LA MADRE – TERZA PARTE: LA FIGLIA

di MARINA MARUCCI ♦

 Il 6 e il 9 agosto 1945 ci fu  lo sganciamento delle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki che molti storici definiscono un atto terroristico nei confronti della popolazione civile giapponese ed altri invece  una necessità per porre fine alla seconda guerra mondiale: io sono nata nel 1955, nel  pieno sviluppo delle armi nucleari diventate sempre più sofisticate. L’onda d’urto di quell’episodio bellico ha cambiato la prospettiva del pianeta, ha rappresentato un spartiacque inarrestabile, l’umanità è entrata nell’era atomica, nella guerra fredda e nella proliferazione nucleare. Il limite superato  dal genere umano con quell’ordigno mi ha fatto   riflettere:   è come se fosse stata oltrepassata   la linea  estrema  che eravamo  in grado di   esprimere. Molti sopravvissuti ricordavano come  quell’esperienza  fosse  “ al di là delle parole”, qualcosa di inconcepibile,  né razionalizzabile, che andava bel oltre  la paralisi  emotiva dei sopravvissuti ai bombardamenti effettuati  a tappeto in Europa.

La repubblica Italiana nacque il 2 giugno 1946 dopo i risultati del referendum tra monarchia e repubblica: ci furono 12 milioni  circa di voti a favore della repubblica e 10 milioni per la monarchia. Per la prima volta votarono 13 milioni di donne e 12 milioni di uomini e cioè 89,09% degli aventi diritto.  Sull’allargamento del voto alle donne ci furono perplessità, i partiti temevano il loro disinteresse ed astensionismo, ma le donne erano determinate a non ritornare nell’ombra e a contribuire alla ricostruzione dell’Italia, tant’è che smentirono tale pregiudizio con una  partecipazione al voto dell’89%.  Durante la resistenza le  donne italiane che vi avevano preso parte, ma anche molte  altre che ogni giorno combattevano per la loro sopravvivenza e quella dei propri figli, avevano compreso che quella lotta era strettamente collegata alla loro emancipazione  dall’ideologia misogina e fascista. Il 2  giugno furono anche eletti 556 componenti dell’Assemblea Costituente, di cui  ventuno   donne, che dovevano redigere la nuova costituzione.

Mia nonna, che quasi non sapeva scrivere, capì perfettamente l’importanza della posta in gioco e trascinò anche sua madre Rosa,  le amiche e i parenti a votare per la Repubblica.

Negli anni successivi arrivò il boom economico, la ricostruzione dopo le macerie  della guerra, anche grazie al famoso piano Marshall, “donatoci” dal governo Statunitense. L’euforia per il benessere a portata di tutti aveva contagiato il nostro paese, c’era il lavoro, l’abbondanza di cibo, i primi elettrodomestici, cosa  potevamo desiderare di più  nel periodo della guerra fredda!

Silvana aveva iniziato all’età di 18 anni a lavorare presso un  laboratorio di pellicceria, in Piazza di Spagna e spesso la veniva a prendere Federico che si spacciava per il suo fidanzato ma di cui lei  non era affatto contenta. Lui era sempre arrabbiato,  assillato costantemente dalla madre che, rimasta vedova e senza più il figlio prediletto, si era appoggiata al più grande, scaricandogli ogni responsabilità. Federico aveva  trovato lavoro presso la Cereria  di Giorgio, in Via della Lungara come addetto alla contabilità, perché lui era riuscito a completare gli studi.  La Cereria era stata fondata nel 1908 da Giuseppe di Giorgio che insieme alla moglie Anna  avevano  avuto l’intuizione di acquistare una bottega di lumini che  dopo vent’anni divenne “Fornitore Pontificio”. Nel 1950 brevettarono la “Lampada Liturgica” capace di bruciare per una settimana intera, ricevendo l’encomio da papa Pio XII e assicurandosi così il  futuro.

Un giorno, mentre  Silvana e Federico passeggiavano per le vie del centro di Roma, mangiando un gelato lui le chiese determinato :

« Ora che ho un lavoro sicuro, duraturo e siamo fidanzati, quando pensi di sposarmi?»

Mia madre lo guardò inquieta, il solo pensiero di vivere tutta la vita con un uomo rabbioso,  irritabile e tendente alla pinguedine già visibile, la fece rabbrividire. Per non parlare della futura suocera, ex fascista che, come riferitole da Federico, teneva nascosta nell’armadio, una piccola testa di Mussolini. L’attuale casa sarebbe stata condivisa dagli sposi insieme a quella donna, “la spiona”, come l’aveva soprannominata mia madre, situata sullo stesso pianerottolo vicino ai suoi genitori, con la possibilità di essere costantemente controllata e mai libera.  Pensò quindi di  rispondere in modo evasivo al suo ex amico e mai futuro marito, motivando il rinvio con   l’ esigenza di aver bisogno di tempo per  imparare un mestiere e poter  lavorare.  Lui  non batté ciglio, non disse nulla,  contraddire mia madre era un’ impresa difficile, in fondo sperava che il loro legame d’amicizia  e la prospettiva di una   stabilità economica l’avrebbero convinta.

