Scandalo alla corte del Papa Re ( Pio IX ) Prima parte

di MARIA GRAZIA VERZANI ♦

 La fotografia sbarca in Italia

“Il 25 aprile, senza niuna resistenza incominciava ed era compiuto lo sbarco dei Francesi. I primi soldati dalle barche in cui venivano alla spiaggia, mandavano grida patriottiche di Viva la Repubblica! Viva l’Italia! E molto popolo circostante rispondeva sul lido Viva la Repubblica Romana! Viva la Repubblica Francese! Era una guerra che cominciava con l’apparenza d’una festa. 

Ne’ tardarono guari[1]  ad accorgersi i cittadini come fossero stati ingannati.”[2]

Splendida incisione di Raffet Denis Auguste Marie: Lo sbarco dei francesi a Civitavecchia
[1] Guari, alquanto, molto
[2] FELICE VENOSTA, Roma e i suoi martiri, C. Barbini, 1863 – pag. 82

Questo è il colossale equivoco in cui cadde il popolo civitavecchiese, ma non vorrei che anche i lettori cadessero in un altrettanto grave errore, non è una gloriosa pagina del Risorgimento, epoca studiata a lungo da esperti accademici, l’oggetto di questo mio articolo, ma piuttosto le novità che le truppe francesi portarono in questa piccola città e che, in seguito, ebbero ripercussioni sulla nostra storia.. Partito il 21 aprile da Tolone con 17 navi da guerra con a bordo 8000 soldati, armati modernamente, il comandate generale Nicolas Charles Oudinot dopo i tre giorni di navigazione, sbarcò a Civitavecchia, tappa essenziale per andare a porre sotto assedio la Repubblica Romana e riportare sul soglio pontificio Pio IX, rifugiatosi a Gaeta.

Ecco come Pascarella, nella raccolta di sonetti intitola Storia nostra, descrive ironicamente  l’intervento francese:

 

“…E chiama, chiama, chiama… È storia vecchia;

li francesi che poi sò sempre quelli,

cominciorno a sbarcà a Civitavecchia.

Dove, sbarcati appena co l’inganno,

messero pe programma un manifesto,

dicenno: – Noi venimo cor pretesto

d’ajutavve, ma no pe favve danno. –

E, mentre se veniveno accostanno,

seguitaveno a dicce: – Noi, der resto,

semo repubricani, e in quanto a questo

noi semo come voi, tutti lo sanno… –

E speranno che Roma, er trenta aprile,

je dicesse: – Ma bravi! Ve ringrazio! –

se presentorno a Roma cor fucile;

ma dritto in piede su li baluardi

de le Mura de Porta San Pangrazio,

qui a Roma l’aspettava Garibardi.”

Come ai tempi di Napoleone I, i Francesi portarono insieme alle armi le loro conquiste per così dire tecnologiche. Lo scopo propagandistico era evidente: documentare e far conoscere al mondo la loro grandeur e dimostrare la validità degli investimenti di Luigi Napoleone in una guerra che la maggior parte della gente comune non condivideva. Forse proprio per la fama di popolo all’avanguardia in tutti i campi in una città sotto un dominio teocratico come Civitavecchia, esistevano molti ammiratori della Francia, primo fra questi Donato Bucci che da mercante di stoffe, diventerà un illustre antiquario e benemerito cittadino civitavecchiese, per aver frequentato il Console Francese a Civitavecchia, Henry Beile, nomme de plume, Stendhal. Il nostro Donato era una persona dotta e in certo senso un illuminista, ma non un patriota.  Fu proprio lui che sostenne l’apertura del porto alle truppe francesi, a convincere la classe borghese alla bontà dell’intervento e a far da guida e interprete agli stranieri invasori. Si adoperò anche a far in modo che se ci fosse un angolo del cimitero monumentale di Civitavecchia a loro dedicato, cosa a quei tempi inaudita.

Gli stranieri infatti venivano accolti da ossari comuni all’interno del recinto del cimitero che l’architetto Piernicoli aveva costruito alla maniera Bramantesca.  Nel porto sbarcarono al seguito degli 8 mila soldati francesi un efficiente apparato postale, composto da­: tre ufficiali di posta militare dotati di timbri, su cui era inciso, a seconda dei casi, Corps Expeditionnaire d’ItalieQ-General o1e Division o Brigade Francais Italie.[3] Pochi mesi dopo, dal nostro porto uscirono anche i primi francobolli usati in Italia, con il profilo della Libertà,[4] termine ormai molto inflazionato dalla Rivoluzione, e per questo la denominazione fu poi cambiata in Cerere/Demetra da 20 centesimi. I francobolli che risalgono proprio al 23 luglio 1849, momento della presenza francese a Civitavecchia, sono oggi una primizia delle collezioni filateliche.

