Storia di Rinetta, che non si lamenta

di CLAUDIA SFILLI

Vorrei scrivere un inno alla lamentela. Sì, a quel discorso che non esce dal labirinto della negatività
e cade pesantemente sugli altri, spesso colpevoli solo di essersi dimostrati troppo disponibili
all’ascolto. Ci sono persone capaci di lamentarsi in qualsiasi situazione e per qualsiasi motivo,
incuranti del fastidio che provocano, ma ci sono altre che non lo possono fare, neanche un po’,
spesso perché frenate da una rispettabile attenzione a non tediare il prossimo, ma anche perché
bloccate dagli astanti al primo accenno di lamento. È come se a loro non fosse concesso tale
atteggiamento, in quanto non consono all’immagine di “presenza passiva” costruita nel tempo,
chissà da chi e chissà come.
Ebbene io rientr o in questa categoria. Appena cerco di parlare della mia stanchezza, della mia poca
salute, delle ingiustizie che subisco, vengo travolta da altri discorsi che si sostituiscono
immediatamente al mio. Possono esserne una continuazione, dandomi quindi la sottile illusione di
aver comunque ottenuto degli attimi di ascolto, ma anche no. A volte la mia voce viene brutalmente
sovrastata da quella di chi proprio in quel momento, guarda caso, ha deciso di raccontare qualcosa
di sé, o di commentare i fatti di attualità, senza aspettare il proprio turno.
Quando casualmente riesco a liberare almeno una piccola parte di quello che mi pulsa dolorosamente dentro, cercando un attimo di sfogo, succede anche un altro fatto, parimenti stroncante.
“Rinetta, lascia stare: con tutto quello che succede nel mondo! Le guerre, le carestie, i bambini che muoiono di fame o sotto le bombe, e poi le malattie terribili che ti colpiscono quando meno te lo aspetti… Stai buona, che va bene così!”
Ed è vero. Tragicamente vero. I miei dispiaceri, i miei problemi e tutto ciò che oscura la mia piccola
vita, sono sempre e comunque sciocchezze di fronte ai mali del mondo. Anzi, lamentarsene diventa
un po’ vergognoso, perciò… shhh…. Va tutto bene. Sono assolutamente fortunata. Stop.
Faccio le pulizie al Grand Hotel Villa Cantici, un albergo davvero di lusso che si affaccia sul mare.
Stupendo. Mi alzo all’alba e, tra una mansione e l’altra nell’Hotel, obblighi familiari, visita a
parenti anziani e impegni di ogni genere, torno a casa verso le 7/8 di sera. Ma non mi lamento. Ho
un lavoro, non dormo sotto i ponti, quindi: tutto bene.
L’ambiente in cui devo vorticare ogni santo giorno, con la raccomandazione di essere praticamente
invisibile, è raffinatissimo: ogni mio movimento, quindi, deve essere ben calcolato e preciso. Il
resto del personale, direttore, concierge, governante, camerieri, hostess, cuochi, aiuto cuochi,
fattorini, guardie di sicurezza… forse per il fatto di essere adeguatamente vestiti e pettinati per
luccicare anche loro come tutto il resto del Grand Hotel, sono lontani anni luce da me. Mi salutano,
sì, e mi ringraziano se capita che qualche mio servizio rientri nella loro sfera lavorativa, ma nulla di
più. Di certo il fatto non mi turba. Non mi picchiano, non mi insultano: fantastico. Vero?
Poi ci sono i clienti dell’albergo.
Belli, brutti, educati, sgarbati, arroganti, gentili, socievoli, felici, tristi, sani, malati: un’umanità
variopinta, contraddistinta, però, da una caratteristica che li accomuna. Sono tutti molto ricchi.
La sofferenza di un ricco non è uguale alla sofferenza di uno che il denaro lo deve contare, checché
ne dicano i sostenitori della tesi che i soldi non fanno la felicità. Non la fanno, è vero, ma danno
rimedi, vie di scampo, molteplici consolazioni. Io lo so, me lo dimostra continuamente l’Hotel.
Mentre spolvero, lavo, lucido, riordino, igienizzo, per lasciare alle mie spalle ambienti perfetti sotto
tutti i punti di vista, li sento, li vedo… e capisco dei ricchi ciò che agli altri è celato: la loro parte più
vera. È scritta nelle loro stanze e in tutto quello che resta dopo il loro passaggio. Senza parlare dei
discorsi che per forza di cose colgo mentre lavoro.

