Comunque la pensiate è l’undici settembre
di LUCIANO DAMIANI ♦
Con l’intenzione di non cadere nell’esercizio retorico, del quale davvero il mondo non ha bisogno, e senza pretesa di dire “parole importanti” o considerazioni geopolitiche per le quali dichiaro la mia completa incompetenza, mi preme ricordare, o meglio ho il desiderio di ricordare, condividendo il pensiero per un evento che ha dell’incredibile ma che è avvenuto e che ha sottratto a migliaia di cuori le persone amate, a migliaia di famiglie la speranza del futuro. Come si possa conquistare libertà e benessere attraverso la morte mi è ancora oscuro. Voglio ricordare quei giorni che mi hanno visto turista nella Grande Mela, la visita a Ground Zero.
A fine aprile dell’anno scorso prendemmo una camera a Brooklyn, volevo vivere il cuore di New York e mi pareva che Brooklyn lo fosse, non avevo fatto i conti con la vastità, concetto che mi ha seguito per tutto il mio viaggio negli states. L’alloggio era una stanza in un appartamento privato, nell’appartamento c’era un via vai di gente, razze diverse, ospitate per qualche giorno, gente che andava e veniva. Il padrone di casa era un bianco, la sua compagna era presumibilmente Afroamericana, c’erano ospiti 3 ragazzi musicisti francesi, ed un giapponese. La conoscenza della lingua inglese permetteva un minimo di colloquio, magari per il semplice scambio di informazioni. Ad un passo avevamo la Broadway con la Metro sopraelevata tra le fermate di Myrtle e Flushing, negli occhi scene di New York viste mille volte in TV o al cinema. Scene di emarginazione, che non fa distinzioni di razza, giovani rapper di colore, via vai incessante di ambulanze e pompieri, bellissimi carri verniciati di rosso e con cromature lucidissime dappertutto, sirene dispiegate fendono l’aria incuranti e senza rispetto da quanto sono potenti. La metro passa di continuo con gran rumore su quel tratto sopraelevato.
A fine aprile dell’anno scorso prendemmo una camera a Brooklyn, volevo vivere il cuore di New York e mi pareva che Brooklyn lo fosse, non avevo fatto i conti con la vastità, concetto che mi ha seguito per tutto il mio viaggio negli states. L’alloggio era una stanza in un appartamento privato, nell’appartamento c’era un via vai di gente, razze diverse, ospitate per qualche giorno, gente che andava e veniva. Il padrone di casa era un bianco, la sua compagna era presumibilmente Afroamericana, c’erano ospiti 3 ragazzi musicisti francesi, ed un giapponese. La conoscenza della lingua inglese permetteva un minimo di colloquio, magari per il semplice scambio di informazioni. Ad un passo avevamo la Broadway con la Metro sopraelevata tra le fermate di Myrtle e Flushing, negli occhi scene di New York viste mille volte in TV o al cinema. Scene di emarginazione, che non fa distinzioni di razza, giovani rapper di colore, via vai incessante di ambulanze e pompieri, bellissimi carri verniciati di rosso e con cromature lucidissime dappertutto, sirene dispiegate fendono l’aria incuranti e senza rispetto da quanto sono potenti. La metro passa di continuo con gran rumore su quel tratto sopraelevato.



I terrazzi sono occupati da stendipanni tavolini, bombole, cassette, poltrone, di tutto di più. Più volte la reflex ha scattato avendo nell’obiettivo i grattacieli di Manhattan, senza le Twin Towers. Il ponte di Brooklyn è più in la, verso il mare in basso e decisamente più piccolo.

