VIAGGI DI ME – (6) Storie di bambini rapiti e di guerre inutili, cervelli preveggenti …

Storie di bambini rapiti e di guerre inutili, cervelli preveggenti e giornate a tutto gas

Histórias de crianças sequestradas e guerras desnecessárias, cérebros proativos e dias sem descanso 

di  NICOLA R. PORRO 

In un angolo ombreggiato del grande viale centrale ci tratteniamo a parlare con le madri di Plaza de Mayo. Il fazzoletto bianco annodato sulla testa, ci spiegano, vuole ricordare il primo pannolino di tela in cui avevano avvolto i figli neonati. Sono qui a testimoniare un dolore che il tempo non lenisce. Chiedono giustizia per vittime, spesso molto giovani, uccise con efferata e vile violenza. Vogliono una tomba che accolga i corpi scomparsi, sulla quale piangere i loro cari. In sua mancanza la stessa elaborazione del lutto, malgrado il tanto tempo trascorso, è più penosa e difficile.

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Plaza de Mayo è il nome della piazza di Buenos Aires dove queste donne senza paura sfidarono il regime. La loro pubblica protesta ebbe inizio il 30 aprile 1977. Da allora, e ininterrottamente sino a oggi, si ritrovano ogni giovedì pomeriggio e per mezz’ora percorrono in tondo la piazza, camminando a passo lento attorno all’obelisco che sorge al centro. La prima promotrice, Azucena Villaflor De Vincenti, fu detenuta a lungo in una delle prigioni segrete della famigerata Esma, la Escuela Superior de Mecánica de la Armada, dove si consumarono le peggiori atrocità. Il film di coproduzione italo-argentina diretto di Marco Bechis, Garage Olimporacconta alcune di quelle storie agghiaccianti. All’epoca era in visione da poco più di un anno. Alcune fra le donne del picchetto avevano collaborato con il regista ed erano comparse in qualche sequenza del film.

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Il movimento avrebbe tuttavia conosciuto nel 1986 una lacerante divisione. All’epoca il governo democratico di Raúl Alfonsín, tentando di pacificare il Paese dopo la caduta del governo golpista, aveva offerto ai parenti delle vittime risarcimenti finanziari che, soprattutto in quel momento di bancarotta economica del Paese, avrebbero almeno potuto alleviare le condizioni materiali di esistenza delle famiglie. Per necessità più che per convinzione, e senza rinunciare alla battaglia di principio “per verità e giustizia”, molti accettarono l’offerta. Essa prevedeva tuttavia una specie di indulto per un certo numero di imputati. Una delle fondatrici del movimento, Hebe Bonafini, si mise invece alla testa di un consistente gruppo di Madri contrarie a qualunque concessione agli aguzzini. L’ala intransigente verrà presto assumendo posizioni politiche radicali, trovando il sostegno di ambienti marxisti e dei seguaci del peronismo sociale delle origini. Negli anni successivi le Madres de Plaza de Mayo-Línea Fundadora daranno vita a campagne per i diritti delle popolazioni indigene, affiancheranno le prime mobilitazioni ambientalistiche e prenderanno posizione a favore dei regimi rivoluzionari in America latina.

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Una fra le componenti il picchetto ci si rivolge in un discreto italiano e si intrattiene volentieri qualche minuto con noi. Nelle segrete dell’orrore ha perso lo zio, che le faceva da padre, e un cugino di nemmeno venti anni. Appartiene a una famiglia di origine italiana e lavora a Buenos Aires come psicologa dell’infanzia. Intavola un fitto dialogo con una giornalista di orientamento femminista che ci aveva raggiunto cammin facendo. Afferro una riflessione interessante che riguarda la “socializzazione della maternità”: riconoscersi come madri nella tragedia collettiva di un figlio assassinato, sostiene la psicologa, aiuta l’elaborazione soggettiva del lutto. Può avere però anche un significato politico forte. Le madri di Plaza de Mayo non possono che sentirsi madri di tutti gli oppressi, ma le “intransigenti” vanno oltre la pura testimonianza: non si può denunciare il male senza impegnarsi a sradicarlo. Chiaramente il loro orizzonte prossimo era rappresentato dalla tormentata geografia politica dell’America latina del tempo. Ciò spiega il sostegno fornito anche a leader e movimenti populistici che non tutti e non sempre hanno dato prova di affidabilità democratica. Le Madri della Linea Fundadora simpatizzeranno attivamente per il movimento zapatista del Chiapas, per le politiche di Chavez (e poi di Maduro) in Venezuela e ovviamente per il regime castrista di Cuba. Appoggeranno anche i primi governi Kirchner in Argentina e quelli radical-populisti di Rafael Correa in Ecuador e di Evo Morales in Bolivia, nonché più avanti la pacifica rivoluzione uruguaiana legata al nome di Pepe Mujica. Le madri non si accontenteranno tuttavia di un semplice ruolo di testimonianza. La stessa Bonafini sarà nel 2008 protagonista della trattativa fra i guerriglieri delle Farc colombiane e il governo di Álvaro Uribe Vélez che portò alla liberazione di Ingrid Betancourt. L’organizzazione, anche dopo Porto Alegre, non cesserà la campagna di denuncia delle complicità statunitensi con i golpisti argentini e della presunta acquiescenza della Chiesa cattolica, soprattutto negli anni del pontificato di Giovanni Paolo II, nei confronti del regime di Pinochet in Cile e della dittatura militare in Argentina.

