“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – UNA STORIA PERIFERICA
di MICHELE CAPITANI ♦
Erano le otto di una bella serata di fine aprile in un quartiere periferico, fatto di casette basse in fila, solo piano terra. Qualche anno fa.
Il quartierino era sorto tra l’ex-cementificio e la campagna, credo negli anni Cinquanta, ma oltre la campagna è ovvio che intravedevamo un nuovo quartiere di brutti condomini: settant’anni fa l’Italia esplodeva di figli e di lavoro e si facevano queste casette, non ricche ma confortevoli, mentre oggi ci andiamo precarizzando e non generiamo più, eppure i costruttori gonfiano i condomìni e i prezzi, riducendo le stanze a loculi (e chiedendo il pagamento in nero anche al finanziere che vuole comprarsi casa). Mah.
Ma in fondo, come sempre, le cose cambiano inspiegabilmente…
Quando ci andammo quella sera, in quel quartiere, notammo che si parcheggiava bene, c’era luce e tranquillità.
Unico edificio moderno era la chiesa, molto chiara e molto liscia, fuori e dentro, con una piazzettina antistante tutta in travertino; era orrendo solamente una specie di incomprensibile mausoleo, eretto accanto a dei cipressi per non so qual motivo.
Attaccata alla chiesa stava la casa parrocchiale, non nuova bensì del periodo delle casette del quartiere, e si vedeva.
Vi abitava don Luigi, prete fuggito dal regime comunista del suo Paese dell’est, molti anni prima, e che dagli anni Ottanta viveva lì. Era un uomo singolarissimo, dai capelli lunghi alla Liszt, di età indefinibile e di enorme cultura, poliglotta e polistrumentista, dall’ampio gesticolare, dal parlare molto franco, e completamente ignaro della logica del quieto vivere, uno di quelli che non esitano a dare scandalo se pensano che ce ne sia bisogno. Però non è solo di lui che devo parlare: quella sera infatti andammo a trovarlo, io e un altro volontario con la gente di strada, per via dei numerosi e improbabili coinquilini che ospitava da alcuni mesi.
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Arriviamo. Lo stile di questa canonica è incredibile e inconfondibile, ancorché difficile da definire: si entra da un minicortile in penombra coperto da una tettoia e invaso da ciarpame, ma le mirabilia si scoprono una volta entrati: alle pareti stanno appese icone, foto di case rurali (da quale contrada europea?), misteriosi gagliardetti con croci e scritte in diversi alfabeti, e foto in bianco e nero di persone: fieri volti balcanici in pose anni Trenta, o con maglioni e basette anni Settanta. E ovviamente i libri, impilati e infilati fino al minimo interstizio: bibbie, teologia, storia, narrativa, alia et alia, in tutte le lingue d’Europa, e splendidi libri fotografici e spettacolose guide di viaggio, dalle rosse Touring di cinquant’anni fa alla Transiberiana della Lonely; e ancora: agende, registri, fogli, contenitori e custodie, oggettini, eccetera. Somiglia a un rigattiere, a un mercatino, e i mobili e i tavoli paiono bancarelle, eppure in questa pletora non c’è nulla di cattivo gusto.
Frattanto, dalla cucina si propala un oscuro odore che di europeo non ha quasi niente…
L’atmosfera che ne risulta, insomma, è una curiosa e avvolgente miscela tra il monastero, la fiera di paese, l’appartamento in subaffitto agli immigrati, il memoriale, e solo secondariamente la casa parrocchiale.
Una casa stracolma, e non solo di cose…
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Dunque: pochi giorni fa don Luigi è venuto alla mia scuola per iscrivere al corso di italiano per stranieri alcuni immigrati che ospita in casa sua. Essi sono il residuo delle centinaia che la scorsa estate, per via d’una nuova guerra esplosa di là dal mare, affluirono in città, ospitati in un centro allestito in fretta e furia in una ex-caserma suburbana, non lontana da qui.
Fu soprattutto nella comunità nigeriana che si sparse in un istante la voce dell’ospitalità di questo singolare parroco, che offrì loro tale luogo di aggregazione, ne battezzò una caterva, e si offrì di aiutarli ad affrontare le beghe logistiche e burocratiche (insieme a don Daniele, l’altro prete, simpatico e forse un po’ svitato).
In autunno il centro allestito nella ex-caserma, del tutto cadente e fuori norma, venne sgomberato, e gli ospiti smistati per lo più a Roma, in una decina di altri siti; alcuni però, trovatisi bene nella nostra città, si misero a tornare, quotidianamente, in veste di mendicanti pendolari, mentre di qualcun altro si persero le tracce. Arrivò poi il pranzo di Natale per i poveri, organizzato proprio in questa chiesa: i nigeriani, comprese alcune vocianti e variopinte ragazze, erano una quarantina, tutti giovani, con robusti tamburi, e una fame da leoni.
Alla fine della fiera, oggi qui abitano stabilmente appunto sei di loro, i più affezionati, gruppetto scampato alle minacce degli islamici nel loro paese, ad alcune guerre, ad alcuni regimi, alle guardie di frontiera e alle onde minacciose del Mediterraneo, e lottante tuttora con l’oscurità e talvolta l’insensatezza della burocrazia nostrana.
