“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – LA GAMBA IN MENO
di MICHELE CAPITANI ♦
Manuela, adolescente dal cervello pronto, brava in tutte le materie, minuta ma sviluppata.
Diciassette anni e molti misteri. In primis il padre di tutti i misteri, cioè perché una come lei non abbia terminato le medie e si ritrovi qui al serale. Inoltre, se i genitori vengono a pietire, seppur con discrezione e con qualche fondamento, dichiarandosi senza più una lira, lei dove prende i soldi per le sigarette, per dire? Forse proventi delle sue civetterie? E se fossero qualcosa di più che civetterie, finalizzate ad “alzare” qualche euro? In effetti, ogni giorno la si vede alla luce del sole in intimità con un maschietto differente da quello del giorno prima… E c’entra tutto questo con la sua menomazione permanente, cioè la gamba su cui claudica? Dopo qualche settimana che conosciamo lei e la sua classe, se la collega chiede a una sua compagna quanti fidanzati abbia Manuela, lei risponde: «No, professore’, non me lo chieda, perché mica ci ho capito niente» con una gestualità che aggiunge «e nemmeno voglio avere nulla a che vedere con quella là!»
Poi si viene a sapere che c’è stata una litigata coram populo sui social, tra lei e il coetaneo Vincenzo (che non è esattamente un agnellino). Lì per lì non sappiamo per chi propendere, poi inizieremo ad aver contezza di alcune cose… Dunque, succede che nel gruppetto che oggi sta in classe con la collega di matematica, i due in questione a un dato momento iniziano a battibeccare da due banchi lontani, finché lui non le dice con voce alta e perentoria: «Ma falla finita, tu che racconti sempre in giro che t’hanno violentato».
Apparentemente Vincenzo apostrofa Manuela con la sensibilità di uno schiacciasassi; in realtà ha qualche ragione per dirle così davanti a tutti. Infatti, cosa si sono scritti in precedenza, tanto da arrivare a mandarsi poi affanculo in classe, ad alta voce? È vero che Manuela ha parlato sui social della violenza subìta? È avvenuta davvero oppure no, come qualche collega insinua? Cioè, va bene che il mondo è vario, ma chi viene violentata, a quanto ne sappiamo, solitamente non lo mette in piazza come niente fosse. Qualcuno inizia a sospettare che anche i suoi periodici svenimenti non siano proprio autentici.
Inoltre: come mai se n’è andata dalle molte scuole precedenti? È possibile che una ragazza sveglia e sicuramente intelligente, e brava in ogni materia, sia stata sempre e solo vittima, tanto da ritrovarsi a diciassette anni senza licenza media? Potrebbe trattarsi di disturbo di personalità istrionico, ipotizzerà una nostra amica psicologa.
Proprio il giorno dopo la litigata, vengono i genitori, benché per altri motivi: vogliamo dare loro qualche dritta per ambientarsi in città, visto che ci sono arrivati da poco, e per informarli su un programma dei servizi sociali per l’impiego dei minori di famiglie svantaggiate. Trovano me, che ne voglio approfittare per tentare di diradare un minimo di nebbia; tra l’altro, ci sembrano persone civili.
Dopo aver parlato un po’, ne approfitto per tentare di aprire una crepa in ciò che si direbbe più grave, vale a dire la violenza di cui sarebbe stata vittima la figlia. Con tutte le mie scorte di diplomazia e di tattica (dentro di me maledico la collega perché sta in classe e non qui!) e usando delle vere pinzette verbali, glielo accenno ma non perché vogliamo per forza saperne, bensì perché è proprio la ragazza stessa che ogni tanto accenna alla faccenda: ci sembra che la “butti lì”, e, come detto, senza riservatezza: spiattellarlo sui social significa propalarlo all’universo mondo. Per farla breve: non sappiamo se ci voglia lanciare degli inviti ad andarle incontro, se si aspetta che le chiediamo qualcosa e, nel caso, in che maniera farlo.
«Purtroppo è tutto vero, professore, solo che anche noi sappiamo solo i fatti principali, perché quando nostra figlia è riuscita a svuotarsi raccontando tutto, ha voluto che con lei restasse solo quel carabiniere che tuttora se ne occupa. Magari un giorno, più in là, leggeremo tutto».
