Facebook non è l’Iperuranio
di LUCA DI GIOVANNI ♦
Spero con questo titolo di esser riuscito a catturare la lettura di molti attenti.
Il menù di oggi consiste in un articolo di “risposta” al post scritto qualche tempo fa da Marco De Luca “Cambiare idea oggi è ancora più difficile.” nel quale Marco con una breve analisi ci ricorda che i social networks e il web in generale non fanno altro che assecondare una nostra inclinazione naturale – di cui, aggiungiamolo, sennò sembra di parlare di novità, anche i presocratici se n’erano già accorti e la descrissero con dovizia di particolari nelle loro cosmogonie: il simile va verso il simile.
Terminato l’articolo di Marco sono rimasto scioccato per tipo 3 giorni in maniera acuta e altri e 4 in maniera lieve, tanto da dover fare una cura ricostituente a base di triptofano e melatonina per riuscire a dormire la notte perché prima di coricarmi cominciavo a pensare ossessivamente:«Per dindirindina ed ora aprendo i miei social network preferiti come farò a cambiare idea? Proprio io che cercavo l’erudizione su Twitter e l’illuminazione su Instagram, ma come ho fatto a non pensarci prima? È gravissimo!», ma soprattutto perché da quando ho deciso di smettere di leggere e studiare sui libri per ampliare i miei orizzonti per affidare in toto la mia didache a Facebook e Wikipedia, mi sono sentito ferito profondamente nell’orgoglio!
Ora propongo un piccolo momento di riflessione – piccolo perché altrimenti i miei neuroni cominciano inevitabilmente a cozzare tra di loro: dotatevi di un device tecnologico per il quale avete speso mezzo stipendio o mezzo stipendio del vostro babbo, armatevi di browser e motore di ricerca e adoperatevi per trovare quel faccione furbacchione di Mark Zuckerberg: lo avete davanti? Bene! Ora domandatevi a voce alta:«Mark Zuckerberg, ideando Facemash prima e Facebook dopo, in mente aveva – ed ha – l’intenzione di elevare il genere umano oppure, con un leggero accento di pragmatismo all’americana e senza premurarsi eccessivamente del “sincretismo delle idee”, di fare un gran bel business?
Sia chiaro: a questa domanda – che con le dovute modificazioni è applicabile a quasi tutti i CEO dei social network in circolazione oggi – dovete rispondere mentre guardate Mark negli occhi. È fondamentale per non falsare la risposta. Ora, visto che per mia fortuna so prevedere il futuro come Talete e so già quale sarà la vostra risposta, voglio fare un piccolo esercizio di immedesimazione e sarebbe grandioso se ci provaste anche voi: per una settimana sarò Mark Zuckerberg e in questo tempo dovrò decidere le modalità di interazione e il tipo di contenuti da offrire ai miei utenti/clienti… mica pizza e fichi insomma.
Ovviamente per fare ciò dovrò prima pensare alla location nella quale dover prendere una decisione così importante e di primo acchito mi viene subito in mente il mio bellissimo castello di Lavezzole comprato 5 anni fa, ma non appena entro nella mia Pagani Huayra per mettermi in viaggio mi ricordo dei 2.800 metri quadri dell’isola di Kauai, nelle Hawaii, che ho acquistato 3 anni fa e non andarci per una situazione di questo tipo sarebbe un peccato mortale! Perfetto, sono sulla sdraio, drink in mano e Mac sul tavolino, il momento fatidico è arrivato: «Partendo dal presupposto che con l’esito di questa mia decisione devo fare in modo di guadagnare almeno un pochino di più di quanto investo – altrimenti son costretto a chiudere la baracca e mi espropriano l’isola – ai miei utenti offro contenuti basati sui loro interessi oppure contenuti random? Creo un algoritmo che li fa interagire di più con i contatti che si rivelano in grado di suscitare il loro interesse (attraverso Mi piace, Commenti e Condivisioni) oppure uno che, selezionando contatti random mi espone al rischio di allontanare i miei clienti dalla piattaforma?».
Scegliendo in ambedue i casi la prima opzione ne beneficiano entrambe le parti: gli utenti perché si intrattengono tra di loro e ricevono contenuti che gradiscono ed io perché, toltomi questo peso, posso finalmente dedicarmi alle trattative con gli inserzionisti pubblicitari, che son quelli che sotto sotto realmente mi interessano (da notare che questa conclusione è valida non solo per le piattaforme sociali ma anche per i motori di ricerca: i miei utenti li faccio approdare su dei link il più possibile pertinenti con la loro ricerca oppure gli rifilo dei collegamenti che non c’entrano nulla con quel che cercavano?).
