Sulle orme di Sam Peck – CAMBOGIA (parte – 1)
di GIANCARLO LUPO
CAMBOGIA (parte 1)
La strada per Angkor Wat (il mitico monte Meru)
L’atrio – sala d’aspetto all’interno della stazione di Hualampong, a Bangkok, è molto grande e ben illuminato, pieno di vita. Le ampie cupole sono sostenute da tramezzi di acciaio. Al centro ci sono due ordini di panche per l’attesa delle partenze. Ai lati ci sono le biglietterie, i pannelli dove sono segnati gli orari degli arrivi e delle partenze, enormi schermi televisivi che trasmettono combattimenti di Muay Thai. A Bangkok è meglio dirigersi verso la biglietteria, senza ascoltare nessuno, senza fermarsi a parlare con nessun truffatore, e comprare direttamente il biglietto, evitando inutili e, soprattutto, inesistenti commissioni.
Ci sono due treni per Atanyaphatet: alle 5 e 30 am o all’1 e 30 pm. Il viaggio dovrebbe durare 5 ore e qualcosa.
Il treno ritarda. Vicino ai binari una fila di persone in attesa di un taglio di barba e capelli a opera di parrucchieri improvvisati. Mentre sono in attesa sui binari guardo le immagini e i santini del re Bhumibol Adulyadei e famiglia al seguito sparsi un po’ dappertutto. Nelle stazioni thailandesi, di solito, alle sei di pomeriggio, gli altoparlanti trasmettono l’inno nazionale. Tutti si fermano in piedi, e guardano davanti a sé con aria compunta e patriottica. Da farang (straniero) devi mostrare rispetto per questa tradizione e per la famiglia reale. D’altronde sono previsti sette anni di carcere per il delitto di lesa maestà.
Il binario è pieno di gente e bagagli.
Arriva il treno con mezz’ora di ritardo. Salgo sul primo vagone e il controllore in uniforme dice a un altro farang, come me, che questo è il treno per la Cambogia. Io e Ryan, l’altro farang, siamo gli unici due occidentali. Gli altri passeggeri sembrano abbastanza ordinati ed educati, aspettano pazientemente in fila. Con Ryan, inglese, rimaniamo d’accordo nel dividere eventuali spese di taxi appena arrivati a Poipet city, la prima città di confine della Cambogia, per poi raggiungere Siem Reap. Riusciamo a trovare due posti, perpendicolari alla direzione di marcia.
Le poltrone della terza classe, di pelle sporca e verde, non distano molto dai treni regionali a cui eravamo abituati una ventina di anni fa. Il vagone ha una struttura grezza in acciaio; i portapacchi sopra la testa sono talmente larghi che ci si potrebbe stendere su; i ventilatori fissati al soffitto sono spenti o malfunzionanti; i finestrini sono aperti e i portelli inesistenti. In mezzo al vagone i passeggeri si ammassano, seduti per terra o su scatole di elettrodomestici. Davanti a me una donna stringe tra le mani un ventilatore alto un metro e mezzo circa.
Siamo fortunati ad aver trovato due posti liberi. Molti passeggeri sono in piedi. Il treno comincia a sferragliare e, nonostante un po’ di aria che inizia a filtrare, si muore dal caldo. I cambogiani si sventolano con tutto quello che hanno per le mani: cappelli, fogli di carta, giornali, pezzi di cartone, tutto si muta in ventaglio. I bimbi crollano a dormire a causa del caldo eccessivo.
I cambogiani guardano curiosi verso di noi, unici occidentali, e rispondono ai sorrisi con sorrisi, rispettosi.
Il treno intanto comincia ad accumulare ritardo. A ogni fermata salgono sempre più persone. Stranamente non ci sono i soliti venditori dei treni, che portano merce al mercato per venderla.
Intanto i bambini si sfidano in gare di pianto. Una bimba, che all’inizio del viaggio accennava mosse di danza, ora è corrucciata quando guarda nella mia direzione, e sembra in procinto di piangere. Gli adulti con lei, si fa per dire perché qui sono tutti giovanissimi, mi guardano e, dopo averle detto qualcosa, ridono. Immagino stiano dicendo alla bambina che il brutto e grosso farang con la barba se la porta via, se comincia a comportarsi male.
