“Pesci, pescatori, pescivendoli e consumatori”. – Non solo pescato! Al convegno sui prodotti da forno della tradizione locale -8.
di GIORGIO CORATI ♦
RIPRESO.*
Ettore, Marta, Sandro e Giorgio partecipano con interesse al convegno sui prodotti da forno della tradizione civitavecchiese organizzato da un’Associazione locale.
Mario: “Buone vero!? Buone le “fave da morto” della “sora” Rosa! Il nome è un termine tipico civitavecchiese. Si tratta di una variante dello stesso tipo di dolce noto come “fave dei morti” che presenta, però, delle proprie particolarità… lo abbiamo anche potuto notare assaggiandole.
La tradizione civitavecchiese vuole che le “fave”, chiuse in un sacchetto di carta, siano fatte trovare ai bambini sotto il proprio cuscino, la mattina del 2 novembre Giorno dedicato a morti, dicendo loro che sono un dono portato dai propri defunti. Si tratta di un rito vissuto serenamente dai bambini, con gioia e lungi dall’essere considerato come un rito macabro.
Possiamo ipotizzare che “fava da morto” sia una variazione di “fava dal morto” e che con “dal morto” ci si intenda riferire con vero sentimento a un familiare defunto dal quale, appunto, ci si attende, per così dire, un cenno che si realizza, di fatto, tramite un suo dono…
Alcuni le chiamano “Fave dolci”, così come le nomina Pellegrino Artusi alla ricetta 622 nel suo famosissimo Manuale pratico dal titolo La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene.1
Ecco quanto possiamo leggere, aiutati dal nostro amico Domenico.
Dal pubblico echeggiano lievi degli applausi.
Domenico: “Buonasera… Dal Manuale pratico di Pellegrino Artusi, leggo:
«Queste pastine sogliono farsi per la commemorazione dei morti e tengono luogo della fava baggiana, ossia d’orto che si usa in questa occasione cotta nell’acqua coll’osso di prosciutto. Tale usanza deve avere la sua radice nell’antichità più remota poiché la fava si offriva alle Parche, a Plutone e a Proserpina ed era celebre per le cerimonie superstiziose nelle quali si usava. Gli antichi Egizi si astenevano dal mangiarne, non la seminavano, né la toccavano colle mani, e i loro sacerdoti non osavano fissar lo sguardo sopra questo legume stimandolo cosa immonda. Le fave, e soprattutto quelle nere, erano considerate come una funebre offerta, poiché credevasi che in esse si rinchiudessero le anime dei morti, e che fossero somiglianti alle porte dell’inferno.
Nelle feste Lemurali si sputavano fave nere e si percuoteva nel tempo stesso un vaso di rame per cacciar via dalle case le ombre degli antenati, i Lemuri [cioè le anime dei morti] e gli Dei dell’inferno.
Festo pretende che sui fiori di questo legume siavi un segno lugubre e l’uso di offrire le fave ai morti fu una delle ragioni, a quanto si dice, per cui Pitagora ordinò a’ suoi discepoli di astenersene; un’altra ragione era per proibir loro di immischiarsi in affari di governo, facendosi con le fave lo scrutinio nelle elezioni»…
Grazie”.
Mario: “Benissimo!… Grazie Domenico… Nel proseguire, vorrei anticipare e parlare da subito dell’unico dolce tipico di cui parleremo stasera… le “frittelle di riso di San Giuseppe”.
Vi mostro una foto… ecco!
Le “frittelle di riso San Giuseppe” vengono preparate per celebrare la ricorrenza del 19 marzo, giorno dedicato a San Giuseppe, in occasione della “Festa del papà”. Qui da noi sono considerate tra quelle preparazioni tradizionali, a cui difficilmente un civitavecchiese può rinunciare. Fanno parte di quei dolci che insieme ad altri prodotti identificano la città in modo univoco. È notorio, in questo senso, che prodotti similari del Lazio e di altre regioni italiane, come ad esempio le zeppole e i bignè di San Giuseppe, differiscano dalle nostre “frittelle”, fatte salve le zeppole di riso siciliane, proprio per l’uso del riso. Comunque, spesso le “frittelle” sono dette più semplicemente “frittelle di San Giuseppe”… Lascio ora la parola alla “sora” Rosa”.
