Piccole storie di inappuntabile violenza
Piccole storie di inappuntabile violenza
Un’amica sta lasciando definitivamente la città dove per lavoro ha vissuto molti anni. So cosa significa un trasloco e sono preoccupata per lei, tanto più che non posso aiutarla in nessun modo, giusto una telefonata ogni tanto per sentire come sta, una piccola pausa fra le pile degli scatoloni – questo lo butto, questo lo tengo – che si fanno sempre più alte e, così pesanti, minacciosamente oscillano in cima. Oggi la trovo esasperata perché è arrivata al dunque, deve disdire le utenze di luce, acqua, gas, telefono, deve provvedere al cambio di residenza.
Lei che è una donna vitale e concreta, e da laureata in lettere ha sempre lavorato, giocato e per la passione con cui divora i libri, stretto intimità con le parole, lei viaggiatrice intraprendente e instancabile, con le istruzioni del caso non ci capisce nulla.
Il telefono, per dire. Come si fa a estinguere una volta per tutte un contratto telefonico? Esistono mille moduli, su carta e on line, per effettuare qualsiasi operazione o richiesta, ma non per dirsi addio. Al numero verde del servizio clienti, messe da parte le opzioni che non interessano e ottenuto finalmente di parlare con un operatore, si ricevono istruzioni compunte che si tratta (invento perché inventare è liberatorio, ma le procedure reali non sono meno macchinose e strambe) semplicemente si tratta di farsi tatuare un codice a barre lungo la caviglia sinistra, scattare con destrezza un selfie della medesima e postarlo sul profilo facebook della compagnia telefonica, avendo cura di farne un back up e conservarlo per venticinque anni. Alla banca consigliano di annullare il mandato di pagamento della bolletta come “l’unico modo per farli uscire allo scoperto”, che mi sembra configurarsi come un atto di guerriglia e perciò un richiamo irresistibile e pizzichino, un motivo di fierezza, ma certo un segno rivelatore. Un gran brutto segno. Era stato così semplice e dolce dirsi di sì. Un assenso dato per telefono, anche solo sussurrato, e un sentiero fiorito di promesse.
Questa asimmetria dei rapporti regolata dalle ragioni del profitto, che pervade il nostro modello di convivenza ogni giorno di più , ha fra gli effetti più immediatamente percepibili l’erosione e la svalutazione del nostro tempo personale. E’ violenza che con estrema facilità noi possiamo essere raggiunti in qualsiasi momento qualunque cosa stiamo facendo, senza poterci difendere dall’intrusione. E’ violenza che metterci in contatto con un essere umano pensante e dotato di parola, operante alle dipendenze dello stesso organismo che con tanta disinvoltura si intromette nella nostra quotidianità, richieda invece tanto tempo e tanti impicci, senza contare l’altra violenza, ben più grave, costituita dallo sfruttamento e dall’alienazione di cui quell’essere pensante e operante è vittima.
A rendere il grande Meccanismo ancora più insopportabile è la profonda ipocrisia con la quale si manifesta. La legalità è continuamente ostentata. Ma non la legalità come nitore, equilibrio, giustizia. Preliminare indispensabile a ogni azione, fosse la più modesta e, buon senso direbbe, la più priva di complicazioni, è l’estenuante lettura di regolamenti e codicilli volti a disciplinarne i minimi dettagli da entrambe le parti, spesso spropositata nei tempi che richiede rispetto al peso dell’azione in sé. Al punto che basta un consenso formale (“Accetto”) per andare avanti, ma con addosso un’impressione di sottile inquietudine: che quello scritto ignorato nasconda oscure insidie, il pericolo, se non proprio di aver incautamente venduto l’anima al diavolo, quanto meno di doversi sottoporre a impreviste e odiosissime incombenze, o di essere derubati. E’ facile cadere in autentiche truffe, reati con i controfiocchi. Ma altre volte, in virtù della forma il confine non viene varcato. Se, raccogliendo tutte le forze, ci si dispone alla lettura di quei testi, è frequente trovarli prolissi e contorti – si sospetta – ad arte, ambigui o misteriosamente ritrosi, e si resta smarriti come Renzo Tramaglino fra il latinorum di don Abbondio e le gride del dottor Azzeccagarbugli “(badate bene di non chiamarlo così!)”. Mentre invece, la comunicazione si fa piana e cordiale, se pur non innocente, quando serve a convincere qualcuno ad abbracciare una proposta. Con le parole sanno fare quello che vogliono. Signori, chapeau.
