DENTRO LA MENTE L’intelligenza del loop: coscienza e auto-riferimento in Gödel, Escher, Bach, (parte 1)
di SIMONE PAZZAGLIA ♦
Un enigma in forma di fuga
Nel 1979, Douglas Hofstadter pubblica Gödel, Escher, Bach: An Eternal Golden Braid, un’opera al tempo stesso enciclopedica, narrativa, tecnica e visionaria, che sfida la classificazione disciplinare tradizionale e ambisce a una teoria globale della mente. Più che un libro, GEB è un’architettura intellettuale in cui logica matematica, musica contrappuntistica e arte figurativa sono intrecciate in un percorso che mira a chiarire, sul piano formale e cognitivo, come la coscienza possa emergere da sistemi computazionali attraverso meccanismi di autoriferimento, astrazione e ricorsione.
Il sottotitolo originale – An Eternal Golden Braid – è già una dichiarazione di intenti. La “treccia eterna” che connette Kurt Gödel, M.C. Escher e Johann Sebastian Bach non è solo tematica, ma strutturale: ognuno di questi autori ha esplorato, nel proprio dominio, la potenza strutturale della simmetria rovesciata, dell’auto-inclusione, della fuga dal sistema interno. Hofstadter parte da questa analogia per costruire un programma teorico: dimostrare che la mente, lungi dall’essere una sostanza o un’essenza metafisica, è il prodotto emergente di un sistema simbolico capace di auto-modellarsi. La coscienza, in questa prospettiva, è uno strange loop: un anello ricorsivo che, attraversando livelli di astrazione sempre più complessi, ritorna su sé stesso, generando un punto di vista interno.
Ciò che rende GEB un testo unico nella filosofia della mente e nelle scienze cognitive è la sua natura metariflessiva: il libro parla della coscienza e intanto si comporta come una mente, con dialoghi intercalari, analogie musicali, costruzioni autoriferite, giochi logici e metalinguistici che mimano esattamente i processi che descrive. Non c’è solo teoria, ma esecuzione cognitiva della teoria: ogni capitolo è costruito come una fuga bachiana, ogni concetto è introdotto in forma narrativa e poi smontato, riformulato, riproposto su un piano metateorico, generando una struttura ad anelli concentrici che riflette il contenuto stesso dell’opera.
Al cuore del progetto di Hofstadter si trova l’ambizione di dare conto della coscienza e dell’intelligenza in termini puramente fisici e simbolici, senza ricorrere a essenze immateriali, ma senza neppure cedere al riduzionismo banale. La mente è, per Hofstadter, un pattern stabile e ricorsivo che emerge a un certo livello di organizzazione simbolica – una posizione che anticipa, e in parte prefigura, le più recenti teorie della coscienza basate sulla self-modeling (come quelle di Karl Friston, Thomas Metzinger, o Michael Graziano).
Questa introduzione epistemologica si innesta in un terreno tecnico ben definito. Il libro prende le mosse dal teorema di incompletezza di Gödel (1931), che dimostra l’impossibilità per un sistema formale sufficientemente potente (come l’aritmetica di Peano) di dimostrare la propria coerenza dall’interno, pena la contraddizione. Questo teorema, vero punto di svolta nella logica matematica del XX secolo, rappresenta per Hofstadter il paradigma strutturale dell’autoriferimento fertile: un sistema capace di parlare di sé stesso, ma al prezzo dell’incompletezza – e, proprio per questo, potenzialmente creativo.
Parallelamente, Hofstadter legge in Escher l’espressione visiva della stessa logica: le scale infinite, le mani che si disegnano, gli oggetti impossibili non sono solo paradossi visivi, ma simulacri cognitivi dell’anello strano. In modo simile, in Bach Hofstadter riconosce una formalizzazione musicale della ricorsione, una costruzione contrappuntistica che eleva il materiale sonoro a metalinguaggio, producendo livelli multipli di lettura e di coscienza musicale.
La convergenza di questi tre ambiti – matematica formale, arte visiva, musica – serve da cornice e metafora alla teoria della mente: la coscienza non è altro che un “pattern di simboli che si riferisce a sé stesso”, stabilizzato e reso dinamicamente coerente attraverso l’interazione con il mondo esterno. Non è un attributo mistico, né un epifenomeno, ma una struttura emergente con caratteristiche semantiche, causali e narrative, il cui nucleo profondo è la capacità di auto-rappresentarsi.