L’arrivo era previsto per le 5 e qualcosa. Si fanno le 7. E il viaggio non accenna a finire.
Entrano farfalle svolazzanti che danno fastidio. La gente cerca posti vuoti per stendersi.
Attorno a noi ci sono visi sereni, tranquilli.
Quando arriviamo alle 9 e 30 di sera, intravedo dal finestrino una enorme ruota di un luna park. Tutti i cambogiani si alzano compostamente, caricano gli enormi pacchi sopra le spalle, e si dispongono in fila ordinata. Fuori un ammasso di gente.
Io e Ryan siamo ancora gli unici farang.
Buio, confusione, passeggeri che vanno da una parte all’altra, masse sudate in movimento. Poi, usciti fuori dalla stazione, ci sono riflettori di luce puntati su di noi e molta confusione in mezzo alla via. Tiriamo dritto, oltre la folla. Un’automobile della polizia è messa di traverso. Un poliziotto thai in divisa urla con un megafono frasi in thai. Non si può passare oltre. I cambogiani assembrati ordinatamente davanti all’auto, seduti sui loro pacchi, lo lasciano urlare in silente e paziente ascolto.
Noi aggiriamo il sit-in perché un guidatore di tuc tuc (un taxi a tre ruote usato in tutto il sud est asiatico) ci si fa incontro e ci dice in inglese che i nostri compagni di viaggio devono rimanere in attesa perché non hanno il visto.
Saliamo sul tuc tuc per arrivare alla frontiera. La strada è larga, ma poco illuminata e deserta: 7 km di niente.
Il tuc tuc, appena siamo in vista della barriera di frontiera, svolta a destra e ci porta davanti a un ufficio con l’insegna VISA, scritta a caratteri cubitali. L’ufficio è chiuso.
L’autista cerca i “funzionari”, dice. Lo ignoro e vado dritto verso la frontiera, perché nella Lonely Planet avevo letto della truffa ai danni dei turisti con i falsi visti. Ci sono addirittura falsi uffici, dove rilasciano pezzi di carta inutili. Ryan lascia 5 bath, in più sul prezzo pattuito, all’autista perché quest’ultimo continua a insistere che non ci fanno uscire dal paese senza visto.
Davanti a noi ci sono edifici enormi, caserme, fortificazioni d’acciaio e sacchetti di sabbia, sbarre a livello, con dietro i soldati governativi, bene armati e oziosi, che ci lasciano passare senza problemi. In un ufficio dalla luce verdognola, con sbarramenti sgombra fila, ci sono solo quattro funzionari thai che ci invitano ad entrare: una lunga scrivania, dietro la quale, un’impiegata è immersa in scartoffie burocratiche; due banchetti rialzati con due impiegati che verificano il nostro passaporto. Come scritto nella Lonely Planet, non serviva nessun visto per uscire.
Appena oltrepassiamo la porta, scese alcune scale, arriviamo finalmente alla frontiera vera e propria: alcuni ragazzi in sella alle moto ci fanno segno di salire, per percorrere qualche centinaio di metri. Li ignoriamo.
Arriviamo a un altro ufficio triste in cui c’è solo un tavolo appoggiato all’angolo, una sedia solitaria e tre tizi nascosti dietro un vetro che scattano foto e timbrano passaporti. Come riportato nella Lonely Planet, il vero ufficio visa. I prezzi vanno da 20 a 25 dollari, se non hai una foto tessera adatta.
Incontriamo altri due europei, una coppia di portoghesi, Andree e Helena con cui decidiamo di dividere le spese di taxi per Siem Reap.
Nel baluginare della terra sotto la luna cominciamo a intravedere le sagome della città di Poipet, una città che sembra completamente abbandonata, immersa in un paesaggio surreale. Poi arrivano luci stroboscopiche, poche insegne giganti, un casinò enorme, ma nonostante tutto, ancora desolazione, finché non arriviamo ai cancelli finali.
