DENTRO LA MENTE – Cosa si prova a essere un soggetto: Nagel, il pipistrello e i limiti della scienza della coscienza.

di SIMONE PAZZAGLIA  ♦

Un esperimento mentale che ha cambiato la filosofia

Nel 1974, in un momento storico in cui il fisicalismo sembrava destinato a fornire una teoria completa della mente umana, Thomas Nagel pubblica un breve ma dirompente saggio dal titolo What Is It Like to Be a Bat?. In appena una decina di pagine, Nagel formula un’argomentazione che avrebbe influenzato in modo duraturo la filosofia della mente, contribuendo in modo determinante alla nascita di quella che oggi chiamiamo la “questione difficile” della coscienza: come spiegare scientificamente l’esperienza soggettiva in prima persona?

Il bersaglio polemico del saggio è chiaro: il riduzionismo fisicalista, ovvero l’idea che ogni aspetto della mente – inclusa la coscienza – possa, in linea di principio, essere spiegato interamente in termini fisici e oggettivi, cioè con il linguaggio impersonale della scienza naturale. Secondo questa visione, la coscienza non sarebbe altro che un fenomeno neurobiologico: una volta che avremo compreso i meccanismi cerebrali sottostanti, sapremo tutto ciò che c’è da sapere sull’esperienza soggettiva.

Nagel contesta radicalmente questa tesi. La sua argomentazione si fonda su una distinzione cruciale tra descrizione oggettiva e esperienza soggettiva: possiamo conoscere tutto sul cervello di un pipistrello – la sua struttura, le sue sinapsi, i suoi sistemi sensoriali – ma non sapremo mai com’è per il pipistrello vivere la propria esperienza, com’è per lui “essere un pipistrello”. Il punto non è psicologico, ma ontologico: c’è un aspetto della realtà – la soggettività cosciente – che sfugge strutturalmente alla spiegazione oggettiva.

Il saggio di Nagel non si limita a suggerire che la scienza non abbia ancora spiegato la coscienza: sostiene che potrebbe non poterla mai spiegare completamente, perché l’esperienza soggettiva ha una struttura accessibile solo in prima persona, e quindi non pienamente traducibile nei termini impersonali della terza persona, che costituiscono la grammatica epistemica della scienza moderna.

Con questa intuizione, Nagel inaugura una nuova modalità di pensare la mente, che non nega il valore delle neuroscienze o dell’approccio naturalistico, ma ne denuncia l’incompletezza strutturale, se pretende di inglobare la soggettività all’interno di una teoria puramente oggettiva. Il suo contributo, profondamente filosofico, apre la strada a decenni di dibattiti tra fisicalisti, dualisti, emergentisti e teorici dell’intenzionalità, e resta oggi una delle sfide fondamentali per chiunque voglia costruire una scienza della coscienza che non eluda il suo oggetto.

La soggettività come fatto ontologico

Alla base dell’argomentazione di Nagel c’è un’intuizione concettuale semplice ma dirompente: l’esperienza cosciente ha una struttura soggettiva irriducibile. Quando chiediamo “che cosa si prova a essere X?”, non stiamo ponendo una domanda su ciò che X fa o come si comporta, ma su ciò che accade in prima persona quando X è ciò che è. Questa struttura fenomenica, detta anche qualia, non può essere né dedotta né estrapolata da descrizioni puramente oggettive, perché non si lascia esternalizzare senza perdere la propria essenza.

Secondo Nagel, il punto cruciale è che la soggettività non è un semplice limite della conoscenza attuale, ma un aspetto ontologico del mondo, che le scienze naturali – fondate su una metodologia di oggettivazione – non sono strutturalmente attrezzate a cogliere. In altre parole, la coscienza non è solo difficile da spiegare: è, per come è fatta, resistente alla spiegazione oggettiva. E non si tratta di un problema tecnico, ma filosofico: è il tipo di cosa che non si lascia osservare da fuori, perché coincide con il punto di vista interno stesso.

Quando Nagel afferma che “una creatura cosciente ha un punto di vista soggettivo”, intende dire che vi è una modalità propria dell’essere, un “modo in cui è” per quel soggetto vivere la sua esperienza. Questo “modo” non può essere catturato in termini oggettivi, perché l’oggettività richiede la rimozione di tutti i tratti particolari del soggetto, mentre la soggettività è l’irriducibile particolarità stessa dell’esperienza. È proprio questa tensione tra metodo e oggetto che produce l’aporia che il saggio intende mettere in luce.