In quest’ottica, il pensiero diventa un processo strutturalmente musicale: stratificato, modulare, ripetitivo e variato, composto di ritorni, riprese, deviazioni, simmetrie e fratture. L’intelligenza artificiale, allora, non può essere pensata come mera esecuzione di regole, ma come l’instaurarsi di una coerenza strutturale autoriflessiva, in grado di generare una prospettiva interna. L’anello strano non è solo un’analogia: è la spiegazione stessa della coscienza.
Questa prospettiva, seppur ancora distante dalle neuroscienze classiche, ha avuto un’enorme influenza sulle scienze cognitive contemporanee, in particolare sui modelli di rappresentazione gerarchica, sui sistemi a ricorsione profonda e sui framework di intelligenza artificiale in cui il problema dell’auto-modellazione è centrale (si pensi, per esempio, agli approcci di deep learning in cui le reti neurali si auto-correggono, o ai modelli “a livelli di metacognizione”).
In sintesi, Gödel, Escher, Bach è un trattato sulla possibilità che una struttura simbolica complessa generi coscienza per il solo fatto di essere in grado di parlare di sé, rappresentarsi, costruire un modello coerente di sé stessa nel mondo. È un libro che propone una visione della mente non come macchina lineare o come insieme di moduli isolati, ma come fuga a più voci, un sistema in cui ogni livello è specchio, ombra e variazione dell’altro.
La struttura ricorsiva della mente – Gödel, l’incompletezza e l’autoriferimento come principio cognitivo
Nel cuore teorico di Gödel, Escher, Bach pulsa un risultato matematico tra i più rivoluzionari del Novecento: il primo teorema di incompletezza di Kurt Gödel (1931). Hofstadter non si limita a enunciarlo o a citarlo come curiosità logica, ma lo elegge a principio strutturale della coscienza stessa, trattandolo non solo come un teorema formale, ma come matrice epistemologica di ogni processo cognitivo che sia capace di modellarsi, riflettere su di sé e generare significato.
Vediamo innanzitutto il contenuto formale. Il primo teorema di Gödel stabilisce che:
«In ogni sistema formale coerente che sia sufficientemente potente da esprimere l’aritmetica dei numeri naturali (come il sistema di Peano), esisteranno proposizioni vere che non sono dimostrabili all’interno del sistema stesso.»
L’intuizione godeliana nasce da una forma raffinata di autoriferimento aritmetico, ottenuta attraverso la cosiddetta aritmetizzazione della metamatematica. Gödel assegna numeri interi a simboli, espressioni e intere dimostrazioni (il famoso numero di Gödel), costruendo una codifica per cui le formule possono “parlare” di sé stesse. Da qui emerge la possibilità di costruire una formula che, in sostanza, afferma: “questa formula non è dimostrabile”. Se il sistema fosse in grado di dimostrarla, sarebbe incoerente (perché dimostrerebbe una falsità); se non lo fosse, allora la formula è vera ma indimostrabile – ovvero, esiste una verità che il sistema non può raggiungere dall’interno.
Questo paradosso non è un’anomalia, ma una proprietà strutturale di ogni sistema formale che aspiri alla completezza. Hofstadter, con straordinaria lucidità, intuisce che questa dinamica non è confinata alla logica matematica, ma è il principio strutturale dell’intelligenza: ogni sistema cognitivo dotato di autorappresentazione è, per necessità, anche aperto, incompleto, e potenzialmente creativo.
La mente, secondo Hofstadter, è un sistema godeliano incarnato. Come l’aritmetica, essa è capace di rappresentare sé stessa, e come ogni sistema formale sufficientemente potente, non può chiudersi su sé stessa senza generare paradossi, slittamenti semantici, anelli ricorsivi, stranezze logiche. Ed è proprio in questi slittamenti che si apre lo spazio per la coscienza: non come funzione definita o programma eseguibile, ma come loop emergente in cui un sistema, nel rappresentarsi, produce un “io” che si pensa, si modella, si riconosce come soggetto di esperienza.
In altre parole, l’autoriferimento è la condizione necessaria per la coscienza, ma non nel senso banale dell’auto-osservazione: è il gioco tra livelli, la tensione tra sintassi e semantica, tra sistema e metalinguaggio, tra livello base e meta-livello che genera il loop ricorsivo che Hofstadter chiama “strange loop”.
Questo concetto, che si fonderà definitivamente in I Am a Strange Loop (2007), è già perfettamente operativo in GEB: uno strange loop è una struttura formale che attraversa più livelli gerarchici di rappresentazione e che, nel farlo, ritorna su sé stessa, stabilendo un punto di vista interno. Non è un loop semplice, non è un ciclo chiuso, ma una dinamica gerarchica ricorsiva che genera identità a partire dalla discontinuità.