A quel punto siamo tempestati da autisti di tuc tuc, moto e taxi,.
I procacciatori di affari che si trovano alla frontiera sono molto insistenti e noi diciamo loro con fermezza che non abbiamo bisogno di niente.
Un ragazzo, che si professa: taxista, cambia soldi, interprete e tuttofare, si intromette tra noi e una venditrice di cibo, dicendo in inglese che il cibo, una poltiglia schifosa simile a una zuppa, costa 80 bath. Non mangio dalla mattina e, nonostante l’aspetto del cibo poco invitante, chiedo un piattino. Il tuttofare si distrae, io do 100 bath alla venditrice che, onestamente, mi dà 70 bath di resto. Il sedicente interprete tuttofare voleva prendere una commissione. Non bisogna fidarsi del primo venuto, perché tentano di estorcerti pochi spiccioli in tutti i modi.
Ci fermiamo al primo hotel guesthouse gestito da un ragazzino. Tutti sono molto giovani.
Il gestore dice che il passaggio a Siem Reap di notte costa molto di più. Sono circa 150 km, bisogna pagare 50 dollari. Il ragazzino parla al telefono, suo fratello non può, ma potrebbe mandarci un amico di suo fratello. È meglio non fidarsi però di taxi non regolari.
Usciamo fuori e inizia a piovere. Sotto la pioggia rinfrescante incontriamo altri due occidentali, australiani, sui sessanta anni: uno, rubicondo e paonazzo, indossa polo blu e sembra un rispettabile pensionato in vacanza, mentre l’altro, dalla barba bianca e incolta, indossa una canottiera strappata, e sembra un motociclista di Harley Davidson. Quando parla ha una voce impastata di chi ha bevuto troppi rum e fumato troppi havana nella vita. Sembrano qui per affari loschi.
Dicono che possiamo chiedere un taxi nel loro hotel, ma dobbiamo aspettarci truffe, perché anche loro vengono raggirati continuamente.
Chiedo a uno di loro cosa fanno a Poipet. Mi risponde: “tits implants”. Non capisco, ma avendo in mente affari loschi penso a trapianti di tette per transgender. Capisce la mia incredulità e a gesti mi fa capire teeth. Problemi con la pronuncia australiana.
“Perché proprio a Poipet?”
“È meno caro di Phon Pehn”.
Do per buona la sua risposta, ma la trovo ancora poco credibile.
Anche la transazione al loro hotel non va a buon fine. Non si trovano tassisti che vogliono viaggiare di notte. C’è solo l’interprete tuttofare che ci aspetta fuori da ogni hotel, di cui, ovviamente, non ci fidiamo assolutamente.
Il Poipetcity hotel sembra il posto più serio e tranquillo. Il gestore ragazzino fissa il prezzo a 45 dollari non trattabili. La reception è luminosa, c’è il wi-fi e un frigo con bibite, un bancone di legno nero.
Il gestore chiama al telefono, ma dopo una lunga telefonata di una ventina di minuti, dice: “No taxi”. L’unica soluzione, ovvia, è prendere camera nell’hotel. Le stanze sono semplici: due letti, tv, frigobar, bottiglie di acqua, asciugamani puliti, ma accettabili. È quasi mezzanotte.
In buona parte del sud est Asia, in molti alberghi, non c’è acqua calda. Faccio una doccia fredda. Accendo la tv e faccio zapping. Vedo un programma con la apsara, la tipica danza cambogiana, lentissima e monotona, piena di sorrisi e donne dal trucco vistoso, in sarong lungo, che ruotano il polso armoniosamente su sé stesso.
15 giugno 2014
GIANCARLO LUPO
continua…
Bello, attendo il racconto dell’affascinante Angkor. Ci sono stato di recente, ma in modo meno avventuroso. Passammo il confine fra Vietnam e Cambogia attraverso una postazione fluviale. Un’esperta guida italiana ci risparmiò la trappola dei visti, lei conosceva come funziona…
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Sono stata in Cambogia quasi 20 anni fa dopo un lungo giro prima in Malesia e poi poi in Tailandia e ticordo poco ma ricordo le atmosfere perfettamente raccontate
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