La soggettività, quindi, non è un ostacolo alla conoscenza, come spesso viene rappresentata nel paradigma scientifico tradizionale, bensì un tipo particolare di conoscenza, anzi: un tipo di realtà. Conoscere cosa si prova a essere un soggetto non è lo stesso che descrivere le sue proprietà fisiche, chimiche o neurologiche. È accedere a una dimensione del reale che non può essere mappata da fuori, ma solo vissuta o ricostruita da dentro.

Nagel non afferma che questa dimensione sia ineffabile o misteriosa nel senso mistico del termine. Anzi, il suo approccio è radicalmente razionale: proprio perché la soggettività è reale, dev’essere inclusa in qualsiasi ontologia completa del mondo. Ma questa inclusione richiede una trasformazione epistemologica, ovvero una scienza capace di tenere insieme i linguaggi della prima e della terza persona, o quantomeno di riconoscere che l’oggettività non può rivendicare il monopolio della verità ontologica.

Questo è il nucleo rivoluzionario della proposta nageliana: non una difesa dell’“esperienza interiore” come rifugio romantico, ma la richiesta di una scienza che non ometta dalla propria descrizione del mondo la realtà della soggettività. Se un pipistrello ha un’esperienza del mondo, allora qualcosa è vero nel mondo che include quella soggettività, e se la nostra teoria del mondo non può darne conto, è la teoria ad essere incompleta, non l’esperienza a essere illusoria.

In sintesi, per Nagel la soggettività è una proprietà reale del mondo, e non può essere eliminata senza mutilare l’ontologia. È un punto di resistenza ontologica che mette in crisi il progetto di una spiegazione totale in terza persona, e apre lo spazio per una nuova concezione della mente – una concezione che non riduca la coscienza a comportamento, né la conoscenza a calcolo, ma che accetti la sfida di includere il vissuto nella mappa del mondo.

Il bat argument – Un salto oltre l’empatia

Per smascherare i limiti del riduzionismo fisicalista, Nagel costruisce un esperimento mentale diventato un classico della filosofia contemporanea: l’invito a immaginare cosa si provi a essere un pipistrello. Ma la forza dell’argomento non sta nella stranezza della creatura scelta – il pipistrello è semplicemente un mammifero che, a differenza di noi, percepisce il mondo attraverso un sistema sensoriale radicalmente diverso: l’ecolocalizzazione. L’essenza dell’esperimento, infatti, non è biologica ma strutturale: il pipistrello è il paradigma dell’“altro cognitivo”, un essere che possiamo descrivere da fuori, ma di cui non possiamo mai sapere com’è l’esperienza soggettiva dall’interno.

La domanda chiave – what is it like to be a bat? – non è empirica, né psicologica, ma fenomenologica. Essa interroga la struttura interna dell’esperienza cosciente, non i suoi correlati neurali, né le sue manifestazioni comportamentali. Perché possiamo sapere molto sulla fisiologia di un pipistrello – dove si attiva il suo talamo, come decodifica le onde sonore, quali percorsi compie nella corteccia – ma nessuna di queste informazioni ci avvicina, nemmeno di un passo, a comprendere che cosa si provi ad essere quel pipistrello.

Ed è qui il punto cruciale: non possiamo nemmeno approssimarci a quella coscienza fenomenica “simulando” la sua condizione, perché qualsiasi simulazione sensoriale rimarrebbe ancorata alla nostra architettura mentale. Anche se potessimo imitare l’ecolocalizzazione, il risultato sarebbe una traduzione del suo mondo nel nostro linguaggio esperienziale, non l’accesso alla sua soggettività. Il pipistrello rimarrebbe altro, nonostante l’analogia tecnica.

