DENTRO LA MENTE – Spiegare la coscienza senza magia: la teoria distribuita di Daniel Dennett
di SIMONE PAZZAGLIA ♦
Il modello della mente come macchina narrativa
Il primo passo dell’analisi di Dennett consiste nel rifiutare una delle metafore più persistenti e dannose nella storia della filosofia della mente: quella del teatro cartesiano. Secondo questa concezione implicita, la mente cosciente è il luogo in cui le informazioni sensoriali vengono proiettate su uno “schermo interiore”, davanti a un “osservatore centrale” – un sé, una coscienza, un’istanza unificata e interna che percepisce, interpreta e decide. È una metafora potentemente intuitiva, ma secondo Dennett profondamente sbagliata.
Nel teatro cartesiano, le percezioni sono già “impacchettate”, coerenti e organizzate quando arrivano alla coscienza, che le osserva come se fosse uno spettatore in una sala di proiezione mentale. Il problema, osserva Dennett, è che questa metafora genera un’infinita regressione: se c’è un osservatore dentro la testa, chi osserva l’osservatore? E cosa rende quella istanza più cosciente delle altre? La spiegazione non fa che posticipare il problema, senza risolverlo.
Per superare questa impasse, Dennett propone una teoria alternativa: la Multiple Drafts Theory, secondo cui non esiste un singolo luogo o momento in cui l’esperienza diventa cosciente, ma piuttosto una molteplicità di processi paralleli che avvengono nel cervello in modo distribuito, asincrono e concorrente. Ogni processo neurale che elabora informazione – percettiva, mnemonica, linguistica, motoria – può essere visto come una “bozza” (draft) che compete per l’attenzione, l’integrazione e l’accesso a risorse cognitive superiori. Non esiste un “redattore centrale”, ma una dinamica di editing distribuito, in cui alcune bozze si consolidano (diventano accessibili alla memoria o al controllo motorio) e altre vengono scartate, modificate o sovrascritte.
La coscienza, in questa prospettiva, non è il risultato di una “trasmissione interna” verso un sé osservante, ma l’esito dinamico e contingente di un processo di selezione interna tra contenuti cognitivi, basato su criteri funzionali: salienza, coerenza contestuale, utilità per il comportamento. Come scrive Dennett, “la coscienza è come la fama nel cervello: ciò che diventa famoso viene riportato, memorizzato, usato; il resto scompare, senza bisogno di essere ‘spettato’ da alcuno”.
Questa analogia – becoming famous in the brain – ha profonde implicazioni teoriche. Primo, dissolve l’idea che esista una coscienza come contenitore interno, o come stato mentale separato da altri processi cognitivi. Secondo, ricolloca la coscienza all’interno di una rete di moduli cognitivi che operano in parallelo, in un sistema senza centro, senza luogo privilegiato e senza narratore interno. Terzo, integra perfettamente il ruolo dell’attenzione, della memoria e dell’elaborazione linguistica nella costruzione di ciò che chiamiamo esperienza cosciente.
La “macchina narrativa” di Dennett è proprio questo: un sistema distribuito che costruisce costantemente rappresentazioni parziali, revisionabili, interpretative del mondo e del sé, aggiornate in tempo reale e soggette a rielaborazione retrospettiva. In questo modello, non c’è un momento preciso in cui una rappresentazione “diventa cosciente”: la coscienza è un insieme di effetti funzionali, non un’essenza da isolare.
La Multiple Drafts Theory si ispira direttamente a modelli computazionali e architetture neurali distribuite, come quelle proposte nelle scienze cognitive connectioniste. Ma a differenza del cognitivismo classico, Dennett non cerca moduli stabili e gerarchici: piuttosto, immagina una mente come un insieme di processi in competizione, in cui la selezione dei contenuti avviene in modo dinamico e non lineare. È una mente senza omuncolo, senza palco, senza spettatori: una mente che si costruisce attraverso il flusso delle sue stesse interpretazioni.