La mente, secondo questa impostazione, non è un’entità, ma un effetto di struttura. È ciò che accade quando un sistema simbolico riesce a costruire una rappresentazione sufficientemente sofisticata di sé stesso da includere il proprio processo cognitivo nel dominio delle proprie operazioni. Questo include:
- la capacità di distinguere tra mappa e territorio (meta-rappresentazione);
- la possibilità di produrre enunciati su enunciati, come nei linguaggi formali che gestiscono quote e self-reference;
- la potenza computazionale per gestire loop infiniti troncati (truncated recursion), come avviene nella coscienza riflessiva: io so di sapere che so.
Da questo punto di vista, Hofstadter fornisce una teoria della coscienza che è puramente computazionale, ma radicalmente anti-algoritmica. Il paradosso è solo apparente: il pensiero, in quanto attività computabile, non può essere spiegato come esecuzione di algoritmi lineari, ma solo come struttura ricorsiva che emerge da architetture che implementano rappresentazioni multilivello con retroazione interna.
Gödel, allora, non è solo il nome di un logico: è l’archetipo cognitivo dell’auto-osservazione che si fa costitutiva. In termini cognitivi, Hofstadter suggerisce che l’identità personale, la coscienza, l’intenzionalità stessa siano effetti godeliani stabilizzati: sono costruzioni simboliche che il cervello mantiene attive, coerenti e plastiche, pur nella loro essenziale incompiutezza.
Questa incompiutezza, tuttavia, non è una debolezza, ma la radice stessa della creatività e della libertà cognitiva. Un sistema che potesse dire tutto su sé stesso senza contraddirsi sarebbe chiuso, deterministico, morto. Invece, la mente – proprio come i sistemi godeliani – vive in uno stato permanente di apertura semantica, slittamento, interrogazione di sé, ed è qui che trova la propria forza espressiva, narrativa e auto-evolutiva.
Così, Hofstadter stabilisce una continuità epistemica tra logica, estetica e coscienza. Il teorema di Gödel non è una curiosità per matematici, ma la firma matematica dell’intelligenza riflessiva. La mente, come una fuga di Bach o una stampa di Escher, non si chiude mai su sé stessa senza trasformarsi, e proprio per questo può diventare oggetto e soggetto della propria rappresentazione.
(segue)
SIMONE PAZZAGLIA

Il lavoro Hofstadter ha avuto un grande impatto culturale: in un’epoca in cui l’intelligenza artificiale muoveva i primi passi, l’idea che la mente fosse in qualche modo programmabile appariva rivoluzionaria. È giusto riconoscerlo come tassello importante della riflessione, ma non come approdo definitivo. Dire che il cervello funziona come un algoritmo significa ridurre l’esperienza cosciente a una serie di istruzioni logiche. Ma il cervello non è solo calcolo: è un sistema biochimico complesso, con emergenze non lineari, influenzato da corpo, ambiente, emozioni, relazioni.Federico Faggin (come altri, da Penrose a Searle) sostiene che la coscienza non può essere ridotta a un algoritmo: c’è un elemento qualitativo, soggettivo, irriducibile.Gli algoritmi spiegano bene alcune funzioni, ma non il sentire (la qualia, come direbbero i filosofi della mente).La differenza tra simulare un fenomeno e essere quel fenomeno resta il nodo centrale. Un algoritmo esegue, la coscienza può infrangere, deviare, sorprendere. La coscienza è eccedenza: è esperienza vissuta, capacità creativa, libertà — qualcosa che non si lascia racchiudere in sequenze finite di 0 e 1.
S.B.
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Il senso profondo del testo citato (Hofstandter) risiede nel teorema di Godel.
Nei sistemi formali di ampia potenza(la matematica per esempio) gli enunciati da intendere come veri non possono essere dimostrati.
Un sistema sintattico (un computer lo è) non potrà mai giungere a dimostrare aspetti di tipo semantico quale è la verità!!
Al contrario, la mente umana , nonostante la macchina sia potentissima , è in grado di capire, intuire, vedere la “verità” del reale indimostrabile.
La logica è “trascendentale” come ebbe a chiarire Wittgenstein (enunciato 6.13 del Tractatus).
A tale argomento squisitamente di logica formale necessita aggiungere un punto puramente filosofico: la linearità degli algoritmi non è il “mondo della vita (Erlbnisse di Husserl).
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Grazie, Carlo per questi fondamentali ed incoraggianti spunti di riflessione. E grazie a Simone e a Simonetta che aprono varchi in questo mondo “artificiale ” che dobbiamo conoscere per poterne essere ( o rimanerne ) padroni.
Maria Zeno
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