SULLE ORME DI SAM PECK – CAMBOGIA (PARTE – 4)

di GIANCARLO LUPO ♦

Il complesso monumentale di Angkor Wat, immagine del monte Meru, seconda parte

….  Dopo ci spostiamo verso il tempio di Takeo a forma di doppia v.

 

Verso l’una ci fermiamo a mangiare e un’orda di cambogiani ci assale per contendersi 2 dollari nei baracchini. Mangiamo all’aperto sotto un tendone. I marmocchi vogliono venderci le loro cose.

Tha Prom è il tempio più suggestivo e bello. Con gallerie concentriche e torri negli angoli. Le macerie del tempio sono perfettamente inserite nella foresta. Diversi tipi di albero (Il kapok o ceiba, l’albero di gomma e il ficus strangolatore) sovrastano le enormi pietre innervandosi su esse come un reticolo di radici aliene.

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Quando arriviamo alla spianata di Elephant terrace inizia a piovere.

Vorremmo arrivare a Banteay Serei, il tempio delle donne, a circa 20 km da Tha Prom, ma mr. T, vista la pioggia e la situazione delle strade, ce lo sconsiglia.

Torniamo per le quattro di pomeriggio.

Affitto una bici da passeggio in un negozietto sgangherato simile a un garage, con una sola scrivania e polvere dappertutto.

io in bici

Beviamo qualcosa con Ryan e i portoghesi a Pub Street, una via pedonale dell’old market. Li saluto e ci scambiamo i numeri perché partono domani, per vie diverse.

Io sto ancora in giro. Locali con luci tristi, insegne di spettacoli con lady boys, musica. Sul night market mi accorgo che gli occidentali, nei centri di massaggio bene illuminati, ridacchiano, coi piedi a mollo in vasche colme d’acqua e pesci, ridono e ritirano il piede, mentre i pesci mangiano la pelle morta. Per strada una vecchia minuscola, calva e buddista, emette una nenia ginocchioni, capo in giù, chiedendo l’elemosina. Mi disfo degli unici riel che ho. In Cambogia è meglio usare i dollari.

 

17 giugno 2014

Mi sveglio alle 4 e 20, preparo la borsa, esco fuori. Buio. Nell’atrio solo il tuc tuc di Mr. T vuoto. Apro il cancello e procedo sotto una fievole lucina monca. Imbocco Tha Phui road, pedalo fino a National road e, in prossimità del fiume, svolto a sinistra verso Angkor Wat. Le strade larghe, a volte buie, sono suggestive di notte, costeggiate da enormi alberi a lungo fusto.

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Al chiarore antelucano vedo emergere palafitte, costruite su gambe altissime, come gusci tra il fogliame dei banani. Nella stagione delle piogge di solito sono sommerse dalle acque generose del Mekong. Bufali male in arnese pascolano sulla terra rossa in cerca di qualche filo d’erba.

Passo da Angkor Wat anche oggi per vedere lo spettacolo dell’alba, ma è nuvoloso come il giorno prima.

Cerco di prestare più attenzione ai dettagli. Per gli architetti dei templi, ogni dettaglio aveva un preciso significato: le pietre, le sculture, i cortili, i bassorilievi erano tasselli del grande mosaico che doveva raffigurare i vari mondi, compreso quello superiore adagiato attorno al mitico monte Meru.

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Dai livelli superiori sono più visibili i chiostri cruciformi, con bacini per l’acqua, che collegano le quattro torri. Oltre il colonnato che chiude i chiostri ci sono i bassorilievi alle pareti: la piana di Kurushetra, che costituì il campo di battaglia della guerra tra due rami della dinastia dei Kuru: i Pandava, guidati dall’eroe Arjuna, e i loro crudeli cugini Kaurava. Grazie all’aiuto di Krishna, incarnazione Divina, i Pandava ottennero la vittoria nonostante l’inferiorità numerica del proprio esercito. Ci sono altri episodi dell’induismo: Ravana che scuote il monte per liberarsi; Kama, un dio dell’amore simile a Eros, scocca una freccia contro Shiva per destarlo, ma viene fulminato all’istante dal dio, assorto in meditazione, con un solo sguardo del terzo occhio. Riconosco tanti miti hindu: Garuda, Naga, Vishnu, Shiva, Rama, Krishna.

