Qualche riflessione (preoccupata) sul referendum  

di NICOLA R. PORRO ♦

L’appuntamento elettorale che ai primi di giugno ha interessato cinque referendum, tredici ballottaggi amministrativi e sette elezioni comunali in Sardegna, impone riflessione. Occorre ovviamente muovere dal mancato, sebbene previsto e prevedibile, raggiungimento del quorum relativo ai cinque referendum. Il comportamento elettorale dei votanti – poco più del trenta per cento degli aventi diritto – è stato compatto e gli esiti hanno presentato differenze insignificanti nelle risposte ai diversi quesiti. Poco più di quattordici milioni di aventi diritto, tuttavia, hanno rinunciato a esprimere il proprio voto. Nella circoscrizione estero il valore medio è inferiore al tredici per cento, con una partecipazione maggiore da parte dei residenti in Sudamerica (ha votato quasi un terzo degli aventi diritto) mentre i residenti in Paesi europei risultano sotto la soglia del venti per cento.

In Italia, invece, la partecipazione sul territorio si presente assai variabile. Valori minimi, meno di un quarto dei potenziali elettori, in Trentino-Alto Adige, Sicilia e Calabria mentre Toscana, Emilia-Romagna e Piemonte risultano le regioni con più elettori alle urne, senza però che nessuna superi il 49%. Le regioni “di sinistra” si confermano le più inclini alla partecipazione ma va osservato come i quesiti sul lavoro abbiano ottenuto risultati assai omogenei riscuotendo dodici milioni di voti (88.3% dei voti validi). In materia di cittadinanza, invece, hanno votato  nove milioni di aventi diritto, vale a dire meno dei due terzi dei votanti. Il voto sulle tematiche del lavoro è perciò risultato meno “divisivo” del previsto mentre quello sulla cittadinanza ha comunque superato il 68% dei consensi.

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È interessante osservare come il voto si sia differenziato in ogni regione soprattutto nel rapporto fra centro (città capoluogo) e periferia (altri comuni). In materia di cittadinanza, la differenza a favore dei  fra capoluogo e comuni minori è abbastanza marcata nelle Regioni a statuto speciale. In  Trentino – Alto Adige nel capoluogo si raggiunge il 73.8% di consensi e nella regione nel suo insieme appena il 60.1%.  Analogo il caso emiliano-romagnolo con Bologna al 77.6% e la regione al 64.3.  La Liguria, e ancor più la Calabria, presentano invece valori assai uniformi fra capoluoghi e rispettive regioni. Nell’insieme, tuttavia, si osserva una forbice fra consenso alle questioni del lavoro e adesione a quelle della cittadinanza. Non pochi elettori, infatti, hanno diversificato il voto in relazione a tali tematiche. Il voto amministrativo – ballottaggi in tredici comuni con popolazione superiore a 15mila abitanti – mostrano un discreto successo dei partiti di opposizione al governo. A consuntivo, l’opposizione parlamentare porta infatti a casa al primo turno comuni importanti come Genova e Ravenna, mentre al secondo turno conquista Taranto. Fra i capoluoghi di provincia, solo a Matera prevalgono le forze di governo nazionale mentre a Nuoro, dove si votava a turno unico, vince l’opposizione. Da notare come la partecipazione al voto risulti significativamente più alta nei comuni chiamati ai ballottaggi rispetto a quelli dove si votava solo per i referendum.

Il voto non aveva ricadute dirette sul terreno legislativo ma ciò non impedisce qualche osservazione a più ampio raggio. La prima riguarda la questione del quorum: si va consolidando l’appello esplicito all’astensione come strumento di azione politica. L’invito a invalidare il voto è divenuto una prassi usata senza pudore e infingimenti. Va poi ricordato che da ben quattordici anni nessun referendum abbia raggiunto il quorum. Ciò dovrebbe suggerire qualche riflessione sui mutamenti morfologici dell’elettorato considerando che gli anziani rappresentano la maggioranza relativa degli aventi diritto al voto. Allo stesso tempo, è evidente una metamorfosi politico-culturale a raggio europeo per cui il voto è sempre più percepito come una libera scelta dell’elettore, del tutto priva di qualche forma di obbligazione etica o ideale. I promotori sono così quasi sempre battuti da chi usa l’astensione per evitare qualsiasi cambiamento. La seconda questione critica riguarda le conseguenze della consultazione essendo evidente come la legge non possa essere oggetto di modifiche in tempi accettabili.

L’opposizione non esce bene dalla vicenda referendaria, che oltretutto ha oscurato i discreti risultati conseguiti nel voto amministrativo. È anche da approfondire il massiccio astensionismo del voto estero. Si è trattato di un caso di maturità (non voto perché sulle questioni nazionali è giusto decidano solo i residenti in patria) oppure siamo in presenza di un crescente disinteresse per le vicende politiche del Paese d’origine? Stupisce, ad esempio, che il referendum sulla cittadinanza segnali un autentico fiasco nel voto estero mentre è risultato ovunque difficile persuadere l’elettorato più informato ad abrogare normative varate dal centrosinistra. Anche i dati relativi alla partecipazione meritano attenzione. Quattordici milioni di votanti non sono poca cosa, soprattutto se compariamo il dato con quello dei referendum tenuti in altri Paesi. Lascia però perplessi la strategia dei promotori. Se l’intenzione era quella di sostenere e rinforzare i diritti in materia di lavoro subordinato il risultato è obiettivamente preoccupante. E non è rassicurante soprattutto la risposta al quinto quesito, quello più “politico” in materia di cittadinanza. Se invece i promotori intendevano fare del referendum l’occasione per sviluppare una campagna di più lungo periodo in materia di diritti e non solo di cittadinanza, è comprensibile che una parte dell’elettorato abbia avuto la percezione di un’iniziativa strumentale e abbia imboccato la via dell’astensione. In ogni caso credo che una seria riflessione da parte di promotori e sostenitori sia necessaria e urgente.

NICOLA R. PORRO