[3] N.D.
[4] Tra i soggetti più noti del francobollo francese c’è Cerere, la dea romana dell’agricoltura, della fertilità e della terra. In particolare è interessante la storia che lega questi francobolli al 1848 francese, con la fondazione della Seconda Repubblica. Come soggetto dei nuovi francobolli, che avrebbero dato la priorità alle lettere che li presentavano sulla busta, si scelse la “testa della Libertà”, per celebrare la Repubblica appena fondata. A occuparsene fu il bravissimo incisore capo della Zecca di Parigi, Jean-Jacques Barre. Per rappresentare il volto della libertà fu scelta proprio Cerere/Demetra: questo permetteva anche il collegamento diretto alla base della Francia repubblicana, ancora in gran parte legata all’agricoltura malgrado i progressi nell’industrializzazione. Il volto di Cerere nei francobolli di Barre fu quello classico della dea, con la testa cinta da spighe di grano e grappoli d’uva. I due valori previsti per l’emissione furono 20 centesimi e il franco.

Altra novità parigina, sempre al seguito delle truppe, i primi prototipi di macchina fotografica,[5] la cui prima comparsa ufficiale era salita all’onore delle cronache parigine il 7 gennaio del 1839, quando lo studioso e uomo politico François Jean Dominique Arago, eletto deputato nel 1830, ne spiegò nei dettagli all’Accademia di Francia (richiedendo poi anche un contributo economico per l’autore).

[5] Il 1839 è l’anno di Daguerre e del dagherrotipo.

L’invenzione di Louis Mandé Daguerre, avrà nome ad una nuova arte, la dagherrotipia. È la nascita ufficiale della fotografia e sottolineo ufficiale perché dobbiamo comunque ricondurci e riferirci a una data.

Indubbiamente, oltre a Joseph Nicéphore, con cui Daguerre collaborò strettamente, la fotografia ha (almeno) un altro padre: il fisico inglese William Henry Fox Talbot, inventore della

fotografia come noi oggi la intendiamo, ovvero una matrice riproducibile potenzialmente all’infinito.

 I primi prototipi di fotocamere, assai rudimentali, fecero la loro comparsa a Roma, con i francesi, insieme all’illustratore ufficiale dell’impresa dell’esercito Denis Auguste Marie Raffet, esperto disegnatore, che s’immergerà nel vivo delle battaglie contro la Repubblica Romana, prendendo appunti dal vero con cui realizzerà, molto più tardi 36 litografie con il contributo casuale di altri due personaggi, che molto legati alla storia di questa avventura. Il primo tra i quali un tale Messieur Stefano Lecchi, aggregato alla truppa, il misterioso fotografo lombardo[6] era portatore di un nuovo metodo fotografico: la calotipia, su carta salata, tecnica meno costosa delle precedenti.[7] Con lui isuo ragazzo di fatica, Martin Sauvedieu, che aveva trascinato da Parigi tre muli oberati da un enorme bagaglio, una tenda obscura, nera e rossa da campagna, due damigiane d’acqua piovana ed altri congegni adatti alla realizzazione del proprio mestiere.

 

I due arrivati a Roma un giorno prima delle truppe, trovando occupate le officine, si erano stabiliti in una torre dell’Accademia in posizione strategica, dove, per novanta giorni avevano potuto assistere al sanguinoso assedio. Lo scopo della loro presenza era di fare fortuna, sperimentando il nuovo marchingegno ad uso propaganda di guerra, innalzando verso la gloire, con le loro immagini i Francesi vincitori sulla Repubblica Romana, oltre al già citato Raffet.[8]

Il Lecchi, per questo si servì di mezzi poco ortodossi: montò sugli spalti manichini con le uniformi e rese reali le foto con la presenza dei due figli che giocano in mezzo ai cannoni abbandonati, e a garibaldini caduti.  

