Massimo Maroncelli, un amico e un antifascista

di GIORGIO GARGIULLO  ♦

La morte dell’amico Massimo Maroncelli   ha causato in me un forte  dolore ed  ha riproposto lontanissimi ricordi del tempo in cui  da bambini, si era nel dopoguerra alla fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50,    tra noi nacque e si consolidò una grande amicizia.

Eravamo quasi coetanei;  io sono nato nell’ormai lontano 1944,  Massimo nel 1945. Io nato a Canale Monterano da genitori li sfollati dalla guerra e dai bombardamenti sulla nostra città. Quando nacqui  l’Italia era  ancora occupata da truppe  tedesche mentre Massimo venne alla luce  a Civitavecchia poco dopo  la Liberazione. Abitavamo nella stessa palazzina in via Matteotti strada allora chiamata “prolungamento di via Cencelle”  Una strada sterrata che iniziava  da viale  Baccelli e  terminava all’altezza di  via Bisagne  a destra  e  a sinistra si collegava con la caserma Giorgi, la Scuola di Guerra.

Al tempo  la zona  era chiamata “ il pozzolano”; vi erano poche abitazioni; tanti  gli orti e i campi quindi un luogo adatto per  noi giovanissimi per i nostri giochi.  Alla fine degli anni ’40 lungo il “ prolungamento di via Cencelle” si cominciarono a costruire  alloggi popolari da parte  dell’allora Istituto Autonomo Case  Popolari e poi, negli anni ’60, molti privati iniziarono le costruzioni dei grandi palazzi e quindi il quartiere cominciò a popolarsi..  Soltanto  alla fine degli anni ’60  la strada che nel frattempo si era voluto dedicare al martire del fascismo Giacomo Matteotti,   venne prolungata per collegare  l’ospedale nuovo la cui costruzione  non era terminata. Si era nel periodo di Archilde Izzi sindaco.

La palazzina in cui io a Massimo abitavamo era definita la “palazzina rossa”  non solo per il colore esterno  delle mura ma soprattutto  perché le quattro famiglie che la abitavano erano di fede  comunista. Erano tempi difficili. Non soltanto per questioni economiche e sociali ma anche per le contrapposizioni tra i militanti dei partiti di sinistra, comunisti e socialisti  e quelli di centro, socialdemocratici, democristiani, liberali e repubblicani. Si era frantumata    la grande intesa antifascista che aveva permesso  la vittoriosa   Resistenza al nazifascismo con formazioni combattenti che nella nostra zona erano comandate   dal papà di Massimo, Ezio  e dopo il giugno del 1944, con la liberazione  della città o di quel poco che ne era rimasto  la costituzione di Amministrazioni Comunali nominate  del CNL.

La palazzina  durante le campagne  elettorali era il centro delle iniziative del PCI e del PSI. Ricordo  la presenza di alcuni importanti rappresentanti dei partiti di sinistra quali Renato Pucci, Vincenzo Benedetti, Fernando Barbaranelli; i ragazzi  come me e  Massimo eravamo “addetti” alla diffusione di materiale propagandistico.

 La  “palazzina rossa” si distingueva dalle altre case  anche in occasione delle  processioni  di quartiere  quasi sempre guidate dall’attivissimo  parroco  Don Paolo. Infatti mentre dalle poche abitazioni esistenti nella zona venivano esposti, in segno di devozione, dei drappi alle finestre, quelle  della palazzina  rossa restavano volutamente chiuse e senza addobbi. In quel periodo, molto spesso, allo scontro politico corrispondeva anche pregiudizio di carattere religioso.

Ricordo don Paolo prete di grande dinamismo fortemente impegnato nella costruzione della chiesa di Gesù Divino Lavoratore con annesso asilo. Per tale scopo  chiedeva contributi a tutti anche  a coloro che non frequentavano la chiesa e attivava pratiche non sempre legali. A me e Massimo ci rimproverava spesso la non partecipazione alle funzioni religiose.

Erano tempi duri. Nella zona vi erano molte anguste baracche abitate da chi non aveva alternative; ricordo l’attuale  viale Matteotti , privo  di macchine parcheggiate e di negozi. La notte i pochi lampioni   servivano soltanto a indicare il tracciato della strada e non ad illuminare il suo percorso.

