Sul terrore e sulle astuzie del XXI secolo

di ELOISA TROISI 

A voler redigere una nuova Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la prima voce spetterebbe al diritto alla peregrinazione, seguito dalla garanzia di una base ben solida su cui muoversi, senza pericolose oscillazioni. Da cui il totale impegno della comunità internazionale ad impedire terremoti, alluvioni ed incendi, a domare la natura convogliandone ritmi e forze per gli scopi umani.

Rispettare la parola data con tanta tracotanza, però, sarebbe un supplizio da Danaidi per ogni governo o consiglio internazionale e così, nella secolare attesa che il beneamato progresso gli riconosca questo diritto, l’essere umano deve ingegnarsi come può.

Ha traslato il proposito, concretamente inattuabile, sul profilo psicologico, costruendosi un substrato di pensiero ben solido su cui far viaggiare le placche tettoniche dei suoi umori e far galleggiare gli avvenimenti che lo coinvolgono in attesa di un giudizio parziale e viziato.

In questi drammatici giorni, all’indomani del terremoto che ha sconvolto il Reatino, trema ogni terra, vacilla ogni substrato di pensiero. Tra rabbia e fatalismo, crolla anche ogni certezza, fenice che lascia macerie di disperazione sotto di sé, senza speranza alcuna di rinascita.

Il giorno dopo la tragedia, è tutto un elaborare astuzie per ingannare la paura dell’incontrollabile, per credere ancora di vivere nel migliore dei mondi possibili.

È un misto di colpa e di paura quello degli animi più dogmatici, usi ad intendere la religiosità come forma mentale piuttosto che come sentimento interiore: ogni evento è espressione della volontà di Dio, la Provvidenza è una cappa che non abbandona mai il genere umano.

E, dal momento che Dio è, per catechismo, benevolo e pensante, la catastrofe, da lui determinata, deve avere un senso punitivo: l’uomo deve aver meritato il flagello inviatogli.

È un’ottica antica quanto il genere umano, se si pensa ai sacrifici compiuti per ingraziarsi terra e cielo, ai modi con cui gli Dei greci manifestavano la loro ira nei confronti dell’umanità tracotante cavalcando le generazioni in una forma quasi persecutoria, alle riflessioni etiche sull’evangelizzazione selvaggia all’indomani del terremoto di Lisbona nel 1755.

La civiltà di colpa si è affermata e declinata nei secoli, senza mai smentirsi. Questa drammatica visione non è nient’altro che la patetica illusione di controllare, retroattivamente, i disastri.

C’è poi chi sostiene si tratti di una prova che Dio ha predisposto per l’umanità, aggrappandosi all’idea di un disegno, per salvare la progettualità perduta. È forse questa la parte migliore, innocua e propositiva, del fatalismo, epurata dalla stasi propria della sua forma non fideistica.

È probabilmente ancor più scosso chi ha una spiritualità immanentista, condividendo lo spinoziano Deus sive natura: la Natura che osserva è “naturata” da Dio, Natura “naturante”. Si tratta di un immanentismo radicale se non per una riserva gerarchica, che divina la natura ma non le riconosce autonomia dalla sua stessa essenza. Chi ha la religione della terra, del mare e degli alberi, non può non avvertire il tradimento. La sua è una delusione sentimentale, uno sbigottimento dinnanzi al Sublime. Un’ulteriore declinazione dell’attribuzione di colpe: non è l’errore umano ad aver determinato la catastrofe, ma l’essenza di Dio, che si ripercuote sulla natura.

A questa spasmodica ricerca delle responsabilità, partecipa anche il terrore puro dei razionalisti, atei o fanatici della logica laica: il mondo ha sempre parlato loro in lingua causale, per cui ad ogni causa corrisponde un effetto ben prevedibile e, quindi, modificabile – da cui la possibilità dell’uomo di intervenire su ogni evento e la sua responsabilità maniacale del mondo. Nel XXI secolo, epoca di fanatismo scientifico-tecnologico, la fatalità è un lusso che si concedono gli ingenui o i disonesti per sfuggire alle loro colpe. L’uomo, inteso come entità cosciente e dominatore delle leggi naturali, si è sostituito a Dio ed è dunque naturale attribuirgli ogni responsabilità, in una nuova espressione della civiltà di colpa. Ammettere la possibilità del clinamen, dell’elemento casuale imprevedibile, significa, per l’uomo moderno – che non è uno scienziato geniale -, aver frainteso tutto. Significa negare il circuito dopaminergico che attiva la via della ricompensa quando riesce a prevedere gli eventi – e si tratta delle stesse vie attivate dal consumo di stupefacenti nella genesi delle dipendenze; è dunque scientificamente lecito asserire di essere tutti assuefatti alla previsione e al controllo degli accadimenti.

Dopo ogni catastrofe, l’unica certezza a non crollare è che ognuno elabora la sua strategia difensiva per resistere al dolore, alla morte, alla paura. La progetta facendo una commistione di colpa e di accusa, smentendo la casualità e stizzendo l’ineluttabilità.

È un atteggiamento, questo, che non riguarda solo le calamità naturali, ma anche i drammi intimi, personali, in cui ci si scontra contro i ritmi e le leggi della natura, percependola ancora una volta come traditrice o strumento di una punizione divina – a voler ricercare esempi storici, si pensi alla pestilenza con cui si apre l’Edipo Re o all’epidemia scatenata da Apollo nell’Iliade per l’oltraggio reso al suo sacerdote Crise.

È ancora evidente nelle corsie ospedaliere, quando si comunica l’esito negativo di un coscienzioso procedimento medico o il decesso, inevitabile, di un paziente anziano. La morte non è più percepita come un sano evento naturale e certo insito nell’essenza umana, che contribuisce al suo significato, ma come un’eventualità assolutamente prevenibile e quasi penalmente perseguibile.

Il medico deve essere, in questa società, infallibile perché infallibile è la scienza – laddove per “infallibile” s’intende “capace di sovvertire le leggi naturali”.

Vien quasi da pensare di vivere in un nuovo Secol superbo e sciocco, reo di confondere il proprio modo di vedere il mondo col modo in cui esso realmente è, di confondere schemi mentali con la realtà effettiva. Un nuovo secolo che avrebbe bisogno di un nuovo Islandese che dialogasse con la Natura:

Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità.

Per poi rispondersi che su questa terra non siamo tutto, non siamo divini, non siamo niente, non siamo burattini nelle mani della Provvidenza.

Non siamo “oltre-umanità” capace di un eterno ritorno in cui collocare colpe e responsabilità.

Bisognerebbe maturare questa coscienza, per affrontare gli eventi con serenità ed onestà intellettuale.

Ad Amatrice, il muretto della scuola elementare recita ancora: “Scappa, curri, va’ a la scola” ed è subito brividi.

Scappare dalle superstizioni, correre verso la sana conoscenza delle leggi naturali senza illudersi di possederle, è forse l’unico modo che ha l’essere umano per vivere nel migliore dei modi possibili.

ELOISA TROISI

Nota: Il testo vuole essere un’analisi antropologica delle reazioni dinnanzi alle calamità e alla morte. Naturalmente, nei contesti medico ed edilizio, esistono responsabilità umane che vanno perseguite penalmente – ma questo è compito della magistratura, non delle piazze.