Infine, questo modello ha conseguenze profonde per la nostra idea di soggetto, di agency, di identità personale. Se la coscienza è una serie di bozze in continua riscrittura, il sé non è un’entità permanente, ma una narrativa fluttuante, costruita a posteriori attraverso la memoria, il linguaggio e la rielaborazione simbolica. In un certo senso, noi non siamo altro che il racconto che il nostro cervello fa di se stesso.
La “fama cerebrale” – Una teoria dell’accesso
In alternativa al modello tradizionale della coscienza come presenza interna di contenuti mentali stabili, Dennett propone una teoria radicalmente diversa, nota come Multiple Drafts Theory, che ha nella nozione di “fama nel cervello” uno dei suoi punti più innovativi e controversi. L’idea è semplice quanto controintuitiva: un contenuto mentale è cosciente nella misura in cui diventa “famoso” all’interno del sistema neurale, cioè se riesce a essere stabilizzato, integrato, ripetuto, riportato, eventualmente verbalizzato o conservato nella memoria.
Con “fama cerebrale”, Dennett intende la capacità di un contenuto di propagarsi all’interno delle diverse aree funzionali del cervello, assumendo una rilevanza tale da influenzare il comportamento, l’attenzione, l’elaborazione linguistica e la pianificazione futura. Non esiste, dunque, un momento istantaneo in cui l’esperienza “diventa cosciente”; ciò che accade è che alcuni eventi percettivi, cognitivi o mnemonici acquisiscono progressivamente un certo grado di accessibilità sistemica, cioè diventano disponibili a diversi moduli cognitivi in simultanea.
Questo approccio si colloca all’interno di quella che oggi è conosciuta come teoria dell’accesso cosciente, in contrapposizione alla visione “fenomenica” (qualitativa) della coscienza. Per Dennett, non esiste un “qualcosa che è come” essere cosciente se non nel senso dell’accessibilità funzionale di un contenuto. La sensazione di immediatezza soggettiva – il famoso qualia – è per lui un costrutto secondario, il prodotto di processi cognitivi che ci raccontano una storia coesa, fluida e centrata del nostro vissuto. In questo senso, la coscienza è un effetto emergente e illusorio del sistema cognitivo che seleziona, organizza e stabilizza contenuti per renderli utilizzabili a fini adattivi.
La metafora editoriale della Multiple Drafts Theory aiuta a chiarire questo punto: nel cervello vengono continuamente redatte “bozze” parziali delle esperienze, alcune delle quali vengono archiviate, altre rielaborate, altre scartate prima ancora di essere consolidate. Non c’è un momento “magico” in cui un contenuto attraversa una soglia e diventa “cosciente”: l’unico criterio rilevante è il grado in cui un’informazione entra nel circuito di feedback del sistema, viene referenziata, discussa, memorizzata, agita. In questo senso, il confine tra il conscio e l’inconscio non è ontologico, ma funzionale e dinamico.
Questa posizione ha importanti implicazioni metodologiche. Dennett nega che l’introspezione – cioè la nostra capacità soggettiva di “guardare dentro” i nostri stati mentali – sia una fonte attendibile di conoscenza. Al contrario, l’introspezione è un altro processo cognitivo, con le sue regole, i suoi bias, le sue distorsioni narrative. Quando pensiamo di “ricordare” un’esperienza interna, stiamo in realtà costruendo una narrazione a partire da frammenti che sono stati resi accessibili e rielaborati dal sistema, non osservando direttamente un evento mentale puro e originario.
Dennett spinge questa critica fino a negare la centralità epistemica del primo-personale. Non esiste un “punto di vista interiore” privilegiato sul funzionamento della mente: ciò che crediamo di sapere di noi stessi è il risultato di un’interfaccia narrativa, non di un’osservazione immediata. Le illusioni cognitive, le confabulazioni, le falsificazioni mnemoniche e i casi patologici (come i pazienti split-brain o gli anosognosici) confermano l’idea che la mente è capace di auto-inganno sistematico e che la coscienza è una costruzione interpretativa, non un dato originario.
