La pace: l’eresia di un’utopia

di CATERINA VALCHERA ♦

Da molti decenni ormai si lamenta da più parti la scomparsa delle grandi utopie, si guarda con rassegnazione al loro irreversibile tramonto, da quella cristiana a quella marxista, cui ora si aggiunge il revisionismo globalista, dopo tante discussioni, teorizzazioni, invenzioni linguistiche come glocalismo e così via. Anche il sogno globalizzante ha rivelato infatti, con macroscopica evidenza, tutti i suoi punti di debolezza in termini di equità e omogeneità degli effetti sul piano economico e geo-politico. L’utopia in sé, qualunque utopia appare oggi un’eresia, perché nel mondo domina un’ideologia del presente e dell’evidenza che blocca ogni desiderio e capacità di immaginare l’avvenire. Sul piano della rappresentazione, poi, Lyotard nel suo saggio La condition postmoderne già nel 1979 ci costringeva ad ammettere la fine delle grandi narrazioni come segno caratterizzante il postmoderno: dopo la scomparsa delle grandi cosmogonie quali miti d’origine e  particolaristici, e dopo quella dei miti escatologici capaci di evocare l’avvenire dell’umanità in quanto miti universalistici, il postmoderno ha fatto sparire anche i miti del futuro, segnando la fine delle grandi narrazioni e le illusioni progressiste di cui si erano nutrite, cadute sotto le atrocità dei totalitarismi del XX secolo. E ora? Il linguaggio spaziale domina su quello temporale, il visivo e l’iconico/ gestuale/simbolico hanno assoggettato quello verbale, la dimensione globale e quella locale non sembrano più capaci di ottenere livelli decenti di complementarità né di sostituire l’antica opposizione particolare/universale. La storia come perturbazione del sistema ha ormai un’origine locale che però si riverbera su tutto il pianeta, soprattutto quando si esprime nel linguaggio della guerra e dell’aggressione violenta. Quel che avviene da tre anni a questa parte ci sta paradossalmente restituendo il perduto, ma senza interessi: l’utopia della pace. Le coscienze comuni  sembrano essersi riscosse da un letargico stato di rassegnata impotenza. Alcune piazze di alcuni paesi sono tornate a far sentire forte la loro voce, certo non con la potenza con cui contestarono conflitti del passato, quali soprattutto quello del Vietnam. Non è la mia guerra- dice Trump a proposito dell’aggressione russa dell’Ucraina- certo non lo è direttamente come quella che fece protestare Bob Dylan (Venite padroni della guerra/ voi che costruite i vostri grossi cannoni/ voi che costruite gli aeroplani di morte/ voi che costruite tutte le bombe[..]spero che moriate/ e che la vostra morte venga presto/seguirò la vostra bara/ un pallido pomeriggio/ e guarderò mentre vi calano/ giù nella fossa/ e starò sulla vostra tomba/ finché non sarò sicuro che siete morti). In quegli anni il pacifismo si era nutrito della dottrina della non violenza e poteva esprimersi in libertà con questi toni sarcastici, demistificatori e “impegnati” politicamente nei confronti di “compatrioti maestri della guerra”. La musica pop  si muoveva inoltre sulla scia della grande protesta operata dalla beat generation e coagulata nel tagliente poemetto America di Ginsberg, rivelatore della disumanità e delle contraddizione del suo paese e del soffocamento del dissenso politico. Tutto questo non è possibile nella Russia di Putin. Tutto questo non viene elaborato dal dissenso del popolo ebraico nei confronti di Netanyhau o si riduce a focolai inconsistenti e poco visibili di malcontento. L’utopia della pace, la grande utopia pacifista che vanta nella storia del pensiero pagine appassionate e autorevoli, non trova oggi le voci forti e giuste nel mondo politico-culturale, ma solo affermazioni d’intenti, o, ancor peggio, giustificazioni ideologiche e di parte. Si stendono sudari, si spengono le luci, si inventano disperati gesti simbolici da parte delle popolazioni civili o di coscienze critiche del mondo accademico, ma servono solo a contrastare l’immenso senso di colpa che si prova di fronte agli orrori di queste guerre. Risibile poi la motivazione che ci si era adagiati- noi “occidentali”- sugli allori di una lunghissima età di pace,  come se a un individuo che improvvisamente scopre di avere il cancro, il medico o chi per lui dicesse che la sua “impreparazione” all’evento tragico si spiega con la lunga condizione di salute di cui ha potuto godere. Le guerre sono machiavellicamente organizzate, non sono inevitabili e hanno sempre spudorate ragioni di potere. E noi, circondati da oggetti materiali sempre più sofisticati, osservatori più o meno attoniti della tecnologia bellica, drogati dalle notizie sul numero di droni che incessantemente ci vengono fornite, ci stiamo abituando a questo orrendo riordinamento del mondo, come se fosse una cosmopolemotecnologia cui non ci si può sottrarre. Ritiratici dal passato e dal futuro, sembriamo bloccati in un presente che viene raccontato solo in termini spaziali, circoscritti al massimo, privi di vere coordinate temporali. Siamo quotidianamente derubati di prospettive future e  di totalità elargitrici di senso, inondati solo dall’orrore dei corpi nella morte. Temo che sarà molto difficile invertire una tendenza tanto devastatrice, anche perché sul teatro della scienza irrompono forze tecnocratiche altrettanto violente e incontrollate. Non potremo più guardare speranzosi al cielo perché ci avranno derubato anche di quello, spostando le frontiere dell’avventura nel reame di pochi destinato a pochi. L’utopia di un’umanità unificata, di un’umanità- società è sepolta. La società planetaria che ci si prospetta ha un volto sempre più inquietante e profondamente antidemocratico. Il popolo fonda e costruisce le città. La follia dei principi le distrugge (Erasmo). Così ieri, così oggi.

CATERINA VALCHERA