“sora” Rosa: “Grazie. Caro… Bene… Le “frittelle di riso di San Giuseppe” sono delle morbide e gustose “polpettine” di riso fritte, tanto ricche di sapore quanto irresistibili al palato… ecco! Vediamo un po’… Vi dico come le preparo in casa… Innanzitutto cuocio il riso in acqua leggermente salata, ma a volte nel latte… cosa posso dirvi… per me la cottura nel latte è una variante… Bene, cari… Ecco… All’amalgama ottenuta dalla cottura, aggiungo della ricotta di pecora, un po’ di zucchero, un po’ di farina, dell’uovo… poco poco di rum a mio piacere… e dell’uva sultanina o di uva passa… quella che ho, insomma… e anche un po’ di cannella… sono così inconfondibili al palato. Le “frittelle” fatte così sono buonissime!.. Una variante è l’aggiunta di scorza di limone grattugiato, che secondo me non guasta” e sorride mentre la pelle liscia del suo volto raggrinzisce un poco. “Questi ingredienti vanno amalgamati in modo tale da formare delle “polpettine”, morbide… come dicevo… Per farlo, utilizzo o un mestolo o un cucchiaio che mi è d’aiuto anche per friggerle in padella nell’olio di semi. A cottura ultimata, le “infarino” nello zucchero e poi chiamo i miei nipoti per l’assaggio”; sul suo volto appare l’espressione di un sorriso materno. “È una festa!…”
Mario: “Sono una delizia per il palato!”
Uno scroscio di applausi echeggia in sala.
Mario: “Una “frittella” tira l’altra!… Bene… Ricordo quanto mi ha raccontato un mio amico su quanto accadeva un tempo alla Nona. Ricordate la Nona… il palazzo quartiere?. Si… il vecchio palazzo storico della Nona o meglio, per chi non lo conoscesse, un caseggiato di forma quadrata, all’interno del quale sul grande cortile si affacciavano numerosi i ballatoi… Non esiste più! Il palazzo dava il nome al piccolo quartiere circostante che tutt’ora invece esiste… Ebbene, voglio dirvi quanto mi raccontava il mio amico… La vita all’interno del palazzo si svolgeva un po’ come in un piccolo quartiere. In attesa del giorno dedicato a San Giuseppe, gli abitanti del vecchio palazzo erano soliti preparare una festa che richiedeva giorni e giorni di preparazione, preparando un’infiorata realizzata con fiori di carta artigianali e rami vegetali utili per adornare l’intero caseggiato. Oltre all’infiorata, in quel preciso giorno di festa le famiglie preparavano le “frittelle” con il riso che poi, all’esterno del perimetro del palazzo, venivano poste su delle bancarelle e offerte a tutte le persone che accorrevano dai dintorni per gustarle.
Con la demolizione dello storico caseggiato della Nona questa usanza è andata persa. Comunque, le famiglie civitavecchiesi continuano a mantenere alta la tradizione…
Domenico, tra qualche istante ci leggerà una poesia del poeta civitavecchiese Felice Tazzini dal titolo La demolizione della vecchia Nona”.2
Domenco: “Grazie, Mario… ecco i piacevoli versi scritti dal Tazzini”:
Me pare un sogno brutto che sei
demolita,
me lo ricordo quann’eri ‘na fortezza,
e qui mì madre me diede ‘na carezza.
Venitela a vedé vecchie Nonare!!
Batte senza pietà ‘sto scavatore,
ogni battuta te se strappa er core.
La vecchia Nona nun se po’ scordà,
qui c’era fratellanza e l’allegria,
mò c’è er silenzio e la malinconia,
tutto è finito!
Pure er santo hanno portato via,
qui c’era casa mia,
appresso a me Cerasa cò Firdene,
me le ricordo bene!
L’orgoglio de la Nona nun sé spento,
ha resistito alla rivoluzione,
e restò in piedi cor bombardamento.
Ma pe’ noiartri che ce semo nati,
a riccontà la fame e le miserie,
cor core nostro sotto a ‘stè macerie.
Mario: “Grazie Domenico… Bene… Come vedete le nostre attendenti sono già pronte in sala per proporvi un assaggio delle “frittelle” preparate dalla “sora” Rosa… Lasciatemi dire che sono estremamente deliziose… Buona degustazione”.
GIORGIO CORATI (segue)