In sintesi, la coscienza non è una proprietà essenziale di certi stati mentali, ma un processo continuo di “distribuzione” e “selezione” di contenuti cognitivi, che solo in alcuni casi diventano sufficientemente “noti” – cioè diffusi e accessibili – da essere considerati coscienti. La coscienza, allora, è meno uno “stato interno” che una funzione emergente di interfaccia cognitiva, evolutivamente utile per coordinare attenzione, linguaggio, azione e apprendimento.
Dennett contro la coscienza qualia
Se c’è un concetto che Daniel Dennett ha sistematicamente messo in discussione nel corso della sua carriera, è quello di qualia: le presunte qualità fenomeniche pure, soggettive, inaccessibili e ineffabili dell’esperienza cosciente. Si tratta di una nozione centrale nella filosofia della mente: il “rosso del rosso”, il “dolore del dolore”, il “sapore del caffè”, ciò che, secondo molti filosofi, definisce l’esperienza in quanto tale. Ma per Dennett, l’intero costrutto concettuale dei qualia è viziato da un errore di fondo, e il nostro attaccamento ad esso deriva da un fraintendimento profondo su come funziona la coscienza.
Dennett non nega che proviamo sensazioni soggettive. Quello che contesta è che esista un’entità mentale “pura”, privata, incapsulata, che preceda l’elaborazione cognitiva e che sia l’oggetto diretto dell’esperienza consapevole. I qualia, in questo senso, vengono smontati attraverso un’operazione concettuale sistematica, che coinvolge tanto la semantica quanto l’epistemologia.
Nel celebre saggio Quining Qualia (1988), che prelude a molti dei temi di Consciousness Explained, Dennett individua quattro proprietà canoniche che vengono attribuite ai qualia:
- Ineffabilità – non possono essere descritti verbalmente;
- Intrinsechezza – non sono relazionali o funzionali;
- Privacy – accessibili solo in prima persona;
- Immediata certezza – non possono essere oggetto di errore.
A queste caratteristiche Dennett oppone una serie di controesempi e paradossi, tra cui i noti casi di cambiamento percettivo, illusioni ottiche, adattamenti sensoriali, color inversion e sindromi neuropsicologiche, che mostrano come anche le esperienze che riteniamo più immediate e certe siano in realtà soggette a costruzione, rielaborazione e fallibilità. Se un’esperienza è privata, ineffabile, non relazionale e indubitabile, allora non può essere studiata, confrontata né descritta – e quindi non può far parte di un programma scientifico né filosofico coerente.
Il cuore dell’argomento di Dennett è che non abbiamo accesso diretto ai “qualia”, ma solo a rappresentazioni cognitive che generano l’illusione di qualità pure. E questo vale anche per i casi più estremi: non possiamo nemmeno essere certi che quello che chiamiamo “rosso” oggi sia lo stesso che percepivamo ieri, o che percepiscono gli altri, perché il giudizio percettivo è sempre il risultato di una costruzione cognitiva, e non di un dato originario immediato.
Un esempio illuminante è quello delle illusioni ottiche. L’illusione di Cornsweet, per esempio, mostra come due aree che riflettono la stessa quantità di luce appaiano diverse a causa del contesto. Se la percezione immediata fosse davvero indubitabile, non potremmo essere ingannati in modo sistematico e replicabile. Ma lo siamo. E questo suggerisce che ciò che chiamiamo “esperienza percettiva” non è altro che l’output finale di una catena di processi interpretativi, soggetti a correzione, falsificazione, revisione.
Da ciò deriva una conseguenza drastica: la coscienza fenomenica non è un “residuo magico” della mente, ma un’illusione utile – il risultato dell’auto-monitoraggio del cervello, che produce un modello coerente del sé e del mondo per orientarsi nel comportamento. I qualia non sono “sostanze” mentali, ma nodi narrativi che acquistano consistenza solo all’interno di un sistema interpretativo.
Questo non significa che l’esperienza soggettiva sia irrilevante. Significa che non dobbiamo trattarla come una sostanza misteriosa, ma come un effetto di superficie generato da processi cognitivi sottostanti, accessibili alla spiegazione funzionale. In altre parole, i qualia non devono essere spiegati come elementi atomici della coscienza, ma dissolti come mitologie concettuali.
