IL FASCISMO CHE ABITIAMO: QUANDO L’OBLIO DIVENTA PAESAGGIO

di PATRIZIO PACIFICO

“I morti che ci hanno fatto del bene, si ricompensano guardando in faccia i vivi.”
Vasco Pratolini, Metello

Obelischi, palazzi, slogan e marmi del Ventennio sono ancora lì, normalizzati,
ignorati. Ma i simboli non sono mai neutri. E una democrazia che non li sa più
leggere è una democrazia fragile.

C’è una geografia muta che attraversa l’Italia. Una costellazione di segni, architetture, iscrizioni
e simboli che raccontano un pezzo di storia nazionale che non abbiamo mai voluto davvero leggere.
Non si tratta solo di archeologia urbana: si tratta di identità, memoria e responsabilità.
Nelle nostre città, nei nostri quartieri, nei luoghi che abitiamo ogni giorno, il fascismo
sopravvive nel paesaggio. Non come ideologia manifesta, ma come presenza silenziosa, inglobata
nell’estetica del quotidiano: obelischi con la scritta Mussolini Dux, palazzi celebrativi del
colonialismo, marmi che glorificano la virilità, mosaici con slogan di guerra. Per la maggior parte
delle persone, sono solo “pezzi di città”.
Ma proprio questa normalizzazione – questa rimozione dal dibattito pubblico – è la cifra di una
memoria nazionale mai davvero affrontata.
Dopo il 1945, l’Italia non ha conosciuto nulla di paragonabile alla de-nazificazione tedesca. La
transizione fu morbida; forse necessaria, ma costruita su un compromesso culturale e istituzionale.
L’amnistia, il mantenimento di buona parte dell’apparato statale, l’equilibrio precario della Guerra
Fredda, la scelta degli Alleati di privilegiare la stabilità a scapito della verità: tutto questo ha
prodotto una Repubblica nata antifascista, ma cresciuta senza fare i conti fino in fondo con il
fascismo.
Il risultato è una convivenza ambigua con il passato.
Una convivenza passiva, estetizzante.
Oggi, molti di quei simboli non suscitano indignazione né riflessione. Al massimo, qualche
commento ironico. Più spesso, indifferenza. Sono “monumenti”, “arte”, “architettura”. Sono il
passato.
Come se la loro funzione politica e pedagogica fosse evaporata. Ma non è così.
Non del tutto.
Perché ogni simbolo, anche quello dimenticato, parla.
E se non viene spiegato, continua a trasmettere il messaggio originario – anche solo per default.
In assenza di contesto, di cartelli, di spiegazioni, il fascismo resta un’estetica: un’idea confusa di
ordine e forza, una nostalgia senza contenuti, un’icona pop per chi cerca identità nei frammenti.
Altrove, la Germania ha trasformato le sue ferite in musei. La Spagna si confronta ancora oggi
con il proprio franchismo.
L’Italia, invece, ha scelto la strada dell’integrazione silenziosa. Il fascismo è rimasto architettura.
L’anomalia italiana è tutta qui.
Altrove, i popoli si interrogano sui propri fantasmi; noi li arrediamo.
Li trasformiamo in sfondo. Li lasciamo lì, senza strumenti critici, come se la storia fosse
un’appendice facoltativa e non l’architrave della coscienza democratica.
Eppure, i simboli non sono neutri. Lo sapeva bene il fascismo, che fece del paesaggio urbano
uno strumento di propaganda permanente.
Lo dovrebbe sapere anche la Repubblica.
E invece, troppo spesso, preferiamo girare lo sguardo, lasciare tutto com’è, fingere che basti la
rimozione per archiviare un’epoca.
Ma la memoria vera è una scelta politica, non un automatismo del tempo.
E richiede una pedagogia: non censura, non distruzione, ma contesto, spiegazione, cultura.
Serve insegnare ai nostri figli cosa sono quei monumenti, perché esistono, che messaggi
trasmettevano, e perché oggi devono essere compresi – non ignorati, né idealizzati.
Serve partire dai luoghi, ma anche dalla scuola, dai media, dalla formazione culturale.
Questa è una battaglia che non appartiene solo alla sinistra, ma la sinistra – se vuole essere degna
del suo nome – deve guidarla.
Con rigore, con onestà, senza slogan e senza indulgenze.
Non per nostalgia resistenziale, ma per coscienza democratica.
L’antifascismo non è un gadget da esibire nei cortei del 25 aprile. È un dovere morale e civile
quotidiano, che passa anche per queste cose apparentemente minori: una targa, una piazza, una
scritta su un marmo.
Berlinguer parlava di “questione morale” in un altro contesto, ma vale anche qui.
Perché la questione morale è, prima di tutto, la capacità di distinguere il bene dal male nella storia, e di chiamare le cose con il loro nome.
In un tempo confuso, in cui tutto tende ad appiattirsi e svanire in opinione, serve ricominciare da
qui: dall’esercizio della verità.
Dalla cultura come responsabilità pubblica.
Non serve abbattere gli obelischi.
Serve leggerli, spiegarli, ricordarli.
Perché il fascismo non è tornato.
Ma non è nemmeno mai andato via del tutto.
E una democrazia che non sa nominare i propri fantasmi è una democrazia che li sta già ospitando.

PATRIZIO PACIFICO