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A differenza dell’Asociación Madres de Plaza de Mayo, inoltre, la Línea Fundadora svilupperà programmi di educazione alla democrazia nelle scuole argentine e patrocinerà programmi di recupero con destinazione sociale dei luoghi dove si consumarono materialmente le violenze dei golpisti. Il progetto, in parte realizzato negli anni successivi, era quello di trasformare i centri di detenzione e tortura in sedi culturali polivalenti, aperti ad attività di studio, documentazione e discussione sull’esempio del Museo della Shoah parigino. Un’altra esponente della Línea Fundadora, Estela Carlotto, fonderà qualche anno dopo le Nonne di Plaza de Mayo con l’obiettivo di identificare i tanti bambini nati durante gli anni della dittatura e sottratti con la forza alle giovani donne sequestrate e uccise per essere adottati da famiglie di gerarchi o di sostenitori del regime. All’epoca i bambini rapiti erano ormai dei giovani più o meno ventenni, cresciuti nelle famiglie degli assassini delle loro madri e tenuti completamente all’oscuro della loro storia. Al Forum le Nonne vogliono raccontare una loro recente vittoria, effetto indiretto di una rivoluzionaria scoperta scientifica. Alla fine degli anni Novanta i primi test sperimentali sui polimorfismi del DNA mitocondriale, che si trasmettono esclusivamente per parte materna, avevano consentito una svolta epocale. Dato che sia la nonna materna che i figli di questa posseggono lo stesso mtDNA, diventava possibile compararlo e risalire all’identità genetica della madre. Il caso dei bimbi rapiti in Argentina, i niños desaparecidos, costituì un potente incentivo a sviluppare la ricerca e ad accelerarne la sperimentazione. È tuttavia facile immaginare le delicatissime implicazioni etiche, psicologiche e giuridiche aperte da questa possibilità.

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Un anno dopo l’incontro di Porto Alegre le Madri e le Nonne otterranno un altro successo insperato: la desecretazione dei documenti riservati in possesso degli Usa circa il rinvenimento dei cadaveri di tre vittime dei voli della morte. Le carte dimostreranno inconfutabilmente come nel 1978 i servizi statunitensi, a conoscenza del fatto, lo avessero taciuto per coprire le atrocità commesse dai golpisti. Nel 2005, la martellante campagna delle Madri porterà alla riesumazione del cadavere della suora francese Leonie Duquet, costringendo il presidente Chirac a riaprire il fronte giudiziario e a costituirsi contro i carnefici. Attorno a noi si è formato un capannello animato. Qualcuno lascia dei fiori sotto il grande pannello. C’è chi bacia le foto degli scomparsi e chi accarezza i fazzoletti bianchi come fossero reliquie. Un vecchio registratore diffonde le note struggenti di Mothers of the Disappeared degli U2, il They dance alone di Sting, un pezzo dei Liftiba e la Canzone per i Desaparecidos dei Nomadi (1996). Siamo in Brasile, la musica ti insegue ovunque ma adesso rende più difficile trattenere la commozione.

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Ci allontaniamo in silenzio, abbiamo tutti un nodo in gola ma ci portiamo dentro una sconfinata ammirazione per l’ostinata fierezza e l’indomabile coraggio di queste donne anziane e in apparenza così fragili. Da decenni combattono una guerra che non hanno dichiarato a criminali che l’hanno scatenata facendo ricorso a una violenza cieca e vigliacca contro donne e uomini inermi.