Nagel sostiene quindi che la coscienza non è solo inaccessibile all’osservazione esterna, ma è anche intrasferibile: nessun punto di vista oggettivo può assorbire o neutralizzare quello soggettivo. E il pipistrello, nella sua alterità sensoriale, mostra questo fatto in modo esemplare. Più ci sforziamo di comprendere com’è essere un pipistrello, più ci rendiamo conto che non possiamo farlo senza smettere di essere ciò che siamo. Non è una questione di immaginazione, ma di architettura fenomenologica: io non posso essere lui, e questo non per un limite contingente, ma per una barriera strutturale tra coscienze.

Questa intuizione ha conseguenze devastanti per ogni tentativo di costruire una teoria puramente oggettiva della coscienza. Se esiste un “che cosa si prova ad essere X” per ogni creatura cosciente, e se questo “che cosa si prova” non è derivabile da descrizioni esterne, allora la coscienza è un fatto del mondo che sfugge per principio alla riduzione. Ed è un fatto che riguarda ogni soggetto cosciente: non solo i pipistrelli, ma anche noi stessi. C’è qualcosa che si prova ad essere me, e nessuna scansione cerebrale potrà mai renderlo accessibile ad un altro.

Per Nagel, questo non significa cedere al dualismo tradizionale o invocare l’anima: la coscienza rimane un fenomeno naturale, ma è un fenomeno che non si lascia spiegare senza includere la prima persona nella struttura della spiegazione. Ed è proprio questo che la scienza, nella sua forma attuale, tende a ignorare. Il bat argument è quindi un promemoria epistemologico: la coscienza non è un oggetto tra gli altri, è un centro di soggettività irriducibile.

L’importanza di questo argomento è confermata dal fatto che, a distanza di cinquant’anni, nessuna teoria scientifica della coscienza ha ancora risolto il problema che Nagel ha formulato. Possiamo mappare le funzioni, correlare attività neurali con stati soggettivi, ma il salto dalla descrizione alla comprensione fenomenologica resta un mistero strutturale. E il pipistrello è ancora lì, a ricordarci che sapere tutto su qualcosa non equivale a sapere com’è essere quel qualcosa.

Contro il riduzionismo – Perché una teoria fisica non basta

Uno degli aspetti più innovativi del saggio di Nagel è il suo attacco al riduzionismo metodologico che guida gran parte delle scienze cognitive. La sua posizione non è quella di chi rifiuta la scienza, né tantomeno di chi propugna una visione dualista in senso cartesiano. Al contrario, Nagel accetta il principio che la mente è parte del mondo naturale, ma ritiene che le attuali forme di spiegazione scientifica non siano sufficienti a rendere conto del fenomeno della coscienza. E questo non per un difetto empirico, ma per una carenza nella grammatica epistemologica del fisicalismo.

Il riduzionismo, nella sua forma classica, si basa sull’idea che ogni fenomeno complesso possa essere spiegato interamente in termini dei suoi costituenti fisici e delle loro interazioni. In quest’ottica, la mente dovrebbe essere riducibile al cervello, e la coscienza alle interazioni neuronali. Tuttavia, Nagel mostra che la coscienza introduce un nuovo tipo di difficoltà: essa non è soltanto il risultato di processi fisici complessi, ma possiede un carattere soggettivo e qualitativo che non è presente nei suoi costituenti.

Il problema non è la complessità tecnica della spiegazione, ma il tipo di accesso epistemico che la scienza oggettiva impone. Una descrizione completa del cervello in termini neurobiologici potrebbe dirci tutto su come funziona il sistema, ma non ci dirà mai com’è viverlo dall’interno. In altre parole, la coscienza non è solo un processo: è anche un vissuto, e il vissuto non può essere derivato da una descrizione oggettiva senza perdere ciò che lo costituisce.

Nagel chiarisce che la soggettività è un tipo di realtà che sfugge alla traduzione nei termini della fisica. Il passaggio da eventi neuronali a esperienze coscienti non è solo difficile da spiegare: è epistemicamente opaco, perché implica una discontinuità semantica tra la descrizione fisica e quella fenomenologica. Nessuna quantità di dati in terza persona può generare, per inferenza, il dato in prima persona: non c’è ponte diretto tra la causalità fisica e la coscienza fenomenica.

Questa tesi mette in crisi uno dei postulati fondamentali del fisicalismo contemporaneo: che tutto ciò che esiste può, almeno in principio, essere spiegato fisicamente. Nagel sostiene che una teoria del tutto che escluda la coscienza come esperienza vissuta non è una teoria completa, ma una teoria parziale che ha confuso la mappa per il territorio. Il mondo, per essere descritto integralmente, deve includere la soggettività come categoria ontologica, non come artefatto linguistico o errore percettivo.

