“AGORÀ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI – FAIR PLAY (prima parte)
di STEFANO CERVARELLI ♦
Oggi, secondo me, lo sport sta attraversando una profonda crisi di identità; forte è alla tendenza di puntare all’affermazione immediata e di conseguenza ad essere “soffocati” nell’angoscia del tempo che, scorrendo sempre più veloce, ti lascia indietro stravolgendo quelli che sono i suoi “ritmi” naturali.
Questo vortice, nel quale a 18-20 anni rischi già di essere tagliato fuori, fa sì che si faccia sempre più ricorso a sistemi, modi e metodi lontani dallo spirito vero dello sport, con il ricorso sempre più spesso, anche a sistemi non propriamente rispettosi dell’avversario.
Potremmo limitare la nostra preoccupazione se non fosse per il fatto che molti episodi “di brutto sport” avvengono sui campi dove si svolge attività minore, dilettantistica o, peggio ancora, giovanile. Sono proprio le notizie provenienti da questo mondo che ci devono far riflettere, sulla concezione attuale dello sport come sistema educativo.
Se da qualche parte il problema va affrontato, io ho pensato di porre all’attenzione un aspetto educativo, un tipo di rapporto (specie tra atleti) del quale sembra essersi perse le tracce, a giudicare da quanto avviene non solo sui campi sui ma anche sulle tribune, dove trovano posto l genitori dei ragazzi.
Dobbiamo tornare a un’idea di sport frutto di un lavoro educativo e formativo del quale i primi responsabili sono da individuare nelle persone proprio più vicine ai giovani atleti: genitori, allenatori, istruttori e dirigenti.
Parlo del Far play.
Un grande giornalista una volta definì il Fair play come un “sorta di religione dello sport. Una fonte primigenia del rispetto dell’avversario” e ancora “ voce spirituale che da dentro suggerisce cosa fare e che, quindi, non può diventare una norma di regolamento da gestire al pari, tanto per esempio, del fuorigioco”.
In pratica il Fair play, secondo questa interpretazione che condivido, sfugge e non può essere sottoposto a regole codificate, in quanto trattasi di libera e personalissima scelta, frutto quindi di un appropriato percorso educativo.
Però attenzione: non voglio dire che quei giovani che, per svariati e anche sfortunati motivi, siano stati privati di persone educative, non abbiano coltivato dentro di loro quello spirito: il rispetto, la generosità ed altruismo che poi nello sport, ma anche nella vita – perché no? – si tramuta in un comportamento facilmente riscontrabile nel termine Fair play.
Ma cosa vuol dire Fair play?
Vuol dire gioco bello, onesto, leale.
Ma cosa vuol dire gioco?
Quando parliamo di gioco si dovrebbe intendere, oltre il naturale divertimento, “mezzo di educazione, di sport, di scuola”.
Già..sport e scuola: che bello se i due principali sistemi educativi procedessero insieme lungo stessa strada! E per insieme intendo dire che le due istituzioni, scolastica e sportiva, procedessero sulla base di programmi comuni, fondendosi in unico sistema formativo.
Ma questo è un’ altro discorso, torniamo al Fair play.
Sport vuol dire attività svolta senza esserne costretti, perché restando al termine letterale della parola, ne si trae diletto, divertimento: vale a dire tipica attività svolta nella massima libertà.
Quindi, partendo dal presupposto che la scuola ha tra i suoi compiti primari, se non proprio il primario, la formazione nei ragazzi del discernimento, la capacità di sviluppo del pensiero al fine di renderli liberi ecco che la scuola dovrebbe insegnare anche a fare sport.
Dovrebbe far capire, insegnare insomma, che il gioco diventa educativo proprio perché si muove attraverso il rispetto delle regole, sia che siano scritte o no, consolidandone la cultura e la civiltà, elementi che dispiace vedere molto trascurati nel momento agonistico.
Ma come si fa, appunto, a mantenere il Fair play sapendo che lo sport è competizione, concorrenza?
E come mantenere il divertimento nella competizione, nella concorrenza?
Partiamo dall’idea che quando ci confrontiamo con altri ci si impegna per emergere in una gara libera, che abbiamo liberamente scelto, alla quale nessuno ci ha costretto.
Palese che quando si gioca è bello confrontarsi se abbiamo un avversario sul quale prevalere: questo è il significato dello sport fin dall’origine.
Dunque competizione. Ma cosa vuol dire competere?
La definizione è nel significato dello stesso termine: tendere (petere) insieme (cum) allo stesso fine.
Correre insieme per vincere una gara, per fare un esempio, consiste nel cercare, ovviamente, di correre più velocemente per raggiungere il fine, cioè la vittoria.
Questo è lo sport: competizione concorrenza ma tenendo ben presente questo di significato, che è esattamente l’opposto di violenza. Perché?
Perché violenza non è gareggiare, correre insieme per lo stesso fine, ma bensì considerare l’avversario un acerrimo antagonista posto sulla strada della mia affermazione; uno che sta lì per impedirmi di raggiungere il mio fine assoluto, la vittoria.
Lo devo quindi battere, in qualsiasi modo e quindi non gareggio con lui nel rispetto del fine comune che dovrebbe portarmi, guidarmi, ad osservare le regole, per concludere: nel rispetto, del Fair play.
Qui c’è la differenza tra una gara violenta, che nega lo sport e il concetto stesso di competizione, di sport, scuola di vita.
STEFANO CERVARELLI (segue)

Caro Stefano, in latino la parola” ludus” significa sia “gioco” sia “scuola “nel senso delle nostre elementari,l’inizio degli studi…e la parola ludus si accompagnava nell’accezione propria all’aggettivo “litterarius”, il gioco delle parole, delle lettere dell’alfabeto. Bello,no? Il gioco come nobile esercizio della mente, l’apprendimento come sport della vita. E in greco? In greco da gymnazo derivano sia la nostra “ginnastica” sia la parola “ginnasio”, l’ormai caduto termine che designava il biennio del liceo classico.
Questo piccolo gioco etimologico è per ribadire come attività fisica e mentale siano connesse e come sia importante il gioco, il ludus, necessario come svago e come apprendimento. Già, perché la mente apprende bene se si svaga, si diverte, se prova piacere. Così come lo sport, che è fai play solo se lo si spoglia dell’aggressività cattiva , quella che vuol colpire ed umiliare l’avversario.
E qui mo fermo perché il verbo ” umiliare” mi fa tornare in mente un “certo” 5-0…ahimè. Ma ci siamo “umiliati”da soli, nell’essere interisti incombe sempre una certa voluptas dolendi, per dirla alla Petrarca.
Maria Zeno
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*correggo: fair play, non “fai”…
Maria Zeno
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