Deciso. Torno dall’isola, restituisco le chiavi della Huayra a Mark e, tornando me stesso, rifletto un attimo su quali siano le mie pretese e le mie intenzioni reali nell’aprire un social network: seriamente cerco in queste piattaforme virtuali dei luoghi di dibattito? Intendiamoci, per dibattito non tengo in considerazione quelle “scazzottate” verbali che tipicamente gremiscono i commenti di Facebook. Basta dare una scorsa rapida alla Repubblica platonica per farsi un’idea di che cosa sia un vero dibattito, proficuo, stimolante (ma anche in questo caso, necessiterete di una confessione perché opere di questa portata non solo non sono degne di essere profanate con una lettura superficiale, ma proprio perché rientrando in quella categoria ristretta di libri veramente in grado di elevare la nostra comprensione del mondo e dell’uomo richiedono una lettura analitica), dopodiché nel riaprire Facebook è molto probabile che sperimenterete delle reazioni allergiche simili all’orticaria e richiuderete subito.
Forse, ma dico forse – soluzioni non ne ho, vivo fieramente nell’aporia – il problema non è tanto nelle bolle mediatiche – che in fin dei conti non sono altro che il riflesso, nel mondo virtuale, di quel che succede quotidianamente nel mondo reale e per di più nel vissuto soggettivo di noi tutti: con uno sforzo di onestà verso voi stessi potete tranquillamente accorgervi che una persona o un evento della vostra vita, per qualche motivo razionalmente imperscrutabile, è stato “gonfiato” oltre il dovuto.
Quindi perché demonizzare così tanto i mass media se quel che fanno in fondo è solo una riproposizione in scala più ampia di ciò che accade naturalmente a tutti? – quanto nella natura intrinseca del social network: la velocità. È la sua peculiarità e non potrebbe essere altrimenti: sennò non sarebbe un social network. Quello che pubblico, scrivo o condivido oggi – come è chiaro a tutti – ha una “vita” breve: da qualche ora a qualche giorno se si è fortunati. È un gioco di tempistiche e la natura veloce del social network trova la sua ragion d’essere solo e soltanto se le si lasciano il campo d’azione e le funzioni che le spettano: ovvero la circolazione rapida dell’informazione.
E non è tutto: è proprio questa natura veloce del mezzo a influenzare fino a determinare la disposizione e gli intenti degli utenti, che non possono far altro che avere un approccio “frettoloso” e disimpegnato nei confronti della piattaforma. Ed è giusto che sia così.
Assurgere piattaforme come Facebook e compagnia come luoghi o strumenti attraverso i quali formarsi un’opinione o cambiarla è semplicemente un errore, una violenza a quelle che sono le finalità della piattaforma. È come sperare nell’illuminazione leggendo Moccia oppure augurarsi una lettura di svago leggendo gli Yogasutra di Patanjali.
L’errore che sto cercando di evidenziare nella riflessione di Marco è a monte: nelle aspettative.
Se è vero che la Verità sulle cose non è una prerogativa umana, perlomeno nostro dovere rimane adoperarci per costruirci una Buona Opinione – che certamente è un processo né veloce né senza fatica. E una Buona Opinione – e dunque un’idea sulle cose – non si può che costruire sulla Formazione, non sull’Informazione. Motivo per cui si chiude Facebook, si silenzia il cellulare e si decide quale delle due opzioni rimaste scegliere:
1. Si scende in piazza come il vecchio buon Socrate e si comincia a discutere realmente – non virtualmente – con le persone, ovviamente esponendoci al rischio di imbatterci e dunque perdere un sacco di tempo con qualcuno che ne sa meno di noi.
2. Oppure, se si è irreparabilmente affetti da misantropia come il sottoscritto, si evita il più possibile di interagire con gli uomini in carne ed ossa e ci si affida ai libri, milioni di volte preferibili alle persone in quanto più efficienti, più compatti e più economici. Sono il tramite perfetto per immergersi a capofitto nello scambio dialettico delle più grandi menti della storia – e non del primo mozzarellaro che incontri in piazza o che ti commenta su Facebook.
Il potenziale di crescita di questa seconda opzione – e in questo caso si che è lecito avere delle ottime aspettative – ha come unico limite le nostre attuali capacità intellettuali – e perché no, anche la volontà, per i più fiduciosi.