In tutto il quartiere  pochi erano i negozi. La spesa la donne la facevano recandosi giornalmente al mercato. Fare provviste per più giorni era impossibile perché i frigoriferi nelle case non c’erano. Si ricorreva al ghiaccio per tenere fredde, nel periodo estivo, almeno le bevande.  

 Vi era In via degli Agricoltori  un tabaccaio- emporio  gestito da una Saraudi, sorella di Carlo detto “mammanone” già campione di pugilato e un negozio di generi alimentari in via Matteotti anch’esso privo di frigorifero ma dotato di telefono che metteva a disposizione di quanti, quasi tutti, non disponevano lo strumento   in casa. In via Leopoli c’era l’osteria di  “Barbetta” con la compagnia musicale del Gonfalone  i cui componenti iniziarono a suonare  solo dopo aver bevuto molti bicchieri di vino. In questo negozio ci approvvigionavamo di tappi di bottiglia che servivano per giocare alla pista  e come mezzo di scambio perché noi ragazzi davamo loro un valore intrinseco.

  Ricordo ancora le giostre che puntualmente, all’inizio della primavera, venivano installate nello spazio prospiciente l’attuale negozio di Gaballo, il deposito di carburante situato di fronte e un grande deposito  di doghe per  botti che  occupava gli  spazi tra il deposito  di carburante e arrivava vicinissimo le abitazioni di via degli Agricoltori. Questa  veniva considerata zona di caccia, caccia che facevamo utilizzando la fionda  ad elastico e le prede erano soprattutto le lucertole che in gran numero si erano riprodotte nella zona.

In questo contesto che io e Massimo da bambini  siamo  divenuti adolescenti. Un pochino anche  I nostri giochi ebbero una evoluzione. Si passò al  calcio esercitato in strade interrate spesso con palle di stracci, il ruba bandiera, il papalino con le bilie di vetro, ed altri spesso pericolosi. Il fusetto che consisteva nel lanciare lontano  un legno con gravi pericoli ai vetri delle finestre, la campana, il sottomuro  con soldini veri e poi lo scontro tra “bande” di quartieri diversi, con lancio di sassi, che spesso finiva con qualcuno all’ospedale.  

Quanto descritto qualche volta era oggetto di conversazione tra me  e Massimo. Se ne parlava con un poco di nostalgia che forse era nostalgia solo per l’età che avevamo.  Oggi è difficile per un giovane capire quel periodo e il modo di vivere  e anche di divertirsi dei ragazzi di quell’epoca. Certamente tale condizione non era prerogativa di Civitavecchia; era  largamente diffusa  in Italia. L’Italia del dopoguerra. Un Paese  che si stava lentamente riprendendo dalla guerra cui il fascismo l’aveva trascinata.  Dove ancora regnava tanta  miseria e spesso la fame.

Dopo gli anni ’50  Massimo cambiò casa, andò ad abitare al centro.  Da li a qualche anno ognuno di noi intraprese la sua strada.   Massimo divenne un bravo calciatore che giocò in   serie C2  e un bravo imprenditore mentre io mi dedicai prima al sindacato e  poi alla politica.

Strade diverse che comunque non ci fecero mai dimenticare gli anni dell’infanzia e  della adolescenza e la forte amicizia che caratterizzava i nostri rapporti. Come pure con il trascorrere degli anni non vennero  mai meno i valori con cui siamo cresciuti e che Massimo ha conservato fino alla sua morte e che io spero di continuare a servire: i valori della democrazia e della libertà contro ogni forma di autoritarismo, cioè quei    valori che  i nostri padri ci hanno trasmesso  per i quali, suo padre   Ezio  Maroncelli ha combattuto duramente rischiando più volte la vita.

Alla  sezione Anpi di Civitavecchia  Massimo sempre  aderito e dato il suo contributo.  Auspico che  un suo familiare  presto aderisca all’Anpi rinnovando così l’impegno antifascista di Massimo e della famiglia Maroncelli.  

GIORGIO GARGIULLO