Rifletto tra me e me, e anche dopo, con le colleghe donne: non l’ha detto alla madre ma a un carabiniere sì? Cioè un maschio, e un estraneo? Anche le colleghe sentono puzza di qualcosa che non torna.
La madre a ogni buon conto mi informa aggiuntivamente, non capisco bene perché:
«Se davvero si vuole ferirla, le si deve dire della gamba…»
Una graduatoria delle disgrazie: possibile che di questa ragazza non si possa parlare se non su toni dolenti?
*****
Qualche settimana dopo l’inizio della scuola, da grafomane oggettivamente brava a scrivere, Manuela ha l’idea di scrivere la storia della sua vita. Ebbene, bisogna specificarlo? Inizia parlando di come si rovinò la gamba: una banale disgrazia domestica, il decorso, l’invalidità. Ma in tutti i suoi diciassette anni ce ne saranno di eventi da narrare? Se non tutti memorabili, certo non tutti catastrofici (per dirne uno, il divertente racconto di quando aveva marinato la scuola andando con degli amici da Terni nientemeno che a Frosinone!).
Glielo suggerisco quando le riporto le prime pagine di manoscritto che m’ha sottoposto, ma non è convinta di dover aggiungere qualcosa, e col tempo noi insegnanti comprendiamo perché: la disgrazia non è un fatto: lei “è” la disgrazia che ha subìto, forse perché ciò le permette di attirare attenzioni, commiserazione, pietà, pena, lo sguardo dell’altro che attesta che lei esiste. Forse ciò si traduce poi in manipolazione da parte sua verso gli altri, ma è manipolatrice mediocre, di quelle che vengono presto scoperte per restare poi come il re nudo, e chi ha un minimo di cervello e di istinto di autodifesa non si fida più di loro e le isola (ci accadrà con un altro alunno, qualche anno dopo).
Una persona almeno le riuscirà di manipolare con successo e continuità: la coetanea Dina, povera compagna di banco, la cui debole personalità resterà del tutto succube e senza nessuna autonomia all’ombra di Manuela: dallo scegliere le amicizie a quale scuola superiore prendere dopo gli esami.
Ma tutto questo io e i colleghi lo capiremo dopo, infatti lì per lì cerco (ingenuo!) di suggerirle che nella vita c’è altro che merita di essere raccontato, anche se indubbiamente certi drammi li ricordiamo meglio; mi guarda perplessa, come a dire «Questo è il meglio che ho», intendendo forse “quello che mi rappresenta meglio, che mi significa meglio”. Le dico insomma che deve decidere tra due schemi: o incentra tutto su quei pochi ma tragici episodi, o accetta che tutta la sua vita vale di essere narrata, come cosa unitaria, sebbene anche a 17 anni possa essere sconfortante l’impressione di non riuscire a mettere insieme i pezzi.
«Tu racconta chi è Manuela».
Eccola: le sgorga la domanda fatidica, appassionante, eterna, spaventosa:
«Va be’ professo’, ma allora… cioè… io chi sono?»
Tombola: le levi le disgrazie, e non sa più chi è. Tragicamente lineare.
Pensavo appunto che già sarebbe un passo gigantesco, per lei, capire che la sua persona non equivale al male subìto, la sua identità non è nelle sue ferite, insomma lei non esiste solamente in quanto sofferente. Già, facile a dirsi!
Accorre però ad aiutarmi un’altra istantanea: affinché scaricassi dalla sua pennetta le prime pagine di quella sua narrazione, che aveva scritto al computer, un giorno andiamo un attimo in segreteria, e all’entrarvi esclama:
«Oddio professo’, che nostalgia!»
«Nostalgia di cosa?»
«Era da settembre che non ci venivo, si ricorda? Quando mi hanno iscritto, che abbiamo parlato con voi insegnanti, e ci avevo una paura cane».
«E allora, diamine, ma lo vedi che varrà la pena di raccontare, tanto per dire, questa scuola così singolare, le sue “faune umane”, le sue stranezze, e la sorpresa che hai avuto nello scoprire che ti ci trovavi bene dopo un cammino scolastico più accidentato di un percorso di guerra? Porca miseria, stai per arrivare alla terza media, e poi a una scuola superiore che col cervello che hai te la mangi a morsi, e non ti viene niente da raccontare?!»