Silvana però  iniziò ad eclissarsi, soprattutto fisicamente. Quando la sua collega di lavoro l’avvertiva che Federico era fuori ad aspettarla lei si barricava  nel bagno  del  laboratorio di pellicceria e raccomandava all’amica di riferirgli  che non c’era perché malata.  Prima di uscire di casa si guardava intorno, avevano orari  diversi ma la possibilità di incontrarlo era sempre in agguato. Non voleva ferirlo  ma non aveva il coraggio di dirgli la verità, non ne era innamorata ,così trascorsero alcuni mesi giocando a nascondino, ma su insistenza di nonna Linda, fu costretta a svelare i suoi sentimenti. Alla fine decise di vederlo fuori dal  posto di lavoro:

  « NO! Questa è la tua risposta definitiva? ….Comunque l’avevo già capito. Dopo la mia proposta sei quasi sparita» rispose lui visibilmente alterato.

« Mi dispiace,  possiamo  sempre rimanere amici» rispose, cerando di ammansirlo.

Federico fece un gesto di rabbia incontrollato, alzando verso l’alto il pugno della mano destra, mia madre arretrò, lui  si girò e senza neanche salutarla corse verso la scalinata di Trinità de’ Monti.  Silvana rimase immobile, poi lentamente iniziò a camminare,  respirò a pieni polmoni alzando gli occhi al cielo,  come aveva fatto  quel giorno della liberazione di  Roma; per lei ogni difficoltà era  difficile da superare e ne sentiva spesso le  ripercussioni sul piano fisico.  Difatti rimase al letto con la febbre  per alcuni giorni, forse per l’angoscia di rincontrarlo o per il panico vissuto al momento dello scontro.

Dopo poco tempo l’appartamento affittato da Federico e dalla madre fu liberato. Alcune persone del quartiere dissero che si erano trasferiti in una casa più grande, in Via della Lungara perché lui  presto si sarebbe sposato con una  collega della Cereria.

Mia madre ne fu felice, l’incubo di incrociarlo  ogni giorno sulle scale   si era smaterializzato, il suo lavoro di pellicciaia la soddisfaceva  e all’orizzonte si era timidamente  affacciato un nuovo ragazzo, Giuseppe. Dopo essersi frequentati per vari mesi,  di nascosto dai genitori di Silvana, lui le chiese di diventare sua moglie, così iniziarono le difficoltà.

 Subito dopo la guerra  Giuseppe aveva trovato lavoro come inserviente  presso una tipografia a Trastevere e lì aveva subito un incidente causato dall’inceppamento  della  macchina tipografica che gli aveva tranciato alcune articolazioni del polso sinistro, mentre  toglieva i fogli stampati. Si sottopose a varie  operazioni che gli diedero la possibilità di recuperare  quasi interamente le funzioni, però nella sua situazione non era facile trovare lavoro: era comunque ritenuto  inabile.  Per fortuna,  agli inizi degli anni cinquanta, la grandi aziende statali cominciarono ad  assumere  attraverso le liste degli invalidi e con questa motivazione  fu ingaggiato  come fattorino da una società di telecomunicazioni.

Quando fu resa pubblica la notizia del probabile matrimonio  mia madre pensò che il piccolo handicap del possibile  marito  non fosse un grande problema, però le chiacchiere  su di loro iniziarono a scorrere veloci: il rione sosteneva i suoi abitanti ma i pregiudizi  si rivelarono spietati.  I parenti  dimostrarono un aperto ostracismo per  quella scelta, cercando di  influenzare le sue decisioni. Lo zio Ernesto ma soprattutto  sua moglie erano  contrari a quella unione, il loro parere era tenuto in grande considerazione da i miei nonni,  forse perché nel periodo bellico erano stati da loro “aiutati”, forse perché a Trastevere  erano diventati importanti o forse perché la famiglia di Giuseppe  era una di quelle disastrate, sempre vissute ai margini.