Videla e i suoi compari quella guerra la persero militarmente quando si illusero di creare un diversivo ai loro fallimenti occupando le isole Falkland (Malvine), un pugno di scogli inospitali nell’Atlantico meridionale, rimasti sotto sovranità britannica. I golpisti, alla cui testa era all’epoca il generale Leopoldo Galtieri, attuarono il colpo di mano soffiando sul fuoco del nazionalismo ma sottovalutando il rischio di una reazione militare dei britannici. La premier Margaret Thatcher, anche lei alle prese con un calo di popolarità generato dalle sue politiche economiche, sfruttò invece la sfida per eccitare a sua volta l’orgoglio nazionale contro un nemico politicamente screditato come i fascisti argentini. I quali, questa volta, non si trovarono di fronte vittime inermi e corpi su cui infierire con sadica brutalità. Posti di fronte a un esercito vero, come quello britannico, subirono sul campo un’autentica umiliazione. In poche settimane furono costretti al ripiegamento e spazzati via dalla controffensiva combinata delle forze armate avversarie. Decisivo fu il controllo del mare. E in mare si consumò la maggiore tragedia di quella inutile e stupida guerra quando il 2 maggio 1982 l’incrociatore General Belgrano fu affondato da un sottomarino britannico, un Conqueror a propulsione nucleare. L’operazione costò la vita a 275 cadetti dell’Accademia navale argentina. Il popolo argentino subì così un’altra atroce ferita. Insieme all’isolamento internazionale, cominciò a montare una rivolta collettiva che la violenza di stato non era più in grado di reprimere. Pochi mesi dopo la Giunta militare dovette cedere il potere.

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Per ironia della sorte, a sconfiggere militarmente i golpisti e la loro cultura maschilista era stata una donna di forte temperamento e di sentimenti conservatori come la premier Thatcher. Ma la più cocente sconfitta dovettero subirla a opera di queste donne armate solo del loro sconfinato dolore e di una sete di giustizia che non si è ancora estinta. Nessuno come loro, dai giorni della scoperta dell’Olocausto, ha saputo scuotere la coscienza distratta dell’umanità attingendo a una sofferenza che nessuna parola può esprimere. Nessuno come loro ha saputo dare evidenza alla natura perversa di tutti i fascismi e di tutte le dittature: nemici non solo della democrazia ma dell’umanità stessa. Nessuno come loro ha saputo smascherare la catena di ipocrisia, indifferenza e complicità che li avevano permessi.

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Adesso siamo davvero in tremendo ritardo. Quando arriviamo a destinazione, di fronte all’edificio che ospita le kermesse oratorie, rimaniamo di stucco. Per sentire le star di oggi, che sono Samir Amin e Alain Touraine, c’è una folla straboccante che si assiepa già sulle scale esterne. I due relatori parleranno della sfida della globalizzazione, dello sviluppo ineguale, dell’emergere di nuovi conflitti e di inediti movimenti sociali. Temi che anticipano il dibattito sulla globalizzazione che si svilupperà sul terreno dell’analisi teorica negli anni a seguire. Ci facciamo strada a gomitate sino a occupare un cantuccio dell’aula magna. La grande sala sembra una curva calcistica il giorno del derby. Rinuncio subito al proposito narcisistico di farmi immortalare mentre stringo la mano a Touraine. Ci eravamo conosciuti qualche anno prima a Roma in occasione della presentazione del suo libro Il ritorno dell’attore sociale, di cui avevo curato la traduzione italiana. L’aula è sovraffollata, l’acustica imperfetta, ma riusciamo con un po’ di sforzo a seguire i ragionamenti degli oratori. Touraine vola alto (forse troppo), prefigura l’emergere di forme di conflitto incarnate da attori nuovi, portatori di identità politiche alternative (anzi: la politique est en train de sortir de la politique…), espressione dell’opposizione fra Nord e Sud del mondo e del declino dell’egemonia occidentale.

Amin ci spiega che lo sviluppo ineguale è destinato a generare la spirale crescente delle diseguaglianze nello sviluppo e che il cosiddetto Terzo Mondo sarà l’epicentro di una inedita guerra di globalizzazione. Dopo qualche mese conosceremo l’attacco alle Torri gemelle che di quella guerra diverrà l’evento simbolo. Touraine, da parte sua, conclude lanciando ai movimenti progressisti di ogni latitudine un monito drastico: guai a leggere il XXI secolo attraverso le lenti fabbricate per comprendere il XIX. Ma guai anche a ignorare o stigmatizzare l’emergere di nuove conflittualità. I movimenti sociali del Duemila saranno orientati a problematiche globali ma ispirati a vertenze locali. Quello che Roland Robertson aveva chiamato qualche anno prima pensiero glocal (globale/locale) non ricerca sintesi ideologicamente coerenti e non dà vita a strutture organizzative rigide come i vecchi partiti di massa. Ma la folla variopinta che ci circonda conferma che i conflitti, la protesta contro l’ingiustizia, la polarizzazione tendenziale che qui si palesa crudamente come opposizione fra chi ha troppo e chi non ha nulla, non sono certo cascami del vecchio mondo destinati a essere magicamente cancellati nel tempo della postmodernità.