La posizione di Dennett è chiaramente provocatoria, e ha suscitato risposte accese. Filosofi come Thomas Nagel, David Chalmers e Ned Block hanno difeso l’irriducibilità dell’esperienza fenomenica, accusando Dennett di spiegare la coscienza “togliendola di mezzo”. Ma per Dennett, questo è precisamente il punto: il compito della filosofia della mente non è salvare le intuizioni, ma correggerle alla luce di una teoria coerente, empiricamente fondata, e operativamente fruttuosa.
In definitiva, negare i qualia non significa negare l’esperienza, ma riconoscere che ciò che chiamiamo “esperienza cosciente” è l’effetto interpretativo di una macchina narrativa complessa, e non la rivelazione diretta di una realtà mentale misteriosa e pre-discorsiva.
Critiche, paradossi e contributi
Fin dalla sua pubblicazione, Consciousness Explained ha diviso il mondo accademico. Per molti, Dennett ha realizzato ciò che pochi prima di lui avevano osato: spiegare la coscienza in termini naturalistici, senza ricorrere a entità metafisiche o intuizioni privilegiate. Per altri, invece, il libro è un perfetto esempio di riduzionismo mal indirizzato, che ignora o nega l’aspetto essenziale dell’esperienza cosciente. Alcuni hanno addirittura definito l’opera con ironia Consciousness Ignored.
Uno dei critici più noti è David Chalmers, autore della celebre distinzione tra “easy problems” e “hard problem” della coscienza. Per Chalmers, Dennett affronta soltanto i problemi facili – quelli legati alle funzioni cognitive, all’attenzione, al comportamento – ma elude il vero enigma: come mai certi stati cerebrali generano esperienza soggettiva, e altri no? In altre parole, può anche essere vero che la coscienza è distribuita e narrativamente costruita, ma questo non spiega il “perché ci sia qualcosa che è come essere” in quello stato.
Dennett risponde che l’“hard problem” è mal posto: è il risultato di un’illusione concettuale, basata su un’ipostatizzazione della soggettività, e che il vero compito della scienza è dissolvere l’illusione attraverso spiegazioni meccanistiche, non costruire nuovi misteri. Tuttavia, il disaccordo rimane profondo. Per Chalmers, qualia e coscienza fenomenica sono dati immediati dell’esperienza, che qualunque teoria deve salvare; per Dennett, sono il prodotto di errori metodologici e illusioni cognitive.
Altra critica importante viene da John Searle, che, pur essendo anch’egli un critico del dualismo cartesiano, accusa Dennett di negare il fenomeno stesso che vorrebbe spiegare. Secondo Searle, la coscienza ha una dimensione ontologicamente soggettiva che non può essere eliminata o ridotta a processi funzionali senza falsificare l’oggetto di studio. Per lui, Dennett confonde la spiegazione dei correlati cognitivi della coscienza con l’esperienza vissuta, e in tal modo “fa sparire” ciò che dovrebbe chiarire.
Anche Ned Block interviene nel dibattito, introducendo la distinzione tra coscienza di accesso (A-consciousness) e coscienza fenomenica (P-consciousness). La prima riguarda la disponibilità dell’informazione per l’elaborazione e l’uso cognitivo; la seconda, invece, è la qualità dell’esperienza soggettiva. Secondo Block, Dennett spiega solo la prima, ma non dà alcun conto della seconda, che resta irriducibile alla sola accessibilità funzionale.
Queste critiche, pur differenti, convergono su un punto: Dennett sembra sacrificare la dimensione soggettiva sull’altare dell’operazionalizzazione scientifica. Ma è proprio qui che il suo progetto teorico si distingue. Dennett non nega che le persone abbiano esperienze; nega che queste esperienze debbano essere considerate entità fondamentali e indagabili in isolamento. La coscienza, per lui, è un pattern interpretativo, non un oggetto metafisico.