Il punto non è che la coscienza sia soprannaturale, ma che è naturale in un modo che il linguaggio fisico standard non riesce ancora a catturare. In tal senso, Nagel non rifiuta il naturalismo: propone una sua riformulazione. Un “naturalismo oggettivo”, dice, è ancora troppo stretto per includere la coscienza. Occorre invece un naturalismo più ricco, che ammetta la pluralità delle forme di accesso alla realtà, e che integri l’esperienza soggettiva nel quadro delle spiegazioni scientifiche, invece di eluderla come rumore o come dato accessorio.

Questa posizione ha implicazioni enormi. Non solo per la filosofia della mente, ma per l’intero progetto epistemologico delle scienze cognitive. Significa, infatti, che nessuna teoria della coscienza potrà avere successo finché cercherà di spiegare la mente escludendo ciò che la rende mente: la prima persona, la qualità dell’esperienza, il vissuto soggettivo. Ecco perché Nagel è considerato uno dei padri del cosiddetto problema difficile della coscienza, che Chalmers formalizzerà vent’anni dopo: non come funziona la mente, ma perché e come essa si accompagna a un’esperienza vissuta.

In definitiva, la critica al riduzionismo non è un attacco alla scienza, ma una richiesta di ampliamento dell’ambito epistemico della scienza. Una teoria della coscienza non potrà accontentarsi di correlazioni tra cervello e comportamento, né di simulazioni computazionali dell’intelligenza. Dovrà affrontare il salto concettuale tra descrizione e vissuto, tra sistema e soggetto, tra mondo osservato e mondo vissuto. E questo, per Nagel, richiede una scienza che non abbia paura della soggettività, ma che la riconosca come uno dei suoi dati primari.

Eredità e dibattiti successivi – L’onda lunga di un pipistrello

Il saggio What Is It Like to Be a Bat? ha avuto un impatto filosofico paragonabile solo ai grandi classici della filosofia analitica. Da una semplice domanda – “com’è essere un pipistrello?” – è nato un intero campo di studi sulla coscienza fenomenica, con una costellazione di approcci teorici che ancora oggi si misurano con il problema che Nagel ha messo a nudo: la soggettività come sfida epistemologica e ontologica per le scienze cognitive.

Uno dei più celebri sviluppi è certamente quello di David Chalmers, che negli anni Novanta riformula il nodo centrale di Nagel sotto il nome di hard problem of consciousness. Per Chalmers, la distinzione tra problemi facili e problemi difficili della coscienza riflette la distinzione nageliana tra funzionamento oggettivo e esperienza soggettiva: possiamo spiegare come il cervello discrimina stimoli, integra informazioni, regola comportamenti – ma non possiamo spiegare perché tutte queste attività siano accompagnate da una dimensione fenomenica vissuta. Il problema difficile, in altre parole, è proprio “what it is like to be”.

Altri filosofi hanno proposto raffinate variazioni sul tema. Ned Block, ad esempio, introduce la distinzione tra coscienza accessibile (access consciousness) e coscienza fenomenica (phenomenal consciousness). La prima riguarda l’elaborazione di contenuti mentali utilizzabili per il ragionamento e il controllo motorio; la seconda, invece, è il “sentire” puro e semplice – la qualità soggettiva dell’esperienza. Il contributo di Block è importante perché conferma, sul piano concettuale, la non riducibilità della coscienza fenomenica a funzioni cognitive.

All’opposto, Daniel Dennett ha preso una posizione fortemente deflazionista. Secondo lui, chiedersi “com’è essere un pipistrello” è una trappola linguistica, che ci induce a postulare un’entità misteriosa (l’esperienza soggettiva) là dove, in realtà, ci sono solo comportamenti, disposizioni e rappresentazioni funzionali. In Consciousness Explained (1991), Dennett propone una teoria multi-draft della mente, in cui la coscienza è una costruzione distribuita, priva di un punto di vista interno unificato. Per Dennett, l’errore di Nagel è trattare la soggettività come un dato ontologico, anziché come un effetto narrativo, una sintesi post-hoc di processi cerebrali.