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Analisi all’epoca appena abbozzate, che si riveleranno presto profetiche. Dopo l’attacco alle Torri gemelle del settembre 2001 verranno il crollo di Wall Street, le recrudescenze di guerra in Medio Oriente, la crisi finanziaria globale di fine decennio. Riflettendo a posteriori, quelle analisi aiutano anche a comprendere il male oscuro delle società affluenti di cui le insorgenze populistiche del decennio successivo saranno insieme espressione e fattore di moltiplicazione. Gli economisti, i politologi, i sociologi che ascoltammo a Porto Alegre si sforzarono di dimostrare come un altro mondo fosse certamente possibile, e che fosse tempo di provare a costruirlo…

All’uscita, ci sforziamo di raccogliere le idee. “Per chi guarda la globalizzazione da questa parte del mondo – commenta Afonso – le formule astratte contano poco. Gli scenari disegnati dai maestri del pensiero sono inquietanti e affascinanti al tempo stesso. Ma abbiamo bisogno di risposte concrete, di solidarietà e anche di generose utopie”.

Ripensandoci oggi mi tornano in mente le Parole in cammino dedicate qualche anno dopo da Eduardo Galeano al bisogno di utopia: “…l’utopia sta all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Faccio dieci passi e l’orizzonte si allontana di dieci passi. Per quanto cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? A questo: serve a camminare…”.

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Afonso si rende conto della nostra stanchezza: se ci reggiamo ancora in piedi si deve solo a questa ondata di emozioni e di stimoli intellettuali. Propone però di proseguire la discussione due giorni dopo. Per quella data ha organizzato un seminario (Itinerários e perspectivas da globalizaçãorecita il dimesso foglio ciclostilato che lo annuncia) per il suo corso di sociologia all’Università statale. Essendo l’unico sociologo a tiro, sebbene sotto mentite spoglie, mi invita a partecipare. Vuole che racconti ai suoi studenti le mie prime ventiquattro ore in Brasile: potrò parlare a ruota libera di Gisele, di Garibaldi e Falcao, delle ragazze delle favelas, dei migranti italiani e della musica che ti insegue dappertutto, della criminalità di strada e della comunità del Forum. Discuteremo delle idee di Touraine e Samin e useremo idealmente lo stirrer del pensiero per mescolare tutto al meglio come fanno loro per la caipirinha. Per la pena del contrappasso, mi trasformerò in osservatore partecipante: chi la fa l’aspetti.

Al ritorno in città sfrutto un passaggio da amici che hanno noleggiato un’auto. Mi informano che siamo tutti invitati a cena dal sindaco Tarso Genro. Vuole incontrare informalmente noi e i francesi prima della riunione protocollare del giorno dopo. Nemmeno il tempo di cambiarci d’abito ed eccoci all’appuntamento, in una bella casa con giardino alla periferia della città. Portiamo in omaggio la colorata confezione di un dolce alla meringa che abbiamo rimediato lungo il percorso al dispenser di una specie di autogrill. Siamo in tanti, sgomitanti su un terrazzo all’aperto dove i camerieri stanno già servendo uno spettacolare churrasco tagliato a colpi di machete direttamente sui piatti di carta. Ci muoviamo a fatica. L’accogliente dehor che ci ospita immette su un giardino di vegetazione lussureggiante, illuminata da fasci di luce sapientemente disposti. Concedendoci la caipirinha del dopo cena scambiamo finalmente qualche battuta con i colleghi francesi. Scopriamo che, a differenza di noi, che rappresentiamo decine di sigle diverse, loro sono nella quasi totalità esponenti di un unico movimento, denominato Attac. È l’organizzazione fondata da Ignazio Ramonet, un giornalista economico già direttore di Le Monde Diplomatique e ideatore della Tobin Tax, la tassa sulle emissioni nocive che il movimento propone di destinare al finanziamento di piani di sviluppo per le aree povere del pianeta. Capiamo che sono venuti qui con idee molto precise e con un programma preordinato. Scambiamo qualche battuta di pura cortesia ma la sensazione è di essere percepiti come interlocutori scomodi. L’armata Brancaleone del terzo settore italiano, come capiremo prestissimo, può rappresentare agli occhi dei francesi un potenziale fattore di disturbo. La nostra pur disorganizzata presenza, per le dimensioni numeriche della delegazione e per la notorietà di alcuni leader, potrebbe contrastare il disegno di egemonizzare, sotto le insegne di Attac – che al Forum ha già tappezzato tutto il tappezzabile con i propri materiali di propaganda -, il fronte disperso e composito dei movimenti presenti al Forum.

Serpeggia fra le nostre fila l’idea di una plenaria degli italiani. L’iniziativa, impensabile al di là dell’Oceano, riscuote un consenso unanime. Siamo però tutti allo stremo e decidiamo di aggiornarci alla mattina successiva. Appuntamento al nostro hotel dopo colazione e prima di trasferirci al Municipio per l’incontro diplomatico e poi al Forum per i lavori che saranno aperti dal comizio di Lula.

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