Perciò no, cambiare idea oggi non è più difficile, piuttosto è diventato troppo facile mostrarci impegnati e interessati ai fatti di attualità e ostentare così la nostra rettitudine morale, senza assicurarci prima di aver vagliato minuziosamente le nostre considerazioni.
LUCA DI GIOVANNI
Felice di aver stimolato questa riflessione! Mi sembra che abbiamo la stessa opinione, ma tu l’hai espressa meglio, è chiaro. Io spero di averlo fatto senza presunzione.
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Luca, sei già da Master, continua!
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Se mi è permesso un consiglio, mi concentrerei sulla opzione 1. Non c’è dubbio che si può perdere tempo ( e che i libri sono spesso molto più interessanti) ma , la’ fuori, con la gente vera, nel mondo vero, ci sono maggiori possibilità di divertirsi. Che , credimi, alla lunga, è la cosa più importante di tutte.
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Tant’è che a Socrate, divertitosi così tanto e così abile nel far divertire gli altri, alla fine offrirono quel celebre cocktail di cui mi sfugge il nome ma che dentro c’era anche un po’ di cicuta!..
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Aggiungerei che se ci si limitasse alla piazza o ancor più al libro, non si avrebbe l’opportunità di incontrarsi ne di venire a conoscenza delle cose, delle informazioni, senza le quali non ci si forma, pare ovvio che la formazione senza informazione non ha gran senso a meno che non si voglia restare nel limbo del pensiero puro, duro e incorrotto. Attenzione che la “misantropia” per molti è uno stato patologico, e poi, spesso mi capita di ragionare che i cosidetti “grandi della storia” magari nel loro tempo erano considerati “mozzarellari”, ho idea che esempi non ne manchino. Le mozzarelle non sono mica tutte “bufale”, a volte sono vere e proprie eccellenze, il problema è la capacità di distinguerle. Certo è più facile e rassicurante dire che sono tutte bufale, ma… occhio che le bufale si annidano anche nei libri dai fogli ingialliti dal tempo così come nei pensieri “alti” che il tempo ha reso senza senso ed a volte perniciosi.
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Già questo secondo “thought” lo trovo più ragionevole e argomentato di quello “sul divertimento” che nel mio caso non posso che considerarlo frivolo. Il punto delle bufale mi sta benissimo e chissà se il problema sia realmente quello di saperle distinguere (le “eccellenze”) oppure quello di non morire prima nella vana speranza di trovarle… Per quanto riguarda invece il mio presunto stato patologico, non posso che confermarti la mia inclusione in quel «per molti». A questo punto però non rimane che riflettere se ad essere patologica è la mia condizione di avversione verso gli altri o piuttosto quella che oggi viene considerata comune e dunque “fisiologica” Vacuità imperversante tra i miei coetanei. Che in fondo questo stato fisiologico fa comodo un po’ a tutti: a noi giovinotti così possiamo continuare a fare i deficienti e ai più grandicelli cosicché possano continuare a biasimarci. A noi esseri umani piace così tanto mantenere un deplorevole ma rassicurante status quo!
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A mio parere la qualità “patologica” è propria della rigidità dell’essere, non sta, cioè, nell’essere misantropo, ne sta nell’essere vacuo. Credo sia nell’essere sempre e comunque misantropo così come nell’essere sempre e comunque vacuo. Insomma patologico per me è l’atteggiamento di chi insiste nel categorizzare senza possibilità di eccezione, di sfumatura e di commistione cose, persone, pensieri e fatti, non per nulla il mondo è a colori, colori che definiscono milioni di diversità ma proprio perchè sono milioni le diversità e le opportunità è pur vero che ognuna di queste ha in se qualche cosa di altre diversità. La rigidità è fuori dal tempo, almeno in questo mondo. Neppure i santi sono, probabilmente, assolutamente santi ne i peggiori delinquenti sono assolutamente delinquenti. Siamo sicuri poi che i grandi saggi lo siano davvero in ogni loro scelta, nel loro sentire? Siamo davvero sicuri che nei giovani perdigiorno odierni non vi sia nulla di più profondo di uno spritz? Certo non è facile carpirne i segnali, distinguerne le peculiarità, però……
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Questo delle sfumature è un argomento che periodicamente mi ritorna e per quanto trovi ingenuamente più facile indossare sempre le lenti monocromatiche è una critica che non posso non prendere in considerazione e lavorarci su.
Grazie Luciano
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Condivido questo pensiero di Luciano, sulle persone che effettivamente hanno più sfumature e che il mondo e la Natura stessa son fatte di milioni di sfumature. L’elasticità mentale aiuta a comprendere bene questo pensiero.
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