Un’altra figura importante è John Searle, che pur condividendo il rifiuto del riduzionismo eliminativista, propone una visione biologica della coscienza come proprietà emergente dei sistemi neurali. Per Searle, la coscienza è reale e causale, ma va compresa come fenomeno biologico soggettivo, accessibile solo dall’interno, anche se prodotto da processi fisici. Sebbene parta da premesse simili a quelle di Nagel, Searle insiste sulla possibilità di una scienza della coscienza che mantenga la soggettività come dato primario, senza invocare alcun dualismo.

Al di là delle differenze, tutti questi autori riconoscono, esplicitamente o implicitamente, che l’argomento del pipistrello ha spostato l’asse della discussione sulla coscienza. Non si tratta più soltanto di spiegare come pensiamo o come agiamo, ma di spiegare perché l’esperienza soggettiva esista affatto, e in che modo possa essere trattata all’interno di una teoria scientifica del mondo. La coscienza fenomenica – quella che ha colore, sapore, tono emotivo – non può essere ignorata senza mutilare l’immagine del soggetto umano.

Il dibattito resta tuttora aperto. Alcuni ricercatori tentano di formalizzare what it is like attraverso teorie della coscienza come la Integrated Information Theory (IIT) o la Global Workspace Theory (GWT). Altri, più scettici, ritengono che la soggettività sia un “problema mal posto”. Ma ciò che è certo è che, dopo Nagel, nessuna teoria della mente può evitare di confrontarsi con la soggettività come realtà epistemica primaria, pena l’accusa di spiegare tutto tranne ciò che andava spiegato.

Una scienza della coscienza con la coscienza al centro

Con What Is It Like to Be a Bat?, Thomas Nagel ha compiuto un’operazione concettuale di grande eleganza e profondità: ha mostrato che, nel cuore della coscienza, c’è qualcosa che resiste a ogni tentativo di oggettivazione, non per ignoranza o mancanza di dati, ma per una differenza strutturale tra due modalità di accesso alla realtà. Da una parte c’è la prospettiva in terza persona, fondamento del sapere scientifico moderno, che punta alla neutralità, alla replicabilità, alla descrizione esterna. Dall’altra, c’è la soggettività vissuta, l’esperienza in prima persona, che non è derivabile da alcuna somma di osservazioni, perché è l’atto stesso dell’essere consapevoli.

Questa opposizione non è semplice da risolvere, né da eludere. Nagel non ci invita a rifiutare la scienza, ma ci costringe a riconoscerne i limiti ontologici, là dove l’oggetto non è una cosa, ma un punto di vista sul mondo. Il pipistrello diventa così una figura filosofica: un’entità che può essere interamente descritta sul piano oggettivo, ma che continua a custodire un nucleo inaccessibile, un’esperienza che nessuna spiegazione può esaurire.

Il saggio ha avuto il merito di riportare al centro del dibattito la questione della coscienza fenomenica, troppo spesso trascurata da approcci funzionalisti, computazionali o comportamentisti. Nagel non accetta che la coscienza sia un epifenomeno, né che possa essere ridotta a correlati neurali: è parte del mondo, e in quanto tale, chiede di essere spiegata senza negare ciò che la rende unica.

Ma forse il lascito più duraturo di Nagel è epistemologico: ci obbliga a ripensare che cosa significhi “spiegare”, quando l’oggetto della spiegazione non è fuori di noi, ma è noi. Ci mostra che non basta costruire modelli, calcolare pattern o tracciare correlazioni: serve anche una teoria capace di includere la prospettiva interna, il “che cosa si prova”, come parte integrante della realtà. Non si tratta solo di aggiungere un punto di vista: si tratta di trasformare il modo in cui concepiamo la conoscenza stessa.

In un’epoca in cui l’intelligenza artificiale sembra imitare sempre più da vicino l’intelligenza umana, l’interrogativo di Nagel resta più attuale che mai: può esserci coscienza senza soggettività? può una macchina sapere com’è essere qualcosa? Finché non sapremo rispondere a queste domande, la filosofia della mente avrà ancora – necessariamente – la forma di una domanda aperta.

SIMONE PAZZAGLIA