Una riflessione tra città, educazione e giustizia sociale
di VALENTINA DI GENNARO ♦
Nel corso del Novecento, la “periferia” si è imposta come parola chiave del lessico urbano, sociale e politico. Ma è molto più di una porzione geografica marginale: è il risultato concreto delle scelte urbanistiche, dei modelli economici e delle disuguaglianze che hanno attraversato le città europee, soprattutto nel secondo dopoguerra. Parlare di periferie significa interrogarsi su cosa sia stato — e cosa possa ancora essere — il progetto collettivo di una città giusta. E qui entra in gioco anche la pedagogia, che non è solo pratica scolastica ma anche visione di mondo.
Le periferie urbane europee si sono sviluppate prevalentemente a partire dagli anni ‘50 e ‘60 come risposta alla necessità di ospitare le masse migranti interne che dalle campagne si spostavano verso i poli industriali. I quartieri popolari — spesso realizzati in tempi rapidi e con materiali poveri — hanno assunto rapidamente le sembianze di “non-luoghi”: privi di servizi, isolati dal centro, trascurati da chi governa. Sono spazi spesso segnati da un’urbanistica autoritaria, che ha privilegiato la funzionalità abitativa rispetto alla qualità della vita e alle relazioni sociali.
Ma se è vero che le periferie sono figlie di un’urbanizzazione accelerata e talvolta violenta, è altrettanto vero che esse si sono trasformate in laboratori di resistenza, mutualismo e creatività. E soprattutto, in luoghi in cui si è posta con urgenza la domanda: chi ha diritto alla città?
Contro il paradigma della marginalità, si è affermata a partire dagli anni ‘70 una riflessione sull’urbanesimo sociale, che non guarda solo alla città come spazio fisico ma come tessuto vivo di relazioni, comunità, apprendimenti e identità.
L’urbanesimo sociale pone al centro la partecipazione degli abitanti, la cura dei beni comuni, l’accessibilità ai servizi e la trasformazione educativa del territorio. In questa prospettiva, l’urbanistica diventa uno strumento di emancipazione: non basta costruire case, bisogna costruire relazioni. Non basta pensare spazi, bisogna pensare pratiche.
Le scuole, le biblioteche di quartiere, i centri civici, i cortili e i giardini diventano allora elementi di una nuova mappa urbana: una città che educa è una città che ascolta, che accoglie, che distribuisce opportunità, che riconosce e valorizza le differenze.
La pedagogia non è estranea a questa trasformazione. Anzi, nel pensiero di autori come Paulo Freire, Danilo Dolci, Lorenzo Milani e più recentemente Franco Lorenzoni o Carla Rinaldi, l’educazione è profondamente legata alla dimensione spaziale e comunitaria.
L’educazione non è neutra, scriveva Freire. E neppure lo è l’urbanistica. Entrambe possono contribuire a riprodurre disuguaglianze o a scardinarle. La pedagogia urbana nasce proprio da questa consapevolezza: educare in periferia non significa colmare una mancanza, ma partire da un sapere situato, da un’identità plurale, da una memoria collettiva.
Le periferie, con la loro complessità e densità, diventano così luoghi pedagogici. Luoghi dove si impara la resilienza, la convivenza, la necessità di organizzarsi. Dove i bambini crescono tra contraddizioni, ma anche con la possibilità di sviluppare un forte senso di comunità educativa.
Molte sono le esperienze europee che testimoniano un’altra idea di città: il progetto delle Cités éducatives in Francia, i Patti educativi di comunità in Italia, le Scuole aperte di Barcellona, le reti civiche di Marsiglia e i presidi educativi nei quartieri popolari di Roma e Milano. In tutte queste esperienze emerge un principio fondamentale: l’educazione è responsabilità collettiva e il territorio è parte integrante del percorso formativo.
Nella periferia, il cortile di un centro sociale può valere quanto un’aula; un laboratorio teatrale o una web radio di quartiere possono diventare spazi di parola per chi altrimenti non ne ha. L’educazione si fa così strumento di cittadinanza, inclusione, consapevolezza.
Per restituire dignità alle periferie non basta riqualificarle con interventi estetici o con grandi eventi simbolici. Serve un cambio di sguardo: smettere di leggere questi territori come luoghi del deficit e iniziare a considerarli per quello che sono davvero — aree di produzione culturale e sociale, spazi di sperimentazione e comunità in atto.

Le città del futuro — e del presente — hanno bisogno di una pedagogia urbana capace di ascoltare, di una politica che metta al centro i bisogni reali degli abitanti e di una progettazione partecipata che riconosca il valore educativo dello spazio urbano. In questo senso, le periferie non sono il problema: possono essere la soluzione.
VALENTINA DI GENNARO

Oggi c’è un approccio diverso nel considerare le periferie che consiste nel considerarle come “ centro allargato” quindi con tutto il carico reale e simbolico che ha il centro.
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OTTIMO SPUNTO DI RIFLESSIONE E ATTENZIONE DA PARTE DI UNA CONSIGLIERA COMUNALE E LA RISPOSTA STA NEL TEMA DELLA RIGENERAZIONE URBANA : TEMA DA APPROFONDIRE COME QUESTIONE DI EDILIZIA MA APPROCCIO DI INTERESSE DI PEDAGOGISTI, OPERATORI CULTURALI ,ECONOMICI,POLITICI E SOPRATTUTTO UNA AZIONE DAL BASSO CHE VEDA I CITTADINI COINVOLTI NEL “RIGENERARE”Il TESSUTO URBANO
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