NOVEMBRE

di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦

Che cosa ne facciamo dei nostri morti?

Degli affetti smarriti.

 Del loro sorriso.

 Delle mani che stringemmo.

Di quello sguardo che luminoso ci avvolgeva.

 Del suono inconfondibile delle loro parole.

 Del nostro nome sussurrato da quelle labbra.

 Ciò che abbiamo perduto è una parte di noi stessi: questo solo possiamo dire.

 Andiamo a trovarli, a novembre è il loro mese. Ma ciò che tocchiamo è un marmo. Ciò che vediamo è una immagine. Depositiamo fiori come quando amavamo donar loro un regalo e ricevere un abbraccio.

La perdita non potrà mai essere giustificata umanamente. E’ la brutalità dell’esistenza, lo scandalo incomprensibile. Possiamo solo tentare di farla trapassare in un valore, in qualcosa di ragionevole. E’ la Natura, ci diciamo, è la Natura che deve rinnovarsi in una eterna forza rigeneratrice. Ma sappiamo bene che è solo un consolante eufemismo.

Poi il tempo. Certo il tempo che scorre fa passare ogni strazio. La dimenticanza è lo stratagemma che usiamo per far morire i nostri morti in noi. Lentamente cominciamo a farli morire perché la vita abbia a continuare.

 E’ il cordoglio la dura fatica per non morire con ciò che muore.

E’ il cordoglio la via che permette il passaggio dell’energia psichica dal soggetto perduto ad altro da esso.

 E questo reinvestimento ci salva.

Un tempo, ormai remoto, questo lavoro produttivo aveva una forte valenza sociale. La comunità dettava le regole, la ritualità, i gesti, il pianto, il lamento. La società si difendeva, difendeva la vita non potendo permettere che i morti impedissero il normale proseguimento della vita sociale. Il cordoglio dava luogo ad una disperazione controllata e la presenza della perdita, seppur straziante, veniva trasformata in qualcosa di sopportabile, un dolore apertamente condiviso:  evitare la “crisi del cordoglio”,  evitare di “passare con ciò che passa”, evitare che la disperazione avesse il sopravvento, evitare che il dolore non fosse più “patito” ma dominato.

Ed è così  che lo si  rappresentava in una scena teatrale di massa, dove il pianto era pianto collettivo (le belle pagine di de Martino sul sud dell’Italia).

Saper piangere, non solo piangere. Ecco la sintesi.

Era questo che si celebrava in Grecia e a Roma. Era questo che si celebrava ancora in epoca moderna , come reliquia paganeggiante, nel meridione italico.

Poi il cristianesimo chiamò i morti dormienti in attesa di risveglio. Ed il pianto antico cedette il passo all’autogestione del dolore. Tutto si consuma nella interiorità di ciascuno. Il dolore deve essere declinato in speranza di un transito.

Stabat iuxta crucem mater eius.  Il planctus Mariae, la Vergine impietrita dallo strazio “sta”, silente, attonita. Dolore tutto sigillato rappresentato plasticamente nel Vangelo di Matteo di Pasolini dalla propria madre Susanna. Muta spettatrice assieme a Maria di Cleopha e Maria Maddalena, tutte chiuse in un patire interiore. Pasolini ha voluto esprimere al meglio, in bianco e nero tra i “sassi” di Matera il cordoglio cristiano.

Non disperate o sopravvissuti, l’anima ha raggiunto la dimora del Padre!

De profundis clamavi ad te, Domine; Domine exaudi vocem meam. Il defunto invoca egli stesso con voce più decisa rispetto a quella dei sopravvissuti! La vita prosegue, si è solo trasformata.

Pianto rituale antico e speranza cristiana . Due sistemi organizzati per evitare di morire con ciò che muore e garantire di far morire i nostri morti in noi.

Oggi, né il pianto rituale né la speranza alberga più in noi.

La rimozione è una esigenza sociale, sanitaria, ecologica che va eseguita facendo prevalere l’ ordine tecnico. Ogni altra esigenza è accidentale e rigorosamente privata. E’ l’efficienza l’anima del cordoglio: rimozione visiva ed accelerazione del lutto.

E’ il segno dei nostri tempi che relegano la morte a qualcosa di estraneo, non un rito di passaggio da celebrare come tale ma, semplicemente, come un “guasto al meccanismo biologico” da minimizzare e nascondere alla esuberanza della vita.

Ma ecco una voce imporsi.

Flebile all’inizio poi si fa sempre più forte: non sapevi che è l’amore il vero senso di questa esistenza? Amore che è sempre rispetto per l’altro. Amore che non può essere mai perso una volta che è stato. Amore che è la vera impronta del divino nel mondo. Ascolta, viviamo tempi miseri, il progresso tecnico sembra sempre più impoverirci, il futuro per molti è una grande minaccia. Ma ciò che è passato non può essere solo oggetto di oblio per mostrare che il progresso è ciò che conta, con le sue prodezze tecniche, con le sue malie algoritmiche, con le promesse esuberanti.

L’amore è la vera essenza della vita. E’ quel legame che riesce a tenere unite le generazioni. Il passato non potrà mai essere oblio.

Con il ricordo noi adempiamo ad un passaggio fra generazioni: noi offriamo ai nostri morti un futuro, quel futuro che è stato loro violentemente tolto.

Così loro possono offrirci un passato.

 Perché è solo recuperando il passato che noi possiamo procedere in avanti verso il futuro.

Tra noi e loro l’abisso non è senza ponti!

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Commemoro così i nostri trapassati nel mese a loro dedicato.

   CARLO ALBERTO FALZETTI