Sesto di sette fratelli egli viveva in una soffitta in Santa Maria in Trastevere, il padre era latitante,  li aveva abbandonati anni prima,  la madre,  Assunta, faceva la lavandaia. Una famiglia povera che viveva di sussidi, di continue difficoltà che Assunta spesso affogava nel vino, comprato a due soldi nelle osterie del quartiere. Il quadro famigliare  era poco affidabile, in più lui  era comunque “ un invalido”, tant’è che qualche famigliare  mise in dubbio la sua capacità lavorativa,  per cui fu proibito a mia madre di continuare a  frequentarlo,  figuriamoci a sposarlo. Ma Giuseppe non si lasciò spaventare,  abituato fin da piccolo a lottare per  sopravvivere ed emergere in un ambiente ostile, decise di  difendere con tutte le sue forze  quel sentimento d’amore,  cogliere così una delle rare  opportunità offertagli dalla vita e costruire la sua famiglia.

Dopo pochi giorni dal grande rifiuto  si presentò  battagliero da mio nonno Giulio,  con il contratto di lavoro firmato e, d’accordo con mia madre , malgrado le ostilità, fu  deciso il loro matrimonio celebrato nel 1952.

 Dopo due anni nacque mia sorella maggiore Rita, in casa, come era abitudine fare.   Silvana ebbe varie complicazioni durante il travaglio  per cui decise  che un eventuale  prossimo figlio lo avrebbe partorito  in una struttura ospedaliera e lì sono nata, presso l’ospedale “San Camillo de  Lellis “, patrono dei malati , degli infermieri e degli ospedali.

Non ricordo molto bene la casa di San Cosimato, dove ho abitato quando era piccolissima, insieme ai miei nonni, perché all’età di sei anni ci trasferimmo tutti   nella nuova abitazione costruita in Viale Marconi, quartiere residenziale di Roma, sorto in poco tempo,  vicino al   fiume Tevere.

Una delle poche cose che ricordo è la forte pioggia il giorno del trasloco e nonno Giulio che imprecava per la bruttissima giornata. Il nostro appartamento era al terzo piano, aveva due stanze da letto,  la cucina, un bagno,  lo sgabuzzino  e  il soggiorno, ampio, luminoso; a mia madre sembrava un sogno, così  diceva.

« Finalmente ci siamo liberati di quella stamberga,  brutta,  vecchia e umida» commentava, contenta di poter vivere in un quartiere cosiddetto moderno, anonimo e dallo sviluppo urbano estremamente caotico.

 Forse mio padre avrebbe  preferito rimanere  in  quella casa “vecchia e umida”,  magari comprarla a poco prezzo e continuare ad abitare nel suo quartiere , tra visi conosciuti ma, come ho già detto, contraddire mia madre era un’operazione estremamente temeraria. L’amore che Giuseppe provava  per lei  era sconfinato, accettava ogni decisione o capriccio pur di renderla felice:  era un inguaribile romantico, forse uno degli ultimi  da me conosciuti.

Dopo alcuni anni, il valore degli appartamenti in Trastevere triplicò, i nativi furono quasi del tutto  espulsi  e al loro posto arrivarono i  turisti e i ricchi americani che, attraverso fortunate speculazioni immobiliari, lo colonizzarono.  

Il palazzo in cui  avevamo traslocato  era dotato di  un moderno  ascensore. Per il suo funzionamento c’era all’interno una scatola in cui  bisognava inserire una moneta da cinque lire,  a qualunque piano si  andasse. Con il tempo molti vi  infilarono gettoni,  rondelle, piccoli bottoni, causandone il blocco  così  la gettoniera, ormai inservibile, fu rimossa e il costo del  mezzo meccanico fu addebitato ai singoli condomini, pro-quota.  C’era anche un portiere che dalla guardiola controllava costantemente la pulizia dello stabile e l’affluenza negli appartamenti dei residenti.

 Mia sorella dormiva insieme ai miei nonni, io con i miei genitori ma, diventate più grandi, i miei  decisero   di comprare delle singole  poltrone letto da posizionare  nel soggiorno, da  aprire e richiudere ogni giorno, tra i brontolii di mia madre.

 La mattina il dilemma era sempre l’uso del bagno:  eravamo sei persone e mio nonno Giulio, estremamente lento nel prepararsi, aveva il compito di accompagnarci a scuola con la macchina.  Nella nostra zona  ancora non era stato costruito un Istituto scolastico che comprendesse le  elementari e  le medie,  così eravamo costrette ad andare oltre il ponte Marconi, al di là del  Tevere,  Al mattino con mia sorella avevamo inventato  un gioco: chi si svegliava prima correva a conquistare il bagno , dove  spesso ci lavavamo insieme, per evitare di fare tardi e se a volte  incappavamo nel gabinetto già occupato dal nonno, chiamavamo  nonna Linda che senza allusioni, né sottintesi, chiamandolo  insistentemente, lo sollecitava ad uscire.