Il problema è che è stato rifiutato loro l’asilo politico, dunque non hanno documenti (solo uno è riuscito a trarre con sé il passaporto, fuggendo dalla guerra). Don Luigi ha dato loro un alloggio, ha cercato avvocati specializzati in queste faccende, ha curato la stesura delle richieste di asilo (vi si leggono raccapriccianti descrizioni dei rischi che corrono i cristiani in Nigeria). Era venuto a scuola da me per iscriverli, anche per avere qualche pezza d’appoggio in più: un’iscrizione a una scuola pubblica, hai visto mai…
Mancavano parecchie tessere al mosaico che è la vicenda di questi ragazzi. Tramite le perplessità e le irritazioni che loro esternano verso la burocrazia, entriamo adesso a conoscenza di pieghe e risvolti incredibili: intanto, perché è stato rifiutato l’asilo? E viceversa: cosa hanno fatto tutti coloro a cui è stato concesso? Altra domanda inevasa: se l’Italia non è uno stato federale, perché comportamenti tanto disomogenei fra la Sicilia dove, a quanto sembra, migliaia di connazionali hanno ottenuto l’asilo, e Roma, dove si ha a che fare con un muro di gomma? E perché Somali ed Eritrei avrebbero meno difficoltà?
Sembrerebbe che la Prefettura di Viterbo sia più conciliante, dunque suggeriamo a don Luigi di chiedere aiuto al Vescovo, dato che altri centri di questa diocesi cadono in quella provincia; certo, si dovrebbe trovare qualcuno come lui (qualcuno come don Luigi?!) che li ospiti in un’altra città. Facile a dirsi.
Più facile sarebbe (è scoperta recente) a dichiararsi omosessuali: il don ci informa tra il divertito e lo sconcertato che un loro connazionale l’ha fatto e ha ottenuto l’asilo in pochissimi giorni! Dire il proprio vissuto e i propri rischi non viene considerato, affermare il falso sì…
Certo i miracoli accadono: è la storia di Paul, che tra l’altro è studente di teologia, di Robert, uno dei percussionisti della combriccola, e di Steven.
Il primo era stato in Germania alcuni anni (e c’era da immaginarselo visto che con don Luigi si parlano in tedesco), poi la moglie l’aveva piantato per un altro, e lui, che a un certo punto era divenuto anche irregolare, aveva dovuto andarsene dall’Europa, lasciando i due figli che non vede ormai da chissà quanto (ma questa è un’altra angoscia, non so quando la racconterò).
Trova poi lavoro in Libia come molti nigeriani, appunto, e fa amicizia con gli altri due. Scoppiata la guerra, i tre fuggono in Tunisia, donde tentano varie volte la traversata verso Lampedusa; al quarto tentativo, sono salpati da poco quando il barcone si spacca in due e vedono morire annegati una cinquantina di altri migranti; loro si salvano ma Steven deve essere ricoverato in un ospedale a Tunisi. Paul e Robert invece hanno presto l’occasione di reimbarcarsi, e riescono ad arrivare finalmente in Italia, poi fino alla nostra città, e qui ci agganciamo alla storia che ho già riassunto. Dell’amico, naturalmente, più nessuna notizia…
Un giorno, arriva una laconica telefonata nientemeno che da Verona, in cui si chiedeva se era vero che qui c’era un prete che battezzava tutti. Be’, sì, gli viene risposto; la fama delle porte sempre spalancate di questa parrocchia si era propagata fino in Veneto! Insomma, pochi giorni dopo suonano il campanello, e si sarà già capito che, del tutto ignaro che qui stessero i suoi due amici di peripezie, era Steven che veniva a farsi battezzare!
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Queste narrazioni avevano già i toni dell’epica: le storie di guerra e di emigrazione che sentivamo dai nostri nonni, e che in Europa non conosciamo più (almeno per ora…), adesso giungevano gli asiatici e gli africani a ri-raccontarcele.
Certo, a eccezione di Robert, gli altri parlavano un inglese africanizzato, perciò non comprendevamo proprio tutto quanto delle loro odissee, eppure spesso storie come queste hanno una loro potenza intrinseca che fa sfondare tante barriere, zoppicamenti e frammentarietà del raccontare e del capire, e sembra dissolvere molte fumosità nella comunicazione.
Non posso infine omettere che nella grande e collettiva storia periferica di quei ragazzi, fatta di molti personaggi, di epocali vicissitudini, di incertezze sul presente e sul futuro, di nemici giganteschi o inafferrabili, e di buon cuore disinteressato, c’era anche una grande assente, come ci accorgemmo subito, ossia la comunità parrocchiale di don Luigi, già demograficamente esigua, e poi del tutto dileguatasi dopo l’avvento “dei miei amici color cioccolato”, come li chiamava lui. Certamente doveva esserci stato più di un motivo se qualcosa si era rotto tanto nettamente; forse dei dissapori pregressi, va’ tu a sapere, anche perché era noto in città che don Luigi, sia prima sia dopo queste vicende, era sempre stato un personaggio singolare, fuori dagli schemi, con dei tratti anche controversi (avrebbe avuto, successivamente, un fortissimo contrasto con il vescovo, tanto per dire), ma il fatto è che, tornando al nostro presente, tre giorni fa è stata la Giornata Nazionale della Memoria e dell’Accoglienza, pertanto mi premeva ricordare e narrare questa vicenda di accoglienza semplice, generalista e sovrabbondante.
Un poco scriteriata, perché no, ma ingenua e senza calcoli. Un’accoglienza pura.
Perché in fondo, come sempre, le cose cambiano inspiegabilmente, e non sappiamo dove scoppierà la prossima guerra.
MICHELE CAPITANI

Intendo di quale Parrocchia parli, un mio collega di religione, sacerdote dal vivissimo ingegno, ne era parroco negli anni Novanta ed inaugurò lì la prima comunità rumena di Civitavecchia, all’epoca credo la più popolosa d’italia. Il don era fuggito da Ceausescu, sembrano passati secoli…
Maria Zeno
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