PASSI

di CLAUDIA SFILLI

Facevo sempre la stessa strada per andare a lavorare, due volte al giorno: sempre quella,
a passo spedito perché, dicono, fa bene alla salute. Avevo a disposizione anche altri
percorsi più brevi o più comodi, ma quella era la mia strada di elezione: con il caldo,
con il freddo, con la pioggia, con il vento, con i profumi dei fiori primaverili o l’umidità
dell’autunno. Questo mi dava oltretutto la possibilità di dedicarmi liberamente ai miei
pensieri, a quei pensieri che, come le bollicine del Prosecco, spuntano dal nulla solo
per salire in superficie e scomparire. Nulla ci distrae dalle nostre fantasie, se facciamo
sempre la stessa strada.
Camminando lungo la solita strada per andare al solito posto, l’immaginazione
prendeva il sopravvento: passato, presente e futuro si mescolavano, si intrecciavano, si
dividevano come in una danza, per prender più tardi forma nei giochi di chiaroscuro
un po’ realistici, un po’ surreali – a seconda della serata – che la mia matita 2B tracciava
su un foglio di carta da disegno.
Era la fine dell’inverno. La natura sembrava irrimediabilmente morta: rami nudi,
cespugli spogli, giardini rattristati dalla vegetazione rinsecchita. Anche il cielo era
incolore e il buio, rintanato durante il giorno negli angoli, prendeva il sopravvento già
nelle prime ore del pomeriggio. Le mie camminate erano meno piacevoli a causa del
freddo e delle frequenti piogge, che però sopportavo volentieri sapendo che avrei
goduto maggiormente il tepore e il cielo sereno della bella stagione: piacer figlio
d’affanno.
Un giorno qualcosa interruppe il ripetersi regolare delle mie camminate: un rumore di
passi alle mie spalle. Non mi piace che qualcuno mi stia dietro e aspetto sempre che mi
sorpassi e si allontani. Quindi rallentai un po’, poi ancora un po’, poi ancora un po’,
per liberarmi da quel fastidio e continuare tranquillamente il mio cammino. Colui o
colei che mi veniva dietro, però, adeguò il suo passo al mio. Con l’ombrello in una
mano e con l’altra mano impegnata a tenere stretto al collo il bavero del cappotto, mi
portai sul bordo del marciapiede, rasentando muri e ringhiere come un ubriaco che
teme di perdere l’equilibrio. Niente da fare. Erano le nove meno dieci del mattino, dove
mai stava andando? E con quel brutto tempo, poi!
Arrivata al portone del palazzo in cui lavoravo, un attimo prima di infilare le chiavi nel
portoncino d’ingresso, preparai un’espressione cattiva sul volto e mi girai, ma dietro di
me non c’era nessuno.
Quel giorno il lavoro fu particolarmente pesante e anche nella pausa pranzo non potei
rilassarmi perché una collega, in piena crisi matrimoniale, aveva pensato bene di
sfogarsi con me. Uscire dall’ufficio e affrontare la mia camminata liberatoria fu un vero
sollievo. Era già buio da un pezzo, faceva molto freddo e sembrava che l’umanità fosse
scomparsa dalla faccia della Terra. Passavano le macchine, è vero, ma quelle era come
se appartenessero a un’altra dimensione.
Dopo che ebbi percorso un breve tratto di strada, ecco che un rumore di passi, dapprima
appena percettibile, poi sempre più forte, si fece nuovamente sentire alle mie spalle.
Rallentai, rallentai, rallentai, fino quasi a fermarmi, ma i passi seguivano il mio ritmo.
Con il buio la situazione era più antipatica e, nel tratto maggiormente oscuro, quella
presenza dietro di me divenne davvero sgradevole. Invece dei miei soliti pensieri liberi
mi ritrovai a elaborare ipotesi inquietanti: pensai di avere alle spalle un rapinatore,
addirittura un assassino o un maniaco con le peggiori intenzioni. Timori assurdi, per il
luogo in cui mi trovavo; sebbene con poca luce e senza grande affluenza di gente, era
pur sempre una via cittadina e l’orario non era proibitivo. Ma chi mai, senza avere
cattive intenzioni, avrebbe potuto decidere di seguirmi con tanta insistenza? Forse avrei
dovuto girarmi di scatto e guardare in faccia quella persona, ma l’idea di trovarmi in
una situazione imbarazzante, mi impediva di farlo.
Un po’ prima di arrivare sotto casa mia, il rumore dei passi alle mie spalle cessò e
quando, al momento di aprire il cancelletto, mi girai, non vidi nessuno.
Una buona cena, una piacevole chiacchierata al telefono con la mia amica Veronica,
un filmetto leggero e ogni turbamento scomparve, tanto da non pregiudicare nemmeno
minimamente il sonno.
Il mattino dopo, appena sveglia, pensai a quanto era accaduto la sera prima, ma avevo
dormito bene e risi un po’della mia preoccupazione certamente piuttosto infantile.
Uscii di casa alla solita ora e cominciai a percorrere la mia solita strada. Il cielo era
coperto da nuvole grigie, addirittura plumbee, che si muovevano veloci, spinte da un
vento gelido. Alzai il cappuccio, pronta a lasciar libera la mia immaginazione, quando