E per fortuna che c’è il computer, niente più code agli sportelli, e il grande Meccanismo va come un violino. E’ innegabile ed è meraviglioso: con le nuove tecnologie abbiamo svoltato. Danno modo di soddisfare ogni possibile curiosità, sono state il vento che ha aiutato a fiorire le Primavere Arabe, fanno paura, per la capacità di diffondere idee e dissenso, a colossi come la Cina, che ha innalzato un muro virtuale conosciuto come “Grande firewall”, monumento al suo clima di sospetto. Essendo strumenti, infatti, dipende da come vengono impiegate. Oltre a dare ali alla libertà, possono diventare armi tremende nelle mani del potere, anche sotto l’innocua apparenza di ottimizzare le pratiche amministrative. Lo racconta Ken Loach nel suo film più recente, Io, Daniel Blake: e questa non è più una piccola storia ma, nel suo essere forse un caso limite, lo spaccato di una contingenza amarissima e grave. In una Gran Bretagna dove lo Stato sociale non esiste quasi più, il falegname cinquantanovenne Dan, colpito da infarto, cerca invano di far valere i propri diritti. Ma si dibatte fra i paradossi di una burocrazia contraddittoria e incasellata in formulari che si pretendono onnicomprensivi, a contatto con funzionari preoccupati solo di svolgere in modo automatico le loro mansioni o col nulla di un call center, per di più impedito dalla sua ignoranza perfino nell’uso di un mouse, mentre è artigiano esperto e pieno di risorse. Insomma, si impiglia in quella che viene convenzionalmente definita una situazione kafkiana: e di solito, quando si dice così, ci si limita a intendere un meccanismo imperscrutabile, angoscioso e assurdo, dimenticando proprio l’aspetto più tragico. Risultato estremo di quel meccanismo è proclamare le vittime che schiaccia colpevoli del proprio male.
Scrivere il proprio nome sul muro come un grido di rabbia e, forse, di speranza è il modo con cui Daniel dà evidenza drammatica alla propria identità, rivendicando per sé e per gli altri, gli ultimi, il diritto calpestato alla dignità umana.
LUCIA SCAGGIANTE
Hai fotografato benissimo la nostra realtà quotidiana; ti ritrovi con abbonamenti sul telefonino ad esempio mai richiesti e poi per eliminarli ore al telefono e io mi ci racccapezzo bene figurati se capita a chi non capisce, non si accorge nemmeno di averli sottoscritti semplicemente cliccando una immagine su facebook
"Mi piace""Mi piace"
Brava Lucia.
"Mi piace""Mi piace"
Uno dei grandi problemi del nostro bellissimo e pazzesco Paese è l’assenza , pressochè totale, della certezza del diritto. Se subisci un torto, di qualsiasi natura , da un privato, da una azienda o persino dalle Istituzioni non hai nessuno strumento per rivalerti. Se entri nella spirale della Giustizia , poi, la situazione diventa davvero kafkiana. E’ scoraggiante per noi ma , cosa assai più grave, lo è anche per gli investitori stranieri . E Civitavecchia non fa eccezione . Se hai un problema con la TARI l’ufficio riceve tre volte a settimana un massimo di 20 persone al giorno…
"Mi piace""Mi piace"
Vero, manca proprio il senso. Non scorderò mai ciò che, conoscendomi, disse mio figlio: “non parlare mai sopra i tedeschi che si arrabbiano parecchio, poichè, impedendogli di terminare la il discorso è come se gli impedissi di esprimersi”. Me ne accorsi con la portiera dell’albergo. Mia mamma andava dal medico sempre con qualche regalo, una bottiglia di liquore o un omaggio qualsiasi. Io le dicevo: “mamma vedi che il medico lo paghiamo”, lei diceva che bisognava essere grati e chiedere sempre per piacere. Così era per avvocati, funzionari, impiegati e via dicendo. Ecco a volte il diritto in questo paese è un “piacere”. Ricordo un parcheggiatore, ovviamente abusivo a Caserta: “se vuol stare tranquillo sono 20.000 lire, c’erano le lire allora. Mio padre vinse la causa di lavoro, doveva ancora prendere la liquidazione, il tribunale gli diede ragione, ma l’avvocato gli disse che essendo il datore di lavoro nullatenente, avrebbe dovuto intraprendere un’altro procedimento per entrare in possesso di quanto dovutogli, mio padre rinunciò. Ora come allora il diritto spesso è optional ed il più delle volte qualcosa da interpretare, forse l’ho già scritto, ma tant’è qualche tempo fa seguii una causa di lavoro, un licenziamento, tre gradi di giudizio tre sentenze diverse, e meno male che ce ne sono solo 3 a parte le corti europee. Quando chiesi alla guida inglese che ci accompagnava a visitare il parlamento, come facessero senza una costituzione che facesse da guida per tutte le occasioni, mi rispose che in assenza di normativa valgono le tradizioni ed il buon senso.
"Mi piace""Mi piace"
Una bella riflessione. Per associazione di idee mi è venuto in mente il Camilleri della concessione del telefono… Speriamo che i nostri discendenti non debbano farne ancora di simili. Però almeno sapranno che qualcuno sapeva leggere con ironia e garbo la miseria dei tempi. Grazie, Lucia.
"Mi piace""Mi piace"