“AGORA’ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI – Quando arrivare è già vittoria: della vita.

di STEFANO CERVARELLI ♦

In un’epoca nella quale sui social, negli organi d’informazione e nei documentari di carattere sportivo trovano ampio spazio storie di campioni, che hanno scritto la storia dello sport,   compagini  plurivittoriose, entrate a pieno diritto nella mitologia della loro disciplina, in questo periodo dunque dove il successo sembra essere l’unico lasciapassare per assurgere  non dico alla fama, ma alla semplice  conoscenza di quanto realizzato, io vi parlerò di sconosciuti.

Di quelli che arrivano al traguardo quando i primi, i campioni, sono già sotto la doccia, ma che con questi hanno percorso insieme chilometri: magari pochi, dividendone le gioie, le aspettative, le fatiche, magari diverse le prime ma molto di più le ultime.

Parlerò di persone  che hanno trascorso un anno, se non di più, a correre per le strade della città, nei viali di un parco, nei sentieri di campagna, in qualsiasi condizione climatica, con lo scopo di realizzare un sogno: arrivare al termine di una maratona.

Con quale piazzamento, con quale tempo non ha importanza: l’importante è non arrendersi, non fermarsi prima di arrivare in fondo a quei mitici quarantadue chilometri.

Un’impresa certamente anonima agli occhi del mondo perché a noi, delle gare, interessano soltanto i primi arrivati, ci facciamo avvincere dalle loro gesta tecniche, dai loro emozionanti duelli, dalla loro capacità fisica e dimentichiamo la fatica degli altri, di tutti gli altri… mila che hanno gareggiato mettendosi alla prova con la regina delle corse, e ora stanno lì sparpagliati sul percorso. Ad ogni chilometro che passa le gambe diventano sempre più dure, la schiena pesa il doppio, cerchi sollievo in qualche nuova posizione, nei cambi di ritmo, pura illusione: la fatica si è impossessata di te, ti sei trasformato in una riserva di acido lattico, eppure ancora vai avanti trovando la forza necessaria nella visione che hai negli occhi: il traguardo, tagliarlo è la vittoria della vita.

La vittoria alla quale volgevano sempre “la chioma” nei lunghi allenamenti nelle giornate torride d’estate, con il freddo e la pioggia nei mesi invernali.

Ma non è questa la vittoria sugli altri, credo fermamente che vada oltre che sia molto di più: la vittoria su se stessi, la dimostrazione della capacità di raggiungere un obiettivo, contando solo sulle proprie forze.

La vittoria del sacrificio, del “volere” qualcosa anche quando ti sembra che oramai stai per cedere e pensi di fermarti; un metro prima di cadere in terra trovi sempre dentro di te depositi residui di energia fisica e mentale.

E poi ci sono gli altri, i compagni, gli amici, quelli che corrono con te, quelli che non correndo ti sono vicini percorrendo la distanza in bicicletta.

I loro incitamenti non mancano mai: ho visto giovani e meno giovani, anziani e meno anziani, portare a termine la maratona letteralmente spinti dagli incitamenti calorosi di chi sta vicino.

Recentemente, grazie alla collaborazione tra la no profit New York Road Runner (ente sportivo che organizza sul suolo americano più di sessanta corse all’anno compresa la maratona di New York)  e Tribeca Studios, sono state raccolte e raccontate le storie di persone comuni che, grazie alla loro resilienza,  hanno portato a termine una maratona.

Il documentario s’intitola FINAL FISHERS e mostra la pura emozione dei momenti finali della maratona newyorchese, proprio quando gli ultimi corridori di decine di migliaia di partecipanti tagliano il traguardo.

Bisogna dire che quest’ultimi rappresentano a pieno titolo lo spirito inclusivo dell’evento proprio per la loro capacità di completare i quarantadue chilometri.

Ma perché la maratona di New York è la più ambita da chi vuole cimentarsi su quella distanza, a differenza delle altre? Perché molte altre importanti maratone escludono dal percorso i partecipanti più lenti, mentre quella statunitense permette ai RUNNER  di correre con il proprio ritmo, facendo sì che il Central Park  diventi una festa che onora proprio il percorso di ogni partecipante.

Per la verità anche alla maratona di Roma è permesso partecipare a tutti.

Il documentario, diretto da Rudy Valdez, dura trenta minuti e narra le storie, alquanto stimolanti, di corridori mentre gareggiano per motivi personali piuttosto che per un record qualunque.

In comune queste persone hanno la capacità di lottare con tutte le loro forze per arrivare al traguardo, magari anche dopo il tramonto,  accolti da pochi tifosi, funzionari di gara e volontari. Il documentario si propone, attraverso le storie più convincenti, di ispirare più persone possibili a sperimentare  “il potere trasformativo della corsa nelle loro vite e nelle loro comunità”.

La pellicola inoltre parla della vera “lotta” che si instaura con la strada, della resilienza, della scelta di credere in se stessi, specialmente quanto tutto quello che ti circonda, ti suggerisce che non dovresti.

Ma i podisti sono persone tenaci, il sacrificio è il loro pane quotidiano; portando a termine una maratona non portano solo a termine una gara: mantengono una promessa fatta a se stessi, in  un silenzioso coraggio.

Tra i personaggi che spiccano nel documentario c’è Janelle Hertman del Queens.

Nel 2018, quando aveva 65 anni, portò a termine la maratona in undici ore, arrivando ultima.

La sua storia mostra gli ostacoli emotivi che molti corridori affrontano ancor prima di entrare sul percorso.

Janelle ha parlato chiaramente della lotta che viene intrapresa contro l’insicurezza, con il pericolo che voler raggiungere le condizioni perfette può significare anche l’impossibilità di raggiungere l’obiettivo prefisso.

C’è poi Michael Ring, anche lui sopra i sessant’anni d’età, che ha dimostrato una straordinaria resilienza lungo tutta la vita. Nel 2014 gli venne scoperta una rara malattia; ha dovuto affrontare diverse avversità fisiche ma senza mai scoraggiarsi. Il suo impegno è stato rivolto abbastanza evidentemente alla comunità; infatti egli ha partecipato, completandole, a 33 maratone di New York consecutivamente, fatevi due conti e vedrete fino a che età ha corso.

Sono giunto quasi al termine.

Allora: se solo gli atleti più forti, più veloci, trovano spazio sulle prime pagine dei giornali (anche purtroppo quando la loro vita non riguarda lo sport) sono proprio le storie come le due che ho brevemente narrato che possono essere fonte d’ispirazione per chi ha intenzione di avvicinarsi al mondo del RUNNING.

Oltre la metà dei partecipanti si dichiara runner occasionale, per questo, forse, negli ultimi anni c’è stato un graduale aumento.

“Raggiungere un traguardo, non importa in quante ore, può cambiarti la vita”.

Questo ha detto Meb Keflezighi vincitore della maratona di New York nel 2009 e di quella di Boston del 2014, alla presentazione del documentario lo scorso giugno.

Nel documentario FINAL FISCHERS, oltre che  essere un bel documentario dagli aspetti umani, viene ribaltato il cliché dello sport “semplicemente” portano a termine la maratona, dimostrando in tal modo cosa significhi  davvero correre.

Ognuno a modo suo, con i propri ritmi, i propri tempi, le proprie motivazioni.

STEFANO CERVARELLI