CAINO

di ANDREA BARBARANELLI

All’inizio, quando cominciai a lavorarlo, questo campo era pieno di pietre, come un cimitero è pieno di ossa. Le tolsi una ad una, con cura minuziosa, manco fossero le ossa dei miei morti.
Passavo ore e ore a guardare il terreno lavorato, mentre l’aria scuriva e il vento portava fin quassù i rumori della vallata. Le montagne brulle che stanno tutt’intorno, invece, non mi piaceva guardarle. Montagne pelate, di terra triste, che se ci gridi in mezzo non ti risponde l’eco: in quel silenzio vuoto si sente solo, ora qua ora là, il crollo di una frana.
Stavo sotto allo spiovente della casetta che m’ero costruito con parte di quelle pietre, davanti al campo che diventava nero, e fumavo. Arrotolavo una sigaretta dopo l’altra, col tabacco che coltivavo in un angolo ben esposto al sole, finché l’umidità della notte non mi obbligava a rientrare.
Solo cielo e montagne.

La disgrazia è venuta proprio da questo campo che al tempo di nostro padre era stato una pietraia. Avevo cercato di farglielo capire, a mio fratello, quanto lavoro m’era costato trasformarlo in un campo coltivabile. Lo portai dove avevo ammucchiato le pietre, formando un muro sul ciglio della scarpata, e gli indicai lo spazio che aveva per sé, oltre il muro, se proprio voleva allevare le sue capre. Quattro o cinque capre che sarebbe stato un guadagno cacciarle via a sassate.
Lui scuoteva la testa. Forse avevo fatto male a perderlo di vista per tanto tempo, mentre dissodavo il campo. Saltava il muro di sassi, si grattava un’ascella, si grattava dietro la nuca, mi scoppiava a ridere in faccia, con quella sua risata fuori luogo, sciocca, indisponente. Cercavo di non perder la pazienza e tornavo a spiegargli che, lì intorno, c’era terra per tutti: per me, per lui e per le sue capre. Mentre parlavo, se ne stava seduto sui calcagni, scortecciando un ramo col suo coltellino. Se continuavo a parlare, buttava via il ramo, risaltava il muro, s’avviava col suo passo da montanaro, e spariva dietro i massi della prima frana.
Me lo trovavo continuamente fra i piedi. S’era fatto un flauto, con una canna, e lo suonava, emettendo dei suoni che sembravano la voce di un bambino che si lamenti, o che pianga.
Forse voleva farmi capire che era giusto che il campo ce lo dividessimo fra tutt’e due, io per coltivarlo, lui per allevarci le capre. Non gli entrava in testa che erano due cose inconciliabili. Ma non parlava. Mi guardava a bocca aperta, con la sua bocca sdentata, dalle labbra grosse e carnose. Così lo cacciai. Lo seguii con lo sguardo, mentre si allontanava: scese dietro le capre, spingendole avanti col bastone, risalì la montagna di fronte. Finché riuscii a distinguerlo, lo controllai, senza smettere di lavorare, alzando di tanto in tanto la testa.
Passai un paio di mesi senza essere disturbato.
Una mattina, mentre stavo zappando, sento il lamento del suo flauto, che dapprima presi per quello del vento. E vedo le capre che saltano in mezzo al granturco già alto, quasi maturo.
Gli andai sopra con la zappa alzata.
Ma continuò a tornare. Tornava ogni due o tre mesi. All’improvviso, quando ormai non ci pensavo più, mi trovavo il campo pieno di capre e capretti. Le capre avevano figliato.
Era possibile andare avanti così? Non c’era verso di fargli intendere una cosa tanto evidente: le capre non potevano pascolare nel campo coltivato e nell’orto che io tenevo diviso in tanti scomparti precisi: la lattuga, le cipolle, i peperoni rossi e quelli verdi, i pomodori rampicanti, le zucche, le melanzane. Alla fine dovetti arrendermi all’evidenza, convincermi che non c’era altra soluzione. Non avrei voluto farlo, perché mi ricordavo che mio padre, prima di morire, mi aveva raccomandato di badare a mio fratello minore. Ma non c’era davvero altro da fare. Avrebbe potuto restare con me e aiutarmi: c’era lavoro anche per lui, il campo non è poi così piccolo. Con la fatica di quattro mani avremmo potuto vivere bene entrambi, senza che nessuno fosse costretto ad andarsene. Ma lui voleva restare qui con le capre. Non c’era modo di toglierglielo dalla testa.
Così mi decisi.
Scavai una fossa, in fondo al terreno, proprio sotto il muro di pietre sul bordo della scarpata. L’avrei ammazzato e seppellito in quella fossa, la prossima volta che fosse venuto. Almeno, pensai, me lo sarei tenuto vicino. Sarebbe stata una liberazione anche per lui. L’avrei ammazzato con un solo colpo di zappa, senza farlo soffrire.
Stavo facendo le buche per le patate quando mi venne sopra, da dietro, e mi ruppe la testa, col suo bastone da capraio. Si era avvicinato di soppiatto, come un ladro, senza far rumore. Ma devo dire che è stato buono con me. Non mi ha messo nella fossa che avevo scavato per lui. La mattina presto mi mette fuori, sotto la tettoia, sullo sgabello con lo schienale di legno che ha fatto lui stesso, con le sue mani, perché sa che mi piace stare all’aria aperta, e mi ci lascia tutto il giorno, fino a sera, quando il vento si alza, portando le voci e i rumori del fondovalle.
Ormai le capre devono aver distrutto i seminativi e l’orto. Le sento belare intorno, per tutto il campo. Certe volte, non so nemmeno io perché, raccolgo un sasso, dopo averlo cercato in terra, a tentoni, allungando il braccio, e lo tiro nella direzione del belato, così, alla cieca.

ANDREA BARBARANELLI