Riprendo la bici e giro tra i viali alberati. Tuc tuc e venditori a ogni istante dicono: “Sir, sir, water, water”. Concerti di grilli e cicale. Vedo fiori di loto negli stagni, pagode, una casa circondata di filo spinato. Su un prato pieno di acacie, fiori arancioni e gialli, ibiscus rossi, alberi fiammeggianti, palme, risaie e stagni coperti di fiori di loto.

Venditori di insetti con grosse ceste di scarafaggi e cavallette, venditori di frutta e altre mercanzie: durian, banane, noccioline, bibite, pesce essiccato, noodles istantanei e cibo a un dollaro.

Un uomo con una gabbia di uccelli chiede soldi per liberarne uno dentro il tempio come porta fortuna. Probabilmente sono ammaestrati e ritornano a lui.

Il sole batte forte. In un angolo ci sono amache per viandanti. Scendo dalla bici e mi stendo su una amaca. Una bambina malconcia, sporca in viso, senza scarpe, vuole vendermi paccottiglie. Ripeto con fermezza che non compro niente, venduto dai bambini.

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Dopo visito altri templi, come Bapuan con le scale altissime, all’ingresso del quale, un ufficiale prova insistentemente a vendermi il suo badge. Quando capisce che non mi interessa comprarlo mi racconta la sua storia. Ha un nome impronunciabile e 25 anni, suo padre ha perso le gambe a causa di una mina. Con il bambù il padre crea strumenti musicali simili al marranzano.

L’ufficiale si ferma a raccontarmi storie e leggende di guerra. Dice che gli alberi di zucchero hanno foglie molto appuntite che i khmer usavano per tagliare gole e addirittura teste. I cadaveri erano talmente tanti che per eliminare la puzza dei gas i khmer usavano il DDT, che serviva anche per dare il colpo finale agli ultimi sgozzati. Deportazioni di massa, famiglie separate costrette a vivere nel terrore. Parla di altre torture che mi richiamano immagini già viste: i carcerieri stringevano una corda attorno alle vittime, le mani legate dietro la schiena, li strattonavano con la corda verso l’alto finché, quando la schiena dei prigionieri cedeva, svenivano. I carcerieri svegliavano nuovamente i torturati immergendoli in bidoni pieni di feci.

Saluto l’ufficiale, compro uno strumento musicale costruito dal padre e giro altri templi.

Per esempio il tempio Banteai, una specie di Tha Prom più piccolo e meno spettacolare, con una serie di lunghi corridoi e chiostri cruciformi crollati a causa degli alberi.

YAMA

A un certo punto con la bici torno indietro, di nuovo verso Angkor perché le storie dell’ufficiale dal nome impronunciabile mi hanno fatto venire una sorta di deja vu. In uno degli splendidi bassorilievi di Angkor, gli scultori khmer di secoli fa hanno rappresentato il giudizio di Yama. Yama è un dio dei morti, davanti a cui le anime si presentano per essere sottoposte al suo giudizio. Nel bassorilievo ci sono immagini di paradiso e inferno, premonitrici degli eccidi di Pol Pot. Fanno pensare ai racconti dell’ufficiale e decido di osservare le immagini prestando maggiore attenzione: uomini sprofondati sopra grandi mucchi di armi taglienti; altri condannati ad abbracciare una statua coperta di aculei di metallo; uomini sprofondati in un dirupo; altri tormentati dalle bestie feroci; uomini lanciati all’interno di forni ardenti; altri condannati a camminare sul suolo ricoperto di spine; uomini stesi sopra un letto di ferro incandescente e obbligati ad alimentarsi con immondizie; altri schiacciati dai piedi degli elefanti e ridotti in pezzi minutissimi; bambini sfracellati contro alberi; uomini picchiati a morte coi bambù e buttati nelle fosse comuni.

APSARAS

Accanto alle scene di spaventosa sofferenza ci sono quelle di grande serenità; accanto agli spaventosi torturatori senza espressione ci sono le apsaras, ballerine dai corpi sinuosi che danzano. Orge di dolore contrapposte ad orge di felicità, il tutto sotto gli occhi di pietra socchiusi in indecifrabili sorrisi.

18 giugno 2014

GIANCARLO LUPO

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