 Era una battaglia giornaliera  ma la ricordo con sincero affetto e nostalgia.  Nonno Giulio,  dopo la fine dell’anno scolastico, in estate,  ci portava spesso ai prati dell’EUR e li ci divertivamo moltissimo. Ci sentivamo  libere, spensierate, senza sentire i rimbrotti di nonna Linda  e le lamentele sulla  sua salute che nostra  madre  ci rovesciava  addosso ogni giorno.

Mio padre lavorava sodo e aveva poco tempo per noi, anche se quando era libero al mattino , dopo un turno di  notte  a smistare telegrammi e cablogrammi,  ci accompagnava a scuola o ci aspettava  al ritorno per  giocare insieme.  Tutto sommato la nostra infanzia trascorse felice, in un tempo di transizione dove l’eco dei movimenti giovanili iniziava a sconvolgere  il mondo occidentale.

Alla fine degli  anni sessanta, io avevo quasi quattordici anni  ma ero ancora una bambina, con i calzini  bianchi ai piedi  e le scarpe senza tacco. Mia sorella era diventata  già “signorina”, come si diceva in gergo all’epoca,  molte mie  compagne di classe indossavano minigonne alla moda,  avevano  seni prosperosi o bene in vista, vite sottili, gambe tornite, visi truccati, caratteristiche che io non possedevo. Il mio sviluppo ormonale ancora  non si era manifestato così mia madre, preoccupata, mi fece visitare  da uno dei suoi  tanti specialisti  che la rincuorò dicendo che andava tutto bene, avevo soltanto una “pubertà ritardata”. Nessuno mi aggiornava su quello che mi sarebbe dovuto succedere e non stava succedendo; le informazioni erano frammentarie, se ne parlava poco in casa,  si citavano  nomignoli tipo “il canestrello” che significava il  menarca o le mestruazioni mensili; la possibilità di partorire i figli  si indicava con  “sgravare” e  tutto questo linguaggio confuso, poco comprensibile, impreciso, faceva aumentare  la mia ansia.

Finalmente, un giorno,  mentre ero in casa a studiare, sentii in mezzo alla cosce un grande calore, un leggero dolore al basso ventre e  corsi subito in bagno. Al solito era invaso da mia madre che prima di uscire aveva bisogno di truccarsi, pettinarsi, vestirsi, rimirarsi allo specchio per essere  impeccabile:  la necessità di nascondere l’ansia e l’ossessione sulla  propria salute l’avevano trasformata in  una maniaca della sua immagine.

Entrai senza bussare, vista l’urgenza e  le spiegai i dolori  che sentivo: fu  una delle poche volte che vidi sorridere mia madre,  sempre imbronciata.

« Ora sei una donna, ma  attenta a fare figli, quelli possono aspettare» Solo dopo anni capii fino in fondo  quell’affermazione, dettata dal  trauma  del suo primo parto e  avvalorata dalla mia   tormentata futura  gravidanza.

 Poi, gli anni ’70, deflagrarono  in tutta  Europa ma anche nella mia famiglia. Mio padre, fervente comunista, sindacalista e oltretutto ateo, difendeva a parole  le lotte giovanili ma in casa assumeva un vero e proprio atteggiamento patriarcale. Mia sorella Rita, ingaggiava continue contestazioni nei suoi confronti e le discussioni o i processi, come li chiamavamo noi, diventavano interminabili. Ci eravamo trasformate in  ragazze ribelli che  volevano molto, molto di più.

 Attraverso varie vicende nel decidere quale scuola superiore frequentare finii  a Trastevere, all’istituto di Ragioneria ed  iniziai a conoscere i ragazzi e  le ragazze   della  sezione del PCI di vicolo del Cinque, sita  nel rione che avevo abbandonato da piccola. Quella sede di partito  divenne una scuola, un punto di  riferimento, un rifugio: la mia giovane vita mi stava riportando indietro nel tempo a riscoprire le illustre  radici.

Iniziai la militanza politica e imparai  come  il quartiere,  negli anni, si era trasformato o forse meglio dire, trasfigurato. I mesi per l’impegno del referendum sul divorzio  nel 1974 passarono in fretta ed arrivai alle elezioni regionali del  1975, dove votai: avevo vent’anni ma   era la prima volta che erano ammessi al voto  i diciottenni . Dopo c è stato il 1976.  Ma quella è  tutta un’altra storia.

CONCLUSIONI

Questo  terzo ed ultimo racconto  fa parte di un romanzo, in via di stesura, che narra le vicende di tre donne del XX secolo: una nonna, una madre, una figlia, nate a Trastevere, celebre rione di Roma. E’ la storia delle donne della  mia famiglia, ricca di aneddoti, di drammi e di gioie, che attraversa il “secolo breve”, recuperandone la memoria, il loro vissuto, le loro radici, perché è dalle  persone comuni che vengono alla luce i momenti più veri di una storia collettiva che non dovremmo dimenticare. 

MARINA MARUCCI