Malgrado (o proprio grazie a) queste critiche, Consciousness Explained ha avuto un’enorme influenza. Ha contribuito a spostare l’attenzione dal “cosa” al “come”, favorendo approcci funzionalisti, dinamici e distribuiti alla mente. È stato una fonte di ispirazione per architetture cognitive ibride, modelli di coscienza accessibile (come il Global Workspace Theory di Baars) e, più di recente, approcci computazionali all’auto-modellazione nei sistemi artificiali.
Inoltre, ha anticipato molti temi oggi centrali nel dibattito sull’intelligenza artificiale e la coscienza artificiale, come l’idea che una macchina possa essere cosciente nella misura in cui integra informazioni, costruisce narrazioni, simula un sé operativo e interagisce in modo coerente con l’ambiente. Dennett ha sempre sostenuto che non c’è un salto ontologico tra intelligenza naturale e artificiale, ma solo un continuum funzionale: se un sistema si comporta come cosciente, e integra informazione come un soggetto, non ha senso negargli lo status operativo di coscienza.
In sintesi, Consciousness Explained ha fatto emergere con forza la tensione tra due modi di pensare la mente: uno fenomenologico, centrato sull’esperienza vissuta e sulla soggettività in prima persona; l’altro funzionalista, centrato sulla spiegazione pubblica, intersoggettiva, operativa dei processi cognitivi. La proposta di Dennett non è di conciliare questi approcci, ma di sostituire il primo con il secondo, in nome di una scienza della mente che rinuncia al mistero per abbracciare la complessità operativa.
Conclusione – Una coscienza senza fantasma
Con Consciousness Explained, Daniel Dennett non ha semplicemente proposto una teoria alternativa della coscienza: ha tentato di riformulare l’intera cornice concettuale attraverso cui la filosofia e le scienze cognitive si sono avvicinate alla mente umana. In un contesto ancora profondamente segnato dal dualismo cartesiano, dalla fiducia nelle intuizioni soggettive e dalla mitologia dei qualia, Dennett ha scelto un approccio radicale: eliminare il problema anziché risolverlo nei suoi termini tradizionali.
Il punto di forza della sua teoria è la coerenza con l’intero impianto delle scienze cognitive contemporanee: architetture distribuite, dinamiche di selezione competitiva tra moduli, intelligenza narrativa, accesso funzionale e processi emergenti. In questa prospettiva, la coscienza non è una sostanza, né un teatro interiore, ma un effetto organizzativo, generato dalla capacità del cervello di costruire e aggiornare costantemente una rappresentazione coerente di sé e del mondo, attraverso il linguaggio, la memoria, l’attenzione e l’integrazione informativa.
Criticato da chi considera irrinunciabile l’aspetto fenomenico dell’esperienza, Dennett ha però il merito di aver portato il dibattito su un terreno operazionalizzabile, capace di dialogare con l’intelligenza artificiale, la robotica, la neuroscienza computazionale. In un certo senso, la sua proposta è meno una risposta definitiva e più un manifesto metodologico: smettere di cercare l’essenza misteriosa della coscienza e iniziare a spiegare come e perché certi sistemi cognitivi si comportano come coscienti.
In un’epoca in cui i confini tra intelligenza naturale e artificiale si fanno sempre più sfumati, l’eredità di Dennett si rivela particolarmente preziosa. La sua sfida resta attuale: possiamo davvero pensare la mente senza un osservatore interno? Possiamo accettare che l’“io” sia una costruzione, una fiction funzionale? E soprattutto: possiamo abbandonare il bisogno di “sentire” la coscienza per iniziare a comprenderla nei suoi meccanismi?
La risposta di Dennett, in fondo, è ottimista. Sì, possiamo. E solo così la coscienza può finalmente essere spiegata.
SIMONE PAZZAGLIA

Questione interessante, per approfondimenti, ora che da pochi anni c’è l’esplosione di AI Lllm, il testo è stato tradotto in italiano? E la versione inglese? Forse mi sono sfuggiti i riferimenti bibliografici. Grazie
Simonetta Bisi
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