i passi, di nuovo quei passi, si fecero sentire. Dapprima lontani, poi sempre più vicini.
Non importa, mi dissi. Io faccio la mia strada e lui – non poteva che essere un lui – la
sua. Vuole stare attaccato? Lo faccia pure, io ho altro a cui pensare!
Facile a dirsi, ma difficile a farsi. Questa volta scelsi di camminare in fretta: con quel
freddo e quel vento andava bene, aumentava il battito del cuore, la circolazione del
sangue e quindi il calore del corpo. Ma chi stava dietro di me fece lo stesso. Non li
sentivo come il giorno prima, perché avevo il cappuccio, ma li sentivo. Anche quella
mattina, girandomi prima di entrare nel palazzo dell’ufficio, non vidi nessuno. Arrivata
alla mia scrivania, mi misi subito al lavoro per evitare di perdermi in elucubrazioni
inutili. Funzionò. La collega, inoltre, aspettava la pausa pranzo per continuare quella
specie di seduta psicoanalitica del giorno precedente. A fine giornata non avevo
dedicato che pochi, brevi pensieri ai passi misteriosi. Certo, uscire con quel brutto
clima invernale, con il buio e l’incognita di quella strana presenza dietro di me, non era
piacevole, ma non dovevo drammatizzare.
Come il giorno prima, appena messami sulla via di casa, ecco ancora i passi dietro di
me. Accelerare o rallentare non cambiava niente; avevo provato anche a fermarmi,
fingendo di guardare una delle poche vetrine illuminate lungo il mio percorso, ma si
era fermato pure chi mi seguiva. Allora provai a cambiare strada, ma anche lui la
cambiò. Mi venne dietro. Capii che mi avrebbe seguita ovunque. Il vento soffiava più
forte e a momenti sembrava proprio che qualcuno alle mie spalle mi spingesse. Volevo
arrivare a casa il più presto possibile, ma quella sera la strada non finiva mai.
Mi bastò chiudere la porta che l’ansia cominciò subito ad allentare la sua morsa. Avevo
incontrato diverse persone lungo la strada, alcune erano conoscenti che mi avevano
salutato con un bel sorriso, e nessuno aveva mostrato sorpresa o preoccupazione. Nulla
di sospetto dietro di me, allora.
Quella sera, però, avevo avuto paura.
Per una settimana quei passi si fecero sentire puntualmente alle mie spalle e mi
accompagnarono nel quotidiano tragitto casa/lavoro, lavoro/casa. Non ero riuscita ad
escogitare un trucchetto per risolvere la situazione e forse… forse intimamente non
volevo farlo. Nei meandri della mia mente, ora posso dirlo, c’era il timore di vedere in
faccia il mio molestatore e di doverlo affrontare. Proprio come quando ci si rifiuta di
fare esami clinici per non scoprire la propria malattia. Così subivo quella situazione
assurda.
Una mattina incontrai l’inquilino del primo piano, angosciatissimo per l’elenco dei
lavori da eseguire nel nostro palazzo. Sganciarmi dalla morsa del coinquilino
terrorizzato dalle spese impreviste fu impresa ardua, ma il tempo perso nell’ascoltare
il pover’uomo servì a modificare il mio comportamento abituale. Fu così che successe
un fatto importante: uscita di casa, vidi, sull’entrata del condominio contiguo al mio,
comparire e scomparire una figura. Non ero riuscita a vederla bene: forse aveva il
cappuccio in testa come tutti i malviventi dei film, forse anche degli occhiali scuri.
Quella apparizione mi spaventò, inutile negarlo: la associai immediatamente ai passi
che mi stavano tormentando, ma non per questo mi fermai. Pochi metri e avrei
raggiunto il punto in cui quella figura sospetta si era nascosta. Facevo fatica a respirare,
lo confesso.
Generalmente passavo davanti a quel portone senza degnarlo di uno sguardo, ma ora…
Ora, lì, avrebbe potuto esserci qualcuno in attesa, con chissà quali intenzioni. Certo,
avrei potuto attraversare la strada e camminare sull’altro marciapiede, ma non lo feci.
Anzi, quando arrivai davanti al portone, ci guardai dentro. Trovai due occhi spauriti
che mi puntavano, supplicanti. Era una donna, immobile, con le braccia incrociate sul
petto e la bocca socchiusa, come se volesse dirmi qualcosa.
Feci ancora uno o due passi, ma subito pensai: perché andarmene via? Mi girai e tornai
indietro.
“Buongiorno,” dissi.
“Buongiorno,” rispose la piccola donna infagottata in un cappottino bordò.
Ci guardammo per un po’, in silenzio.
“Ti ho dato fastidio vero? “disse lei con un filo di voce. ” Lo vedo dalla tua faccia. Non
essere arrabbiata con me. Ti prego. Ho bisogno di non essere sola per strada. Ho
paura…”.
Non sapevo cosa risponderle. Avevo temuto di imbattermi in un uomo minaccioso, e
mi trovavo davanti a una giovane donna, più spaventata di me.
“Perché hai paura?”.
“Preferisco non dirlo. Se non ti dà fastidio, ti seguirei ancora. Io abito qui e lavoro nel

