Il potere femminile in casa: tra matricentrismo e carico mentale

di VALENTINA DI GENNARO ♦

Ci hanno sempre detto che in casa comandano le donne. Che siamo noi a tenere tutto insieme, a decidere, a scegliere per il bene di tutti. Ma la verità è che questo non è potere. È carico mentale. È una regia senza applausi, una direzione d’orchestra in cui gli strumenti li accordi da sola, e nessuno ti chiede se ti sei seduta almeno cinque minuti. Per anni ci hanno convinte che decidere cosa cucinare, organizzare il calendario di tutti, ricordare le medicine dei genitori, prenotare le visite dei figli, gestire le emozioni del partner fosse una forma di autorevolezza domestica.

Ma non lo era. Era – ed è – una sovrapposizione sistemica di ruoli, un carico silenzioso che grava sulla donna in quanto tale, e che si chiama, in termini più esatti, gestione della cura. Nel 1985, Arlie Hochschild lo ha definito “second shift”, il secondo turno: le donne lavorano fuori casa quanto gli uomini, ma quando tornano, iniziano il loro vero lavoro. Quello dentro le mura, invisibile, scontato, spesso non condiviso.

Il potere femminile in ambito familiare è stato per troppo tempo confuso con il matricentrismo: un sistema che pone la madre al centro dell’universo affettivo e organizzativo della famiglia. Ma essere al centro non significa essere libere.

Come ha scritto la sociologa francese Christine Delphy, “la famiglia è il primo luogo in cui si esercita un lavoro non riconosciuto come tale” (Delphy, L’ennemi principal, 1970).

E quel lavoro – emotivo, mentale, organizzativo – lo fanno quasi sempre le donne.

Il matricentrismo non è il contrario del patriarcato. È il suo alleato più astuto. Ci tiene al centro delle case per toglierci dal centro del mondo. Ci dice “regine”, ma solo se restiamo dentro i confini del servizio.

Ci mette in trono, sì, ma di fronte al frigorifero. O al letto disfatto di tutti, tranne il nostro.

Sembra offrirci centralità, ma in realtà ci sposta solo di gabbia.

Ci dice: “Sei al centro, tutto gira intorno a te”, ma è un centro che immobilizza.

Un centro che regge il sistema familiare, emotivo, relazionale… ma che non decide nulla fuori da quel recinto.

Nel patriarcato esplicito, il potere è negato alle donne.

Nel matricentrismo, invece, viene simulato: ci viene concesso un trono, sì, ma uno che ha le gambe segate.

Un trono che è anche postazione multitasking: lavatrice, agenda scolastica, gestione delle medicine, controllo del cibo in frigo, stabilità psichica del nucleo.

Un trono che, più che elevarci, ci vincola. Ci vuole regine, a patto che continuiamo a servire. Che mettiamo tutti al centro – tranne noi.

In questo senso, il matricentrismo non scardina il patriarcato: lo serve.

Perché ne assorbe la struttura e la ricopre di linguaggio affettivo: “tu sei la più importante”, “senza di te nulla funzionerebbe”. Ma non ci viene chiesto cosa desideriamo. Ci viene chiesto di funzionare.

Silvia Federici ha scritto: “Il lavoro domestico non è solo una forma di sfruttamento economico, è anche uno strumento per disciplinare il corpo e la mente delle donne” – e il matricentrismo è proprio questo: una disciplina emotiva travestita da onore.

La madre, la donna di casa, è il cardine: sì, ma un cardine non si muove. Tiene insieme le cose mentre le altre scorrono. E se prova a spostarsi, tutto vacilla. Questo è il ricatto implicito: “Se tu crolli, crolla tutto”. E allora stai su. Anche quando sei stanca. Anche quando nessuno ti guarda.

Il patriarcato si è reso più accettabile proprio così: delegando alle donne il lavoro di tenere in piedi la casa, le relazioni, la società. E facendolo passare per un potere naturale, quasi una vocazione.

Ma naturale non è. È culturale, storico, sistemico. Il trono a cui ci fanno sedere è spesso rivolto verso il frigorifero o verso il letto disfatto di tutti, tranne il nostro.

Non è un trono: è un altarino domestico dove ci si consuma in silenzio.

E poi ci si colpevolizza, se qualcosa sfugge, se un pezzo di cura non è perfetto. Finché questa centralità non sarà condivisa, riconosciuta, politicizzata, resterà solo l’ennesima forma di isolamento.

E finché diremo che “in casa comandano le donne” senza chiederci a quale prezzo, continueremo a legittimare una gabbia che ci è stata solo ridipinta. Come scrive Silvia Federici, “la famiglia moderna è la vera fabbrica dove si riproduce la forza-lavoro. Ma nessuno paga chi tiene in piedi tutto questo” (Il punto zero della rivoluzione, 2014). Ecco, questo è il nodo: chi tiene in piedi il mondo non viene mai nominata.

Il carico mentale è diventato un concetto riconosciuto solo di recente, anche grazie alla diffusione virale di fumetti e saggi divulgativi come quelli di Emma Clit (Fallait demander!, 2017) e alla crescente produzione femminista che unisce teoria e vita quotidiana.

Ma resta ancora poco riconosciuto nel linguaggio istituzionale, scolastico, giuridico.

Ci si riempie la bocca di conciliazione lavoro-famiglia, ma raramente si parla del fatto che la “conciliazione” la fanno sempre e solo le donne, pagandola con la salute mentale, il tempo personale, l’autonomia economica. Michela Murgia lo diceva chiaramente: “la famiglia è un luogo politico” – e aggiungeva – “l’amore non può essere una giustificazione all’oppressione.”

Perché il privato è politico, e lo è sempre stato Nessuna emancipazione sarà completa se continueremo a vivere schiacciate da un’idea di potere domestico che è solo cura obbligata, responsabilità affettiva non contrattata, assenza di reciprocità.

Essere al centro di tutto non è un privilegio, se quel tutto ti lascia ai margini di te stessa.

VALENTINA DI GENNARO

Riferimenti bibliografici
  • Arlie Russell Hochschild, The Second Shift, Viking Penguin, 1989
  • Silvia Federici, Il punto zero della rivoluzione, DeriveApprodi, 2014
  • Christine Delphy, L’ennemi principal, Éditions Syllepse, 1970
  • Emma Clit, Fallait demander!, 2017 (disponibile anche online come fumetto)
  • Michela Murgia, Stai zitta, Einaudi, 2021
  • Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, 1949