Israele–Iran: la guerra cambierà il regime?
di PAOLO POLETTI ♦
Il momento dell’escalation.
Il 13 giugno 2025, Israele ha lanciato l’operazione Rising Lion, la più ampia offensiva militare diretta contro l’Iran mai condotta. Missili, droni e squadre speciali hanno colpito più di cento siti nucleari e militari: dalle centrali di Natanz e Fordow, a laboratori sotterranei e quartier generali dei Pasdaran. I bersagli includevano anche comandanti di alto rango, scienziati e tecnici strategici, eliminati con attacchi chirurgici.
Perché proprio ora? La decisione israeliana di colpire è maturata all’incrocio tra urgenza strategica e opportunità politica. Da un lato, le intelligence occidentali segnalavano un’accelerazione del programma nucleare iraniano, con stime che indicavano un possibile completamento tecnico dell’arma entro pochi mesi. Gerusalemme ha ritenuto che fosse l’ultima finestra utile per degradare le capacità nucleari iraniane prima che queste diventassero intoccabili o richiedessero un conflitto su scala più ampia.
Dall’altro lato, l’attacco ha risposto anche a motivazioni politiche interne. Il premier Benjamin Netanyahu, sotto pressione dopo la gestione fallimentare degli eventi del 7 ottobre 2023, ha trovato in questa offensiva una leva per ricostruire il proprio prestigio come difensore della nazione. Il contesto internazionale ha inoltre fornito una copertura tattica: i negoziati sul nucleare erano già bloccati, e l’Iran era stato recentemente coinvolto in una serie di provocazioni regionali (attraverso Hezbollah, Houthi e milizie sciite in Iraq) che ne avevano compromesso l’immagine diplomatica.
Infine, secondo quanto riportato da Financial Times e Corriere della Sera, entrambi i Paesi stavano operando con risorse militari limitate: Israele temeva di non poter sostenere a lungo un’escalation convenzionale prolungata, mentre l’Iran aveva già subito perdite logistiche nei raid precedenti. Da qui l’urgenza di colpire rapidamente, con massima efficacia.
La lunga ombra del Mossad.
Il successo dell’attacco israeliano non è dovuto solo alla forza militare pura. È il risultato di anni di infiltrazione e preparazione. Il Mossad ha penetrato le reti logistiche iraniane, impiantato dispositivi di ascolto e costruito una rete di collaboratori all’interno di strutture strategiche. Tecnologie miniaturizzate, agenti dormienti, droni da sorveglianza e finte imprese civili hanno permesso l’acquisizione continua di intelligence.
Le operazioni sono state coordinate da unità d’élite del Sayeret Matkal[1] e supportate da software di sorveglianza predittiva. Israele ha di fatto replicato, su scala più ampia, il modello usato per l’eliminazione dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh nel 2020.
Starlink e satelliti: la guerra vista dallo spazio.
Un elemento decisivo dell’offensiva israeliana è stato l’uso della rete satellitare Starlink, sviluppata e gestita dall’azienda statunitense SpaceX, fondata da Elon Musk.
Israele ha iniziato a usare Starlink in modo selettivo e riservato a partire da novembre 2024, grazie a un’intesa tecnica con Washington e SpaceX, per assicurare connettività criptata e resiliente in zone critiche come il sud del Paese, il Golan e la Striscia di Gaza. Questo accesso ha permesso di integrare le comunicazioni militari con droni ISR (Intelligence, Surveillance, Reconnaissance) e comandi mobili.
Nel giugno 2025, in concomitanza con l’attacco all’Iran, l’accesso è stato ufficialmente ampliato a tutti i teatri operativi esterni, compresi lo spazio aereo iracheno, il Golfo Persico e l’area iraniana di confine. Israele ha così ottenuto copertura Starlink completa anche fuori dai propri confini, potendo coordinare in tempo reale operazioni offensive ad alta complessità.
Starlink, grazie a una costellazione di oltre 5.000 satelliti in orbita bassa, garantisce connessione internet a banda larga, stabile e criptata, anche in ambienti privi di infrastrutture terrestri o sottoposti a disturbo elettronico.
Per Israele, ciò ha significato:
– comunicazioni sicure e resilienti, aggirando il jamming elettronico iraniano;
– feed video ad alta risoluzione da droni d’attacco e da ricognizione;
– comando distribuito, con sincronizzazione in tempo reale tra centri decisionali e operativi sul campo.
In parallelo, i satelliti israeliani Ofek e i sistemi SAR (radar ad apertura sintetica) hanno fornito immagini multispettrali, rendendo possibile il tracciamento di obiettivi mobili e la pianificazione di attacchi su base algoritmica. L’integrazione tra tecnologia spaziale e intelligenza artificiale ha di fatto trasformato l’intero territorio iraniano in un ambiente sorvegliato 24/7.
La guerra tecnologica: cosa distingue Israele e Iran.