negozio vicino a dove ti fermi tu. Ti vedevo passare tutti i giorni e ho pensato di starti
dietro per darmi coraggio. Capisci? Per sentirmi un po’ protetta…”
“Come ti chiami?”
“Mina”.
“Io sono Greta. Senti… ma perché non camminiamo insieme, invece di stare una dietro
all’altra, così chiacchieriamo un po’”.
Lo sguardo di quella donna mi aveva colpita. Non sapevo niente di lei: avrebbe potuto
essere una squilibrata. Aveva la voce incerta e le mani le tremavano. Ma mi aveva
lanciato una richiesta di aiuto e non potevo ignorarla.
“No! Per l’amor del cielo, no. Io devo fare quella strada da sola. Noi non ci conosciamo.
Se mi lasci venire dietro di te, ti dico grazie, ma non fare niente di più, ti prego”.
“Qualcuno vuol farti del male? Ti controlla? Guarda che adesso c’è chi aiuta le donne
in difficoltà. Qualcuno ti minaccia?”
Mina abbassò lo sguardo.
“No. Va tutto bene. Soltanto vorrei fare la strada dietro di te. Ma se ti dà fastidio, non
importa”.
“Ma no! Cosa dici? Fa’ quello che vuoi. Possiamo scambiarci i numeri di telefono…”
“No, grazie. Solo la strada dietro di te. Solo questo”.
Feci la strada con Mina alle spalle e anche al ritorno lei mi venne dietro senza dire una
parola. Andò avanti così per circa un mese. Mi seguiva e spariva poco prima che io
arrivassi a destinazione. Quei passi non erano più un disturbo per me, ma un rumore
amico e l’idea di essere d’aiuto a quella giovane mi piaceva. Ma aiuto per cosa? Forse
era solo una donna fragile e indifesa, magari traumatizzata da esperienze dolorose. Mi
indignavo all’idea che qualcuno potesse minacciarla. Un giorno avrei trovato il modo
di convincerla a sfogarsi con me.
Le cose, però, non andarono così.
Sera. Sirene. Luci lampeggianti. Tensione nell’aria. Vicino a me è successo qualcosa.
Un incidente? Si è sentito male qualcuno?
L’ambulanza parte con la sirena spiegata dal condominio accanto al mio; c’è un uomo
in manette fra due poliziotti.
Da quel giorno nessun rumore di passi accompagnò più il mio percorso quotidiano.

CLAUDIA SFILLI