Nelle frasi scambiate nei corridoi, camminando o aspettando l’ascensore, attraversando l’enorme
atrio dell’ingresso dell’Hotel, o attendendo il concierge al bancone reception, si svelano luci e
ombre di quel mondo che l’invidia definisce “poco invidiabile”… ma solo l’invidia.
Un giorno il mal di testa aveva deciso di infierire più del solito su di me e sono stata costretta a
prendere una pastiglia in più per potergli sopravvivere. Ho chiuso la porta che generalmente tengo
aperta e ho preso tre sorsi poderosi di acqua dalla mia borraccetta rossa. Un attimo di pausa per
calmare le forti fitte alle tempie potevo permettermelo: era contemplato fra i miei diritti sul posto di
lavoro. Mi sono seduta a terra, allora, vicino alla porta, e ho chiuso gli occhi, in attesa che il
farmaco cominciasse a far sentire il suo effetto.
Ecco, a quel punto, dei passi e delle voci proprio al di là della porta.
– Lo farò, Giordano, questa volta lo farò.
– Lascia stare, Guido. Cosa ti frega? C’è un mondo di donne pronte e caderti ai piedi, perché mai
devi impuntarti su Ginevra?
– Stronzo, lo sai. Ginevra ha quell’arietta arrogante, come a dire “ce l’ho solo io”… Insopportabile.
– e questo ti stuzzica. Ma non è mica solo lei così!
– …però lei…
– … però lei ti piace un casino. E ti dà un fastidio boia che ti snobbi.
Si erano fermati proprio lì, vicino alla porta della 423 e parlavano a voce sostenuta perché a
quell’ora le stanze erano vuote e loro lo sapevano. C’ero solo io… ma questo non lo sapevano.
Dalle voci li avevo riconosciuti: erano due giovani uomini d’affari, sempre in tiro, bellocci, molto
sicuri di sé e, a parer mio, poco simpatici, nonostante il tentativo di mostrarsi estremamente
socievoli e brillanti. Alloggiavano in due stanze differenti, ma uscivano e rientravano sempre
assieme, sorridenti all’occorrenza, ma pronti ad abbandonare quello sforzo appena ne venisse meno la necessità. In aprile e in settembre, regolarmente, prenotavano le loro stanze per una decina di giorni, e durante il loro soggiorno incontravano sempre belle donne, perfettamente vestite e truccate, ogni volta diverse, che forse per accordi di lavoro, o forse per caso, frequentavano il Grand Hotel Cantici contemporaneamente a loro. Di giorno bevevano assieme infiniti aperitivi al bar dell’Hotel, poi si incontravano di notte: generalmente erano le donne ad andare nelle stanze dei due uomini, raramente avveniva il contrario. Niente di strano, niente di cui scandalizzarsi: la vita è così e, soprattutto, fortunatamente, ho altre cose a cui pensare.
Quel giorno il mio malessere, però, mi aveva obbligata ad ascoltare qualcosa di più dei soliti
frammenti di chiacchiere senza capo né coda.
– Non sono fatto per perdere. Tutto qui. Ginevra non merita la mia attenzione, lo so, ma non può
permettersi di snobbarmi. Le darò una lezione.
– Non metterti nei guai. Sai che oggi quelle tipette hanno alzato la cresta. Adesso ti “denunciano”,
caro mio, anche solo per uno sguardo!
– Sai che paura!
Che brutto discorso. Stavo per tapparmi le orecchie per non esserne contaminata, ma esiste la
curiosità, accidenti, e a quella non si resiste facilmente.
– Ma che cazzo vuoi fare? Quella sa ben rispondere. Sa reagire…
– Guido, nessuno mi mette nell’angolo, chiaro?
– Non è che ti sopravvaluti un po’, amico mio?
Uno dei due ha riso, certamente Guido.
– Ginevra è in quella stanza lì, la 415. Non ha voluto dirmelo, ma qui conosco tutti e non mi ci è
voluto niente per scoprirlo.
– Vuoi entrare con la forza?
– Sei proprio un coglione, Germano. Io ho classe e soldi… e conoscenze. Non mi ferma nessuno,
quando voglio qualcosa.
– Ah! Spocchioso di merda!

Santo cielo, glielo diceva con affetto! Forse addirittura con ammirazione!
– Non ho intenzione di farmi scrupoli, Germano.
– Non fare cazzate, però…
– Una così? Aspetta e vedrai.
Un attimo di silenzio.
– Cazzo, è tardissimo. Dobbiamo andare.
– Vai avanti tu… io arrivo subito.
Forse sbaglio, forse non ho capito niente di questo mondo, ma a me è scoppiato dentro qualcosa di
incontenibile.
Però…
Rinetta sei impazzita? Non vorrai mica metterti in mezzo a questioni più grandi di te? Ma
sai dove siamo?
Queste sono fantasie da servetta. Lascia stare, per l’amor del cielo!
Ehi, stai scherzando, vero? Ma sai come vive quella gente lì? Non fare l’ingenua… o la puritana,
dài!
Certo, non era una situazione facile e magari non c’era proprio niente di cui preoccuparsi, ma, con tutte le brutte cose che si sentono, io non me la sentivo proprio di far finta di niente.
Sono passata allora ai gradi più alti dell’albergo ma, arrivata al direttore, ho rischiato grosso.
– Se ancora una volta si mette a origliare, invece di svolgere il suo lavoro, sarò costretto a prendere
provvedimenti. Per ora voglio dimenticare lo sgradevole episodio.
Stavo sbagliando, certo… ero solo una servetta curiosa….
Però, quando ho visto i due al bar, davanti ai loro whiskey lisci, non ho potuto evitare di trovare una
scusa per avvicinarmi e origliare di nuovo.
– Stasera, allora? Non tirarmi dentro in questa faccenda, però, Guido. Io non so niente…
Se i poliziotti, quella sera, non mi hanno riso in faccia, c’è davvero mancato poco, ma probabilmente avranno riso appena sono uscita dal commissariato. Ma guarda un po’ che pettegola!, avranno detto.
Così mi sono arresa.
Quella notte però, non ho dormito.
Il giorno dopo, sul quotidiano, non si faceva cenno all’allarme lanciato dalla donna delle pulizie,
naturalmente. Quando mai? Il colpevole della brutale violenza sulla giovane donna, commessa nella sua stanza al Grand Hotel Cantici, però, era stato denunciato e la giustizia aveva iniziato il suo corso, grazie all’ottimo lavoro delle forze dell’ordine, che aveva raccolto prove e testimonianze., ma ovviamente non la mia.
Questa storia mi appartiene per il breve tempo necessario a raccontarla, ma poi scivola via e diventa
di Marco, di Paolo, di Giulia, di Anna… Tutti avrebbero certamente salvato Ginevra dall’orribile
esperienza.
Niente rimproveri a me, però, quindi… non mi lamento.

CLAUDIA SFILLI