Raccontare tutto: potrebbe servire per mettersi davanti una prima risposta alla domanda “Chi sono io?”: te lo scrivi da te, lo stabilisci tu, perché tu non sei la tua storia ma sei il modo in cui la racconti, a partire dal modo in cui la racconti a te stessa. E se sei appassionata alla tua storia, desideri scriverla senza rifiutarla. Il guaio è quando ci si attacca solo a un frammento di essa e lo si ingrandisce a dismisura… E così Manuela procede zoppicando: si mette davanti quelle disgrazie rese ipertrofiche come un tumore, e il resto è nulla, non lo vede più: la famiglia, le fortune, i giorni, gli amici, gli affetti, i bei voti, le sorprese. Con la gamba funzionante camminerebbe pure, nella vita, ma è come se l’altra la bloccasse su sé stessa.
Però poi, come alle volte mi succede specchiandomi nei nostri alunni più giovani, anch’io finisco col pensare: ma perché, io come ero da adolescente?… Lo ricordo bene, che anche a me pareva di non fare un passo avanti, nella vita che mi attendeva: le cose di cui gli altri parlavano erano quasi sempre a me aliene: non è che fossero irraggiungibili, era che proprio non mi riguardavano: papà e mio fratello maggiore che parlavano di azienda e di leggi, o certi compagni del liceo che millantavano imprese nel mondo sideralmente remoto che erano le femmine… Di sicuro, per fortuna, non avrei mai considerato me stesso solo come ferita; sapevo che non camminavo bene ma perché c’erano scoperte che ancora non avevo fatto, e prima di tutto in me e nel modo di guardare il mondo, e di tentare o almeno immaginare che c’era un percorso che mi aspettava. Anche per questo, pur senza sapermelo dire, non vedevo l’ora che l’adolescenza finisse; come molti adolescenti, suppongo.
Ecco perché Manuela ha una gamba che non cammina: visto così, il suo deficit appare quasi una coerente contingenza, un disgraziato caso di letteralizzazione della metafora. Poche volte, come considerando questa ragazza, ho afferrato cosa si intende quando si dice che il nostro corpo è la nostra identità, non è solo qualcosa che l’anima si vede consegnato alla nascita. E sospetto che in realtà la sua parte che funziona è, assurdamente, la gamba in meno (sulla quale la si può ferire più che sullo stupro subìto), perché la gamba in meno guarda sé stessa e significa sé stessa e si blocca su sé stessa e agisce in negativo, mentre quella sana non riesce a procedere nella strada che la vita tenta di mostrarle, invano.
*****
I sospetti e gli indizi a favore dell’invenzione della violenza subìta si moltiplicheranno: per esempio un giorno in cortile, tra gli altri, c’è un amico di un suo compagno di classe; quel ragazzo è di una città ove lei aveva abitato, e in cui si erano conosciuti tramite comitive comuni. Non appena la vede uscire, lui esclama:
«Oddio, ma ce sta pure quella lì?! Ah rega’, state attenti che si inventa un sacco de cose!»
Per esempio, durante l’anno scolastico Manuela si inventerà che Antonio, il malcapitato supplente di scienze, la “guarda”: Antonio, ragazzo sano e serio e affidabile… meno male che la supplenza dura poco, altrimenti chissà che accidenti di problemi gliene sarebbero venuti.
A fine anno la odiamo perdutamente e non vediamo l’ora di non vederla più, tutti quanti, anche se restiamo sufficientemente professionali per non darlo a vedere.
Anche se, a pensarci bene e col senno di poi, una ragazza così non può non suscitare anche parecchia pena.
MICHELE CAPITANI

scusa se solo oggi intervengo: bravo, lettura convincente della psicologia della ragazza e del suo usare la disabilità fisica ( che si accompagna ad una diminutio sociale) come modo per “essere”. Capita, è strategia diffusa ed è l’altra faccia della “negazione ” del problema, caouac’a mme!
Maria Zeno
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correggo the Napolitain language:”capisc’ a mme”
Il correttore non conosce il Vesuvio, peggio per lui, non sa che si perde! MARIA Z.
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