UN CACHET!

di VALENTINA DI GENNARO ♦

Scrivo per mettere ordine, per ricordare, per immaginare. La penna sa diventare manifesto, ma anche confessione.  A volte è capace di passare da un posto del mondo ad un altro. Dalla sensibilità di un ricordo, al Matrix della vita quotidiana.

La mia è una famiglia di emicranici, la mia, di emicrania, si presenta spesso annunciata da un’aura visiva, sempre all’occhio destro, improvvisamente una parte della visuale si fa frammentata come pixel impazziti che circondano una parte del campo visivo. 

Se sono nella possibilità di prendere il medicinale, l’attacco si ferma, se non riesco ne subirò gli strascichi per circa tre giorni. 
La sensazione è quella di uno spillone conficcato forte che mi trafigge l’occhio e arriva al cervelletto. 
Anche mio padre soffriva di emicranie. 
E c’era un episodio che raccontava sempre con un mezzo sorriso, come si fa con quei ricordi che hanno dentro un po’ di stupore e un pizzico di leggenda.

Era un giorno qualsiasi, uno di quelli in cui il bar della mia famiglia si riempiva del solito rumore di tazzine, della macchina del caffè, del vapore, della carta per avvolgere le paste e chiacchiere tra conoscenti. A un certo punto entra lei — la brunetta dei Ricchi e Poveri. Sì, proprio lei, Angela Brambati. Occhiali scuri, passo deciso. Una presenza che, in quel bar, sembrava uscita direttamente da Sanremo per fare una pausa in mezzo a noi.

Mio padre si avvicina con un certo rispetto, ma anche con l’aria pratica di chi ha visto passare molta gente nel suo locale. E lei, con tono garbato ma diretto, chiede: «Avrebbe mica un cachet?».

A questo punto del racconto rimanevo sempre incuriosita. 
Ma perché “cachet” è una parola bellissima!
Mio padre non resta neanche un  attimo interdetto. Si guarda intorno. Sorride, certo.
«Un… cachet?» ripete
«Una pillola per il mal di testa. Sa, ho un’emicrania tremenda.»

E allora mio padre apre il cassetto sotto al registratore di cassa e le porge il rimedio.

Solo una scena semplice, da bar di provincia, in cui anche una voce da hit parade degli anni 80 chiede aiuto come farebbe chiunque, con la testa che pulsa e la gentilezza disarmata di chi entra in un luogo dove si spera di stare meglio.

Antonio lo raccontava come un piccolo aneddoto, ma io ogni volta ci vedevo qualcosa di più: la distanza tra i palcoscenici e la vita vera si misura in una bustina bianca da sciogliere in un bicchiere d’acqua.

Cachet è, infatti, una delle mie parole preferite, è il tasto “Esc” da situazioni e riunioni improbabili: “me devo annà a pià un cachet”.

È l’alibi elegante del disagio, la scialuppa discreta quando la nave affonda di chiacchiere inutili. Nessuno osa opporsi a un cachet: è inviolabile come un permesso firmato dalla realtà. Pronunciarlo, anche solo a mezza voce, è un atto di auto-salvataggio, una dichiarazione di sopravvivenza.

Mi basta l’idea. Il gesto. L’uscita di scena. Perché il corpo ha i suoi modi di raccontare che non ne può più, e io ho imparato ad ascoltarlo. Un brivido alle tempie, la stanchezza che mi pizzica sotto gli occhi, quella voglia sotterranea di sparire per un attimo. Non per debolezza, ma per dignità.

Ci sono giorni in cui sogno un mondo costruito come una scatola di cachet: piccola, portatile, sempre con me. Un mondo in cui sia normale dire “non ce la faccio” senza che questo significhi fallire. In cui escano di moda le performance e torni di moda il pudore del limite.

Me devo proprio annà a pià un cachet! 

VALENTINA DI GENNARO