[6]STEFANO LECCHI: “Del 10 ottobre 1842 è la prima notizia della sua attività come fotografo dagherrotipista: all’Académie des sciences di Parigi fu infatti presentato un suo metodo per colorire i dagherrotipi (andati perduti), metodo in grado di determinare effetti diversi da quelli che si sarebbero ottenuti tramite la colorazione di un’immagine su carta. Il 17 giugno 1843 i resoconti dell’Académie rendevano note alcune applicazioni del metodo presentato l’anno precedente; il 22 apr. 1844 gli stessi resoconti informavano che il L. aveva presentato un apparecchio fotografico di sua
invenzione dotato di un dispositivo di messa a fuoco per regolare le rispettive posizioni della lastra e dell’obiettivo una volta conosciuta la distanza dal soggetto. Nel 1845, in una lettera inviata agli inizi di dicembre a W.H.F. Talbot, inventore della calotipia, R. Calvert Jones menzionava alcune carte salate (le stampe positive su carta tratte dai negativi calotipici) del L., senza citarne i soggetti, da lui viste in alcuni negozi a Lione, ad Avignone e a Marsiglia (Critelli, p. 48). Tra il 1844 e il 1845 il L. era quindi presente nel Sud della Francia e a Parigi ed è probabile che qui, in un clima attento alle sperimentazioni, egli abbia affinato le proprie capacità professionali, abbandonando la dagherrotipia per la calotipia. G.W. Bridges scrisse nel 1847 a Talbot informandolo di aver conosciuto il L. a Napoli in agosto e di averlo visto scattare quattordici fotografie a Pompei (ibid.). Il L., riferiva Bridges, insegnava e praticava la calotipia con ottimi risultati, raggiungendo la perfezione soprattutto nella resa dei cieli.
[7] William Henry Fox Talbot inventa la calotipia nel 1841, ovvero utilizza un supporto cartaceo imbevuto nei sali d’argento esponendolo al sole, che traccia la sagoma dell’oggetto appoggiato, producendo un negativo fissato con iposolfito di sodio. Ciò rese possibile riprodurre gran numeri di stampe.
[8] Raffet Denis Auguste Marie

 

Stefano Lecchi 1849: batteria alla cinta aureliana ricostruzione con manichini

Poi preso dal silenzio della resa, dalle rovine e dalla desolazione e nel suo animo di fotografo scatta lo spirito documentaristico, così nell’attesa di tornare a Parigi, lavorò assiduamente lasciando desolate immagini post belliche di Villa Valentini, il Casino dei quattro venti, villa Spada, San Pietro in Montorio, le Mura Aureliane, il casino Malvasia, casino e villa Savorelli[9], ultimo glorioso baluardo dell’assedio, immortalato dalle parole del Tommaseo e da altri storici ed artisti risorgimentali dell’epoca, come Gian Domenico Guerrazzi:[10]

 “All’una di notte iniziano i bombardamenti. Alle tre il silenzio scende sulla città. Le colonne francesi danno l’assalto alle mura presso Porta San Pancrazio. Garibaldi organizza una terza linea difensiva: da villa Spada a villa Savorelli. Luciano Manara si attesta a Villa Spada. Giacomo Medici a villa Savorelli. Verso le 10 del 30 giugno Manara viene ucciso. Garibaldi lo sostituisce nel comando di villa Spada. A sera Garibaldi si reca all’Assemblea Costituente e propone di abbandonare Roma, ormai indifendibile, per continuare la lotta altrove. La stessa proposta era stata fatta da Mazzini. I triumviri Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Cattaneo, che non approvano la resa, si dimettono”.

 Le fotografie Lecchi documentano Roma alla fine dei combattimenti, chiese distrutte, rovine cadenti, mura forate da palle di cannone, le ferite inferte alla città eterna dal lungo assedio, avvolte in un silenzio di morte. Proprio queste opere lo renderanno famoso, infatti alle immagini del Lecchi, è stata dedicata un’importante mostra Fotografare la storia. Stefano Lecchi e la repubblica romana del 1849,[11] (a cura di) di M. P. Critrelli, nel novembre 2011 per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, a cui si sono attribuiti fini patriottici.

[
[9] Villa Savorelli, oggi sede villa Aurelia sede dall’Accademia Americana, ieri sede operativa di Garibaldi e delle sue truppe.
[10]  GIAN DOMENICO Guerrazzi: Lo Assedio di Roma,, Livorno 1864
[11] Al Museo di Roma Palazzo Braschi 35 fotografie del 1849 di Stefano Lecchi a confronto con 15 stampe moderne illustrano i luoghi dell’assedio della Repubblica Romana.

