UN CACHET!
di VALENTINA DI GENNARO ♦
La mia è una famiglia di emicranici, la mia, di emicrania, si presenta spesso annunciata da un’aura visiva, sempre all’occhio destro, improvvisamente una parte della visuale si fa frammentata come pixel impazziti che circondano una parte del campo visivo.
Era un giorno qualsiasi, uno di quelli in cui il bar della mia famiglia si riempiva del solito rumore di tazzine, della macchina del caffè, del vapore, della carta per avvolgere le paste e chiacchiere tra conoscenti. A un certo punto entra lei — la brunetta dei Ricchi e Poveri. Sì, proprio lei, Angela Brambati. Occhiali scuri, passo deciso. Una presenza che, in quel bar, sembrava uscita direttamente da Sanremo per fare una pausa in mezzo a noi.
Mio padre si avvicina con un certo rispetto, ma anche con l’aria pratica di chi ha visto passare molta gente nel suo locale. E lei, con tono garbato ma diretto, chiede: «Avrebbe mica un cachet?».
Mio padre non resta neanche un attimo interdetto. Si guarda intorno. Sorride, certo.
«Un… cachet?» ripete
«Una pillola per il mal di testa. Sa, ho un’emicrania tremenda.»
E allora mio padre apre il cassetto sotto al registratore di cassa e le porge il rimedio.
Antonio lo raccontava come un piccolo aneddoto, ma io ogni volta ci vedevo qualcosa di più: la distanza tra i palcoscenici e la vita vera si misura in una bustina bianca da sciogliere in un bicchiere d’acqua.
È l’alibi elegante del disagio, la scialuppa discreta quando la nave affonda di chiacchiere inutili. Nessuno osa opporsi a un cachet: è inviolabile come un permesso firmato dalla realtà. Pronunciarlo, anche solo a mezza voce, è un atto di auto-salvataggio, una dichiarazione di sopravvivenza.
Mi basta l’idea. Il gesto. L’uscita di scena. Perché il corpo ha i suoi modi di raccontare che non ne può più, e io ho imparato ad ascoltarlo. Un brivido alle tempie, la stanchezza che mi pizzica sotto gli occhi, quella voglia sotterranea di sparire per un attimo. Non per debolezza, ma per dignità.
Ci sono giorni in cui sogno un mondo costruito come una scatola di cachet: piccola, portatile, sempre con me. Un mondo in cui sia normale dire “non ce la faccio” senza che questo significhi fallire. In cui escano di moda le performance e torni di moda il pudore del limite.
Me devo proprio annà a pià un cachet!
VALENTINA DI GENNARO

Bello bello bello, questo elegante ricordo!
A mia volta ho un episodio: una ventina di anni fa entra nel negozio di abbigliamento di mia sorella…Bobby Solo per acquistare un paio di jeans e altro. Mio padre era lì, deferente si avvicina, tende la mano e fa:” Che piacere, signor Little Tony”…mia sorella voleva sparire!
Maria Zeno
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So che vuol dire soffrire di emicrania, una volta, eravamo in vacanza con degli amici, ne ho avuta una violentissima, anche i miei amici erano preoccupati vedendo come stavo male. L’ emicrania si risolveva solo facendo delle iniezioni di acupan, ma non me le ero portate. Andrea, mio marito corse a prenderla in farmacia. In genere appena dopo un minuto o due faceva effetto, ma stavolta occorse più tempo ed ero disperata. Quando comincia a stare meglio, mi sembrò di resuscitare, mi rimisi in ordine, un po’ di trucco e tornai dai miei amici così felice perché non c’è niente di più bello di sentirsi bene,
Bianca Siotto
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io feci l’opposto ad una festa di carnevale al cinema di Canino; suonava Little Tony e gli chiesi di suonare una lacrima sul viso😂😂😂😂😂
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“Si proibisce nel modo più assoluto, perentorio, immediato che parole straniere e barbare possano contaminare la purezza, la dantesca, la mirabile lingua dell’italica razza. Pertanto, si ordina in caso di richiesta urgente di emicrania di rivolgere la disperata richiesta al farmacista con il termine “cialdino”obliando in modo definitivo il termine gallico “cachet”.
Ruminando qua e là si viene a scoprire che cachet è derivato dal latino madre della italica lingua. Il cui significato è il comprimere, il far soffrire. Difatti “lettre de cachet” significa avviso di imprigionamento.
Se la signora Angela chiedeva fascisticamente il cachet a tuo padre di certo le avrebbe servito la richiesta con o senza gelato.
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Oddio, la richiesta di un cachet da parte di un personaggio dello spettacolo avrebbe potuto indurre preoccupanti fraintendimenti.
Questo è il guaio dei termini polisemantici.
Ettore
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Mai sofferto di vere emicranie, tranne quella volta all’esame di psicologia dello sviluppo. Lì ho conosciuto il dolore e non era solo emotivo. Fu anche la prima e unica volta in cui l’algida professoressa mi fece i complimenti per la mia sorprendente capacità di arrampicarmi sugli specchi.
Valentina ha il dono di scrivere con una precisione fotografica che accarezza invece di ferire. Le sue parole hanno il potere di trasformare un cachet in una poesia e una fitta alla tempia in un racconto di umanità.
E sì, sogno anche io un mondo in cui si possa dire non ce la faccio senza dover chiedere scusa. In cui arrampicarsi sugli specchi non sia un atto disperato ma la prova che si sta ancora provando. Perché c’è dignità anche nella sconfitta e bellezza nei gesti piccoli che ci salvano. Come sciogliere una bustina in un bicchiere d’acqua.
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