Mentre l’Iran ha risposto con droni Shahed e missili balistici Zolfaghar, Israele ha mostrato un arsenale qualitativamente superiore. Di seguito un confronto strutturato:
| Categoria | Israele | Iran |
| Droni da attacco | Impiega Heron TP, Harop, SkyStriker – droni autonomi capaci di colpire obiettivi in movimento con testate da 30 a 250 kg, utilizzando AI per il targeting. | Fa largo uso di Shahed-136 e Mohajer-6 – droni kamikaze, meno manovrabili e spesso abbattuti prima di raggiungere il bersaglio. |
| Cyberwarfare | Le unità 8200 e Talpiot sviluppano malware avanzati per sabotare reti industriali e SCADA. Hanno già colpito il nucleare iraniano (es. Stuxnet). | Impiega gruppi come APT42 e Emennet Pasargad, focalizzati su attacchi distruttivi e disinformazione, ma con penetrazione limitata nei sistemi israeliani. |
| Missili e difesa aerea | Sistema multilivello Iron Dome – David’s Sling – Arrow 3, in grado di intercettare droni, razzi e missili balistici con successo >90%. | Batterie S-300 russe e sistema autoctono Bavar-373, con copertura irregolare e capacità di intercettazione limitata, soprattutto contro attacchi simultanei. |
| Comunicazioni e comando | Usa Starlink e reti criptate terrestri/satellitari, mantenendo continuità operativa anche in ambienti sottoposti a disturbi o blackout. | Sistema di comando più centralizzato, basato su reti terrestri e radio, vulnerabile a sabotaggi e jamming. |
| Uccisioni mirate | Integra biometria, riconoscimento facciale e tracciamento GPS per colpire obiettivi umani di alto valore con microdroni o missili di precisione (Spike, Rampage). | Si affida a proxy esterne (Hezbollah, Hamas) per eliminazioni mirate, con scarsa precisione e frequenti vittime collaterali. |
Le conseguenze economiche globali.
Oltre agli aspetti militari e politici, l’offensiva israeliana ha avuto ripercussioni immediate sull’economia globale, in particolare sui mercati energetici e finanziari occidentali. Il prezzo del petrolio Brent è salito fino al 13%, portandosi sopra gli 80 dollari al barile. La possibilità che il conflitto si estenda allo Stretto di Hormuz, da cui transita un quinto del petrolio mondiale, ha fatto aumentare il premio al rischio su tutte le rotte mediorientali.
Le borse europee e asiatiche hanno registrato perdite tra lo 0,5% e l’1,5%, mentre il dollaro, i metalli preziosi e i titoli di Stato USA sono saliti, segno di un movimento di capitali verso asset ritenuti più sicuri. Le compagnie aeree hanno iniziato a evitare lo spazio aereo di Israele e Iran, con impatti su logistica e costi di trasporto.
Sul piano macroeconomico, si teme l’innesco di una nuova fase stagflattiva: cioè inflazione alta con crescita rallentata. Secondo stime dell’IMF e di Goldman Sachs, se il conflitto dovesse protrarsi e interessare direttamente le infrastrutture energetiche del Golfo, il petrolio potrebbe arrivare a 120-130 dollari al barile, generando rincari a catena su trasporti, manifattura e beni di consumo.
Le banche centrali occidentali, che avevano previsto tagli dei tassi a partire dalla seconda metà del 2025, sono ora costrette a rivedere i propri piani. BCE e Federal Reserve, in particolare, temono che un aumento dell’inflazione energetica possa vanificare i progressi ottenuti nel biennio precedente.
Un regime change improbabile.
Nonostante i raid israeliani abbiano eliminato numerosi generali, tecnici e vertici delle Guardie della Rivoluzione, il cuore del potere iraniano – rappresentato dalla Guida Suprema, dal Consiglio dei Guardiani e dall’apparato clerico-militare – resta intatto. Il regime è logoro, ma non abbastanza instabile da rendere realistico un colpo di stato. Anzi, la percezione di un’aggressione esterna ha ricompattato l’élite, rafforzando la narrativa dell’Iran assediato e legittimando il potere teocratico agli occhi della popolazione.
Va inoltre ricordato che tutti i tentativi recenti di rovesciare regimi autoritari dall’esterno – dall’Afghanistan alla Somalia, passando per le primavere arabe – hanno prodotto risultati deludenti, se non disastrosi. In questo caso, l’eliminazione di comandanti e scienziati potrebbe aver mutilato l’apparato militare iraniano, ma non ne ha compromesso la stabilità strutturale. Le istituzioni del regime restano saldamente ancorate al territorio, ideologicamente coese e sorrette da meccanismi di controllo e repressione ben oliati.
Conclusione: superiorità sì, ma non risolutiva.
L’operazione Rising Lion ha confermato che Israele detiene una superiorità militare e tecnologica schiacciante rispetto all’Iran: la capacità di colpire a distanza, infiltrare strutture chiuse, gestire attacchi in tempo reale attraverso intelligenza artificiale e reti satellitari rappresenta un salto qualitativo nel modo di fare guerra. Tuttavia, proprio questa potenza evidenzia un paradosso: si possono eliminare obiettivi, distruggere infrastrutture, paralizzare comandi, ma non si può cambiare un sistema politico con un drone.
L’illusione che l’efficienza tecnologica basti a ottenere un risultato strategico è smentita dai fatti. Gli strumenti militari odierni sono formidabili nella distruzione, ma incapaci di costruire legittimità o governabilità. Non basta dominare lo spazio aereo e informativo se non si accompagna la forza con un progetto politico credibile. La guerra del 2025 ci ricorda che la supremazia tecnica non è sinonimo di vittoria: oggi, più che mai, vincere le battaglie non significa vincere la guerra.
PAOLO POLETTI

Ringrazio per questa analisi rigorosa e tanto diversa dai toni fra l’ammiccante ed il trionfakistico di tanta stampa che ancora crede che la democrazia sia esportabile .
Maria Zeno
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