globalizzazione e populismo – sono però troppo generici e usurati perché si possa farne discendere un’analisi credibile. Il mio intento è di ripercorrere alcuni tornanti della riflessione cercando di delucidare i passaggi più problematici e di fornire qualche indicazione bibliografica utile. In ogni caso, dovrete sorbirmi ancora un po’: ci sono aspetti che giudico rilevanti e che ho rinviato nel tentativo di dare maggiore sistematicità alla lettura proposta. Grazie comunque della calzante sollecitazione.
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Abbiamo voglia di parlare di populismi e tutti gli altri ismi….. ma dovremmo farlo avendo ben presente l’espressione della politica “seria” che al momento si mostra tutt’altro che ammirabile. E’ assolutamente vero che far leva su malcontento e disagi è assolutamente facile, in un mondo nel quale la realtà è qualcosa di superficiale qualcosa che si confonde con la sua apparenza, linguaggio alla portata della vasta platea di chi non si informa approfonditamente e di chi non ha gli strumenti per farlo. Ma è altrettanto vero che gli ismi” non si combattono puntando il dito indice, ma riducendo il cibo di cui si nutrono. Lo dico perchè la politica “seria” è occupata a combattere populisti, razzisti, fascisti ecc.. ed assistiamo ad una delle peggiori campagne elettorali che io ricordi di aver mai visto. Infine convengo con Enrico Iengo, gli odierni populismi hanno un’altro carburante a disposizione, l’assenza di un riferimento politico fra i banchi del parlamento, e proprio di questo parlavamo in una riunione sindacale. Oggi l’operaio, il precario, il licenziato ecc… non ha più i riferimenti che aveva e ciò gli mette in tasca il “vaffa”, pronto ad essere usato. Insomma, parlare di populismi e simili mettendo l’accento solo su un lato peggiore, ancorchè vero, della faccenda, lo trovo alquanto riduttivo e, perciò, inutile.
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Infatti il mio tentativo è quello di rintracciare la propensione al consenso elettorale ai populismi come il prodotto di derivazione di una più ampia metamorfosi della cultura sociale. Per questo ho ricordato Funari, i no vax no tap no tav no tutto, i Forconi e la diffusione di sentimenti xenofobi ispirati a una percezione deformata e ostile dei dati demografici e della stessa cronaca. Non tutti questi movimenti hanno conosciuto esiti politici ma tutti hanno concorso a una mutazione genetica della politica essendo a loro volta innescati da una crisi della politica. È la stessa questione che un secolo fa spingeva Antonio Gramsci a individuare le origini del fascismo non tanto negli errori dei partiti dell’epoca quanto nella loro’incapacità di esercitare egemonia culturale. E accusava il ceto politico prefascista di rinunciare a produrre quella che chiamava “riforma intellettuale e morale”, facendosi classe dirigente. Dubito anch’io che oggi i vecchi partiti – ovunque nel mondo, come dimostrano Trump, le democrature e l’ondata elettorale xenofoba in Europa – siano in grado di operare il necessario salto di qualità senza un’autentica rigenerazione che non si limiti alla semplice forma partito. Però non mi rassegno all’idea che si possa consegnare il destino della democrazia agli imprenditori della paura, ai pifferai della demagogia e ai nemici della scienza.
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Posto che il piffero, la demagogia e l’utilizzo pretestuoso della scienza e a volte anche la negazione di essa sono strumenti trasversali e comuni, a seconda dei casi, gli imprenditori della paura appaiono essere invece ben definiti. Ciò purtroppo non aiuta, anche perchè chi ora contrasta la paura etnica, non ha fatto scrupolo nell’utilizzare la paura “economica”: “faremo la fine della Grecia”. (è solo uno dei casi in cui si utilizza comunemente la paura, la minaccia di futuri catastrofici) Certo è tutt’altra cosa, neppure lontanamente paragonabile, ma sempre di utilizzo delle paure collettive si tratta.
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La politica, da che mondo è mondo, è sempre stata anche gestione, mobilitazione e in parte manipolazione delle emozioni. Però il caso Brexit dovrebbe far riflettere: nell’ultima settimana prima del voto si è messa in circolo, da parte dell’Ukip, una macroscopica e consapevole falsità (350 milioni di sterline a settimana pagate dal Gran Bretagna alla UE) che avrebbe contribuito significativamente ad alterare l’esito del voto. Poi Farage è andato in televisione vantandosi della trovata. Beh, il troppo è troppo…
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