 

Stefano Lecchi 1849: Porta San Pancrazio deserta
 

La fotografia non basta

 Da Porta San Pancrazio, diruta usciva, dopo la resa, il Generale biondo su un cavallo bianco e i suoi soldati affranti e in fuga, ma Lecchi questo, anche volendo, non lo avrebbe potuto documentare, perché le immagini fotografiche erano state stampate con la complicata tecnica della carta salata, che ritraeva immagini ferme, a causa dei limiti dovuti allo strumento fotografico

Per dare un senso storico oltre che documentaristico,[12] a queste quinte immobili bisognò ricorrere alla tecnica incisoria che, a sua volta, ricorreva al dagherrotipo, cioè al vero, per poi con un collage d’immagini, reinventate, far rivivere in diretta la cronaca storica a loro contemporanea, con combattenti in azione, scoppi, feriti ed attacchi.

[12] Del L. si conosce oggi una sola carta salata che raffigura un viale di Pompei, appartenente alla collezione Ruggero Pini di Como. Piero Becchetti conserva nella sua collezione romana una carta salata raffigurante la torre di Pisa, datata al 1848 circa, che testimonia la presenza del L. in quel periodo in Toscana. Dal 1849 al 1858 la sua presenza è ben documentata a Roma, dove egli fu probabilmente in contatto con la scuola dei calotipisti romani, di cui facevano parte, tra gli altri, F. Flachéron, E. Constant, G. Caneva.( http://www.treccani.it/enciclopedia/stefano-lecchi_(Dizionario-Biografico)/

Questa tecnica mista fu usata da diversi pittori e incisori, per realizzare vedute delle epiche giornate d’assedio, per le quali c’era grande richiesta in Italia e all’estero. La diffusione di giornali illustrati e periodici forniva l’occasione per diffondere questo patrimonio di memorie stimolando la sensibilità dei contemporanei e dei patrioti risorgimentali.

A loro volta questi diventano fotografi, come ad esempio Ludovico Tuminello, (1824-1907) che fondò la Scuola Romana di Fotografia, ma fu cacciato da Roma al ritorno del Papa re, per poi tornarvi in tempo a riprendere la Breccia di Porta Pia. La fotografia inizia dunque ad impossessarsi di quel suo ruolo che sarà determinante nella costruzione di una memoria storica condivisa, spazzando via tutte le tecniche che avevano trionfato nel passato, ma che pur con i loro pregi artistici erano meno fedeli alla realtà.

Carlo Wener litografia 1849- Villa Svorelli e Largo San Pancrazio, particolare della Batteria della Montagnola, dove furono uccisi tutti gli artiglieri vicini ai loro cannoni

Raffet Denis Auguste Marie: Batteria N° 10 Davanti a villa Corsini e destinata a controllare le difese del fronte di Porta San Pancrazio- litografie di Denis-Auguste Raffet museo napoleonico

 

Luigi Calamatta e Lucio Quirino Lelli: Difesa di Roma. 1849, 29 Giugno .la presa della Porta San Pancrazio − Incisione al bulino e all’acquaforte da un disegno di T. De Belly.[13]
[13] http://www.lombardiabeniculturali.it/stampe/schede/XA120-00133/

Dalle immagini sopra riportate si può vedere come la fotografia non fosse all’altezza di ritrarre sentimenti tuttavia riusciva a suscitarli. Non era solo riusciva a fissare l’attualità delle rovine, le conseguenze della guerra, ma a legare al luogo la memoria del fatto e a trasmettere l’emozione o il ricordo a coloro che in seguito avrebbero visto le immagini. La guerra era finita, la Repubblica Romana sconfitta, ma non l’opera intrapresa. Occorreva tramandare la memoria di quanto accaduto, perchè questo sogno di libertà non andasse perduto e tornare più forte che mai. Almeno in questo, anche se non era il suo intento, sembra esserci riuscito.