Lasciamo il ponte e ci dirigiamo verso Ground Zero Attraversiamo China Town senza fermarci più di tanto. Una cosa è già chiara, l’integrazione qui sembra solo una parola, ne avremo conferme nel proseguo del viaggio. Ci lasciamo alle spalle gli odori della cucina cinese e ci ritroviamo fra i grattacieli. Per capire i grattacieli bisogna esserci stati in mezzo, guardarli dal basso è un vero e proprio esercizio fisico, sono molto vicini gli uni agli altri e pare impossibile che siano riusciti a costruirli. Ora siamo nel mondo dei “bianchi” uomini e donne d’affari brulicano per le vie confusi fra i turisti. Ci riposiamo su una panchina davanti alla “Corte Suprema”. “THE TRUE ADMINISTRATION OF JUSTICE IS THE FIRMEST PILLAR OF GOOD GOVERNMENT”. Così recita il palazzo della Corte Suprema. Siamo un po’ a disagio, il giardino è sporco, la fontanella non funziona, e soffriamo il caldo, e un odore non proprio gradevole. Non mancano i clochard, chissà se per vocazione o perché vittime della recente crisi economica. Una giovane donna, ancora dignitosa, mostra un cartello che racconta come sia stata vittima, lei e la sua famiglia della crisi che ha colpito il mondo occidentale. Mentre scrivo, due giovani leggono i nomi delle vittime di quel tremendo 11 settembre. Riprendiamo la via verso Ground Zero. Fra un grattacielo e l’altro scorgiamo i segni di un grande cantiere, gru, impalcature e recinzioni ci fanno capire che siamo quasi giunti alla meta, cerchiamo di districarci ed arriviamo sul posto dal lato della piccola antica chiesetta che tante volte abbiamo visto in TV. Davanti ad essa un piccolo cimitero e la sua pace fanno sembrare quel piccolo complesso qualcosa di assolutamente distaccato pur essendo immerso, come una goccia che in un liquido con il quale non si miscela, rimanendo intatta e brillante nella sua bellezza, nel suo fascino, come in quelle lampade che si capovolgono le gocce colorate scendono giù senza sciogliersi nel liquido che le contiene. Andiamo avanti e giungiamo a Ground Zero. Li dove c’erano le Torri Gemelle ci sono due immense fontane nere ed uguali. Dai loro bordi sgorga dell’acqua che scende giù in un buco nero del quale non si vede il fondo, e l’acqua si perde nel nulla dell’ignoto, del profondo della terra. L’angoscia ti prende, ti assale e tutto è silenzio nonostante le migliaia di persone che girano attorno a queste fontane che sembrano in realtà due mausolei. Sui bordi sono incisi i nomi delle vittime, quanti nomi. Chissà. fra quelli che girano l’intorno, che non ci sia qualcuno che cerca il nome del proprio caro, dell’amico, della moglie o della figlia, chissà. Nelle incisioni dei nomi ci sono alcuni fiori infilati, e ti fermi a guardarli, a riflettere, rifletti ma non capisci, come si fa a capire? Dopo un buon quarto d’ora di immobilismo, dopo un maldestro tentativo di rivolgere una preghiera a un Dio che non frequenti, ma cui sempre ci si rivolge quando non hai spiegazioni, ci scolliamo dal bordo, camminiamo lungo di esso per un po’, guardiamo distrattamente e senza entusiasmo la Freedom Tower, ancora chiusa ai visitatori, e ce ne andiamo verso l’Hudson. Lo stomaco è ancora chiuso, l’umore basso, ma l’ora di pranzo è già passata da un po’, e bisognerà pur mangiare e riposarsi in riva al fiume. Passiamo accanto a due Marines alti e larghi da incutere timore. Sono loro l’America? o lo sono i giovani rampanti della City? L’America sono anche i ragazzi di colore che fanno i rapper nella metro, sono i barboni, bianchi neri e gialli che frequentano la città, sono i cinesi di China Town, e gli Ebrei di Brooklyn.
L’America è quelle persone scomparse in quei due buchi senza fondo. L’America è quelle persone che hanno perso un pezzo d’anima quel’11 settembre. Comunque la si pensi, l’America è tutto ciò, e, permettetemi, anche fatta da quelle famiglie che migrarono inseguendo il sogno americano, i cui nomi sono incisi nelle tavole metalliche di Ellis Island all’ingresso della Grande Mela.

LUCIANO DAMIANI
Letto d’un fiato, pezzo di rara bellezza ed efficacia. Non conosco l’America da vicino, ma adesso va un po’ meglio. Soprattutto quell’America delle ultime righe, tanto vicina a noi…
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Che dire, non so se ringraziare per l’apprezzamento o nascondermi per l’imbarazzo.. 🙂
Grazie davvero.
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