LO SPECCHIO

di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦

Gentile lettrice, gentile lettore,

non vorrei qui dar sfogo alle querule lamentazioni di chi ha a che fare, per diretta professione, con i moti perigliosi della mente umana. Mi accingo, tuttavia senza celare un moto di disagio, nel dar conto di certi frammenti di vita che ruotano attorno a qualcosa che agita non poco l’animo umano nello specifico ambito dell’angoscioso: il perturbante!

 A tal proposito mi trovavo mesi orsono a colloquio con una certa Madame della quale reputo poco opportuno rivelare il nome. Raccolto l’accorato sfogo che ascoltai ,ne trascrivo ad un dipresso il modo con cui si espresse nei confronti di una estranea che, a suo dire,  le si stagliava improvvisamente di contro assumendo  una postura che lei reputava decisamente avversa.

“Chi sei tu che mi stai di fronte , minacciandomi?

Osi vestire la mia veste, acconciare i tuoi capelli come io stessa faccio. Chi ti ha fatto entrare? Vuoi impedire la mia libertà?

Perché mi imiti, perché vuoi essere la mia sosia?

Allontanati! Ti ingiungo: allontanati! Io ti minaccio seriamente. Esci dalla mia casa!”

A queste urla disperate Madame, proseguendo nel racconto, riferì che fece seguire un lancio di oggetto pesante contro chi le stava di fronte.

Si udì, allora, uno squillante fragore di vetri frantumati.

Uno specchio di fattura ovale di grandezza sufficiente a contenere una figura umana, assicurato da due sostegni laterali per via di perni orizzontali che consentivano di fargli assumere inclinazioni diverse, giaceva a terra ai piedi della Madame infuriata.

Il giorno dopo ebbi cura di farle una accurata visita. Appariva turbata e con tono convulso ma deciso tentò di rivestire di una qualche ragione il suo atto emotivo.

“Spesso mi chiedo se ciò che io vedo appartenga veramente al mondo. Mi capisce? Vedo le cose o vedo ciò che la mia coscienza vuole vedere? Quel maledetto specchio davvero mi stava riflettendo? Io vedevo un’altra che mi stava fissando. Lei pensa che io sia pazza ma vorrei che mi seguisse nel mio incubo che sto faticosamente descrivendole. Uno specchio qualsiasi mi riflette, certo. Ma in quella immagine sono io ma sono anche un altra. Mentre mi guardo vedo che sono io ma,….mi segua attentamente, vedo che io sono nell’atteggiamento di uno che sta fissando me, con insistenza, con infinita insistenza. Le è chiaro? Guardo me e vedo che mi si guarda! Posso pensare di averla convinta? Insomma, ciò che mi è accaduto afferisce a qualsiasi persona, la più sana di mente, la più razionale… Noi tutti siamo di fronte ad uno sdoppiamento. Noi vediamo il nostro doppio……Lei deve comprendermi!!

Madame era stata colpita da una sindrome inquietante che potremmo chiamare di smarrimento della propria identità di sé allo specchio. Feci un po’ di fatica nel rimembrare il nome della patologia poi ad un tratto quel nome emerse in tutta evidenza:  il viso (pròsopon) non è più riconosciuto (agnosia), da ciò il termine prosopagnosia.

Debbo in fede mia riconoscere come giuste le osservazioni di Madame circa la figura dello sdoppiamento  che lo speculum ci costringe ben al di là del quadro patologico. Mentre ragionavo, dopo aver fatte mie le osservazioni sulla paziente, tolsi dall’oblio un recente versetto di Rilke sul tema. A memoria il verso diceva: Specchi: nessuno ancora con scienza ha descritto quale sia in voi l’essenza!

L’essenza dello specchio è una metafora dell’umano, questo dobbiamo riconoscere! E, come tale appartiene allo specchio il poter soffrire. Intuisco la domanda che repentina ne consegue: quale potrà mai essere la sofferenza dello specchio? Orbene, lo specchio per poter riflettere deve esser guardato. Esiste solo se lo si guarda. Ha bisogno di esser visto per poter essere. Comprendete quanta carica analogica con l’essere umano?  Quanti sono gli individui il cui loro essere dipende sostanzialmente dall’altro che lo deve riconoscere? Quanti sono propensi per l’apparire e non per l’essere? E, all’opposto, quanti riescono a sentire il loro valore anche nel buio, senza il riflesso guardato? Quanti soffrono per non essere riconosciuti dall’altro? Quanta la tristezza di uno specchio privato del suo poter riflettere?

Già! Quanto mistero si cela dietro lo specchio!

Non v’è alcun dubbio che Madame soffrisse  probabilmente  per un disturbo delirante causato da problemi nella corteccia cerebrale atta al riconoscimento dei volti. Ma detto questo, vorrei far rilevare al gentile lettore qualcosa che può esprimere una incertezza angosciosa sul senso di sé causata dalla riflessione dello specchio e ciò al di là di situazioni di natura demenziale. Cercherò di articolare al meglio la spiegazione.

Piaccia, dunque,  al lettore esser introdotto  sulla argomentazione per il tramite di un aneddoto tratto dallo stimabile dottor Freud. Aneddoto in cui l’Autore si narra in prima persona.

Ero seduto, solo, nello scompartimento del vagone-letto quando per una scossa più violenta del treno la porta che dava sulla toletta si aprì. Un signore anziano in veste di camera entrò nel mio scompartimento. Supposi che avesse sbagliato direzione entrando da me per un errore. Saltai sù con impeto per spiegarglielo e pregarlo di uscire immediatamente……Ma dopo essermi alzato, dopo pochi istanti, mi rimisi a sedere, sgomento di me stesso!

E’ agile il poter notare come il disconoscimento parziale e accidentale sia dovuto alla normale senilità.  Quando la vecchiaia grava, spesso si rifiuta l’immagine di se stessi. Siamo abituati a pensarci e dunque vederci secondo uno “schema” usuale ed avvertiamo d’improvviso una certa estraneità, una alterazione di quello  schema. Nasce da ciò un “turbamento”, qualcosa di non familiare, portato alla luce in modo decisamente poco opportuno.

Un estraneo sembra entrato in quel nostro spazio vitale. Certamente, se siamo sani di mente, ci riconosciamo ma ciò che vediamo non è qualcosa che osserviamo abitualmente. Generalmente noi non ci vediamo. La nostra figura non è qualcosa che frequentiamo attraverso lo sguardo ma che solo  presupponiamo. Improvvisamente, ecco che la nostra figura appare quale imago riflessa. Sono io;  è il mio “doppio”; o forse un estraneo?

Il termine del dottor Freud è un-heimlicht il cui significato si può descrivere come “non- familiare” ma anche nascosto, straniero a sé stesso.

Vorrei poter concludere queste brevi considerazioni con un avvertimento al lettore, in particolare a quello maggiormente gravato dagli anni ma ancor non completamente satollo di vita.

Dunque, potrei concludere così:  lo specchio nella senilità è l’angoscioso perturbante!  Reputo, pertanto, ottima terapia consigliare lo starne il più possibile alla larga fidando, ove necessiti, sulla reminiscenza dello schéma corporel che gelosamente ognuno di noi cela conservato nella memoria!

Dott. Giuseppe Coppelius, Milano 1923.

CARLO ALBERTO FALZETTI