 Fine prima parte

MARIA GRAZIA VERZANI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Guari, alquanto, molto

[2] FELICE VENOSTA, Roma e i suoi martiri, C. Barbini, 1863 – pag. 82

 

[4] Tra i soggetti più noti del francobollo francese c’è Cerere, la dea romana dell’agricoltura, della fertilità e della terra. In particolare è interessante la storia che lega questi francobolli al 1848 francese, con la fondazione della Seconda Repubblica. Come soggetto dei nuovi francobolli, che avrebbero dato la priorità alle lettere che li presentavano sulla busta, si scelse la “testa della Libertà”, per celebrare la Repubblica appena fondata. A occuparsene fu il bravissimo incisore capo della Zecca di Parigi, Jean-Jacques Barre. Per rappresentare il volto della libertà fu scelta proprio Cerere/Demetra: questo permetteva anche il collegamento diretto alla base della Francia repubblicana, ancora in gran parte legata all’agricoltura malgrado i progressi nell’industrializzazione. Il volto di Cerere nei francobolli di Barre fu quello classico della dea, con la testa cinta da spighe di grano e grappoli d’uva. I due valori previsti per l’emissione furono 20 centesimi e il franco.

[5] Il 1839 è l’anno di Daguerre e del dagherrotipo.

[6]STEFANO LECCHI: “Del 10 ottobre 1842 è la prima notizia della sua attività come fotografo dagherrotipista: all’Académie des sciences di Parigi fu infatti presentato un suo metodo per colorire i dagherrotipi (andati perduti), metodo in grado di determinare effetti diversi da quelli che si sarebbero ottenuti tramite la colorazione di un’immagine su carta. Il 17 giugno 1843 i resoconti dell’Académie rendevano note alcune applicazioni del metodo presentato l’anno precedente; il 22 apr. 1844 gli stessi resoconti informavano che il L. aveva presentato un apparecchio fotografico di sua

invenzione dotato di un dispositivo di messa a fuoco per regolare le rispettive posizioni della lastra e dell’obiettivo una volta conosciuta la distanza dal soggetto. Nel 1845, in una lettera inviata agli inizi di dicembre a W.H.F. Talbot, inventore della calotipia, R. Calvert Jones menzionava alcune carte salate (le stampe positive su carta tratte dai negativi calotipici) del L., senza citarne i soggetti, da lui viste in alcuni negozi a Lione, ad Avignone e a Marsiglia (Critelli, p. 48). Tra il 1844 e il 1845 il L. era quindi presente nel Sud della Francia e a Parigi ed è probabile che qui, in un clima attento alle sperimentazioni, egli abbia affinato le proprie capacità professionali, abbandonando la dagherrotipia per la calotipia. G.W. Bridges scrisse nel 1847 a Talbot informandolo di aver conosciuto il L. a Napoli in agosto e di averlo visto scattare quattordici fotografie a Pompei (ibid.). Il L., riferiva Bridges, insegnava e praticava la calotipia con ottimi risultati, raggiungendo la perfezione soprattutto nella resa dei cieli.

[7] William Henry Fox Talbot inventa la calotipia nel 1841, ovvero utilizza un supporto cartaceo imbevuto nei sali d’argento esponendolo al sole, che traccia la sagoma dell’oggetto appoggiato, producendo un negativo fissato con iposolfito di sodio. Ciò rese possibile riprodurre gran numeri di stampe.

[8] Raffet Denis Auguste Marie,

[9] Villa Savorelli, oggi sede villa Aurelia sede dall’Accademia Americana, ieri sede operativa di Garibaldi e delle sue truppe.

[10]  GIAN DOMENICO Guerrazzi: Lo Assedio di Roma,, Livorno 1864

 

[11] Al Museo di Roma Palazzo Braschi 35 fotografie del 1849 di Stefano Lecchi a confronto con 15 stampe moderne illustrano i luoghi dell’assedio della Repubblica Romana.

 

[12] Del L. si conosce oggi una sola carta salata che raffigura un viale di Pompei, appartenente alla collezione Ruggero Pini di Como. Piero Becchetti conserva nella sua collezione romana una carta salata raffigurante la torre di Pisa, datata al 1848 circa, che testimonia la presenza del L. in quel periodo in Toscana. Dal 1849 al 1858 la sua presenza è ben documentata a Roma, dove egli fu probabilmente in contatto con la scuola dei calotipisti romani, di cui facevano parte, tra gli altri, F. Flachéron, E. Constant, G. Caneva.( http://www.treccani.it/enciclopedia/stefano-lecchi_(Dizionario-Biografico)/

[13] http://www.lombardiabeniculturali.it/stampe/schede/XA120-00133/