IL VIAGGIO
di ANDREA BARBARANELLI ♦
Prima di partire, mi ero detto: Il viaggio finirà quando sarò arrivato alle montagne che chiudono l’orizzonte. Oltre quelle montagne non potevano esserci altre terre da percorrere e esplorare. Il mondo doveva finire lì. Tutte le nostre tradizioni concordavano su questo punto. Eppure io, in segreto, nascondendola addirittura a me stesso, nutrivo la speranza che, al di là di quella barriera che sembrava invalicabile, ci fossero ancora altre terre e magari altre oasi come la nostra e gente con cui parlare e scambiare informazioni e pensieri.
Invece, superate le montagne, in fondo alla nuova pianura deserta, ecco un altro orizzonte di montagne. E chi può dirmi se, una volta arrivato là in fondo, non mi troverò di fronte, un deserto chiuso all’orizzonte da un’altra catena di montagne? Non mi sarei mai immaginato che il mondo fosse così vasto. Mi ero aspettato una fine, che so io, un abisso sprofondante nel vuoto, un’invalicabile distesa di acque agitate. E invece, tra il primo e il secondo orizzonte di montagne, c’è un deserto di sabbia, identico a quello che circonda la nostra oasi. Arrivato in cima, superato l’ultimo crinale, la sabbia rifletteva i raggi del sole che, lui sì, era sempre lo stesso sole, creando un complesso gioco di miraggi. Ho sospettato che la catena di montagne all’orizzonte fosse l’immagine di quella su cui mi trovavo, riflessa sullo sfondo del cielo color piombo. Ho alzato e agitato un braccio, per sincerarmene, illudendomi di poter vedere il miraggio di me stesso proiettato laggiù, ma dall’orizzonte lontano nessuno mi ha risposto.
L’oasi alla quale sono giunto dopo quaranta giornate di cammino è la copia quasi esatta della nostra, ma gli alberi hanno dei tronchi che appena potrebbero abbracciare dieci uomini tenendosi per mano, e le loro cime svettano fino al cielo. Dai lunghi rami orizzontali pendono le stesse larghe foglie lanceolate da cui ricaviamo il nostro vino. All’interno degli alberi sono scavate delle ampie abitazioni sul cui pavimento, coperti di polvere e sabbia, ho rinvenuto degli strumenti e degli oggetti domestici molto simili ai nostri. Ho passato la notte rannicchiato nell’interno di un albero. Ho avuto un sonno molto agitato. Nel sogno, o in quello che mi è parso un sogno, sono sceso attraverso una botola aperta nel pavimento, che incredibilmente, da sveglio, non avevo notato. Una scala vertiginosa si perdeva nel buio. Mi sono svegliato di soprassalto. Fuori albeggiava. Mentre mangiavo, ho ripensato al mio sogno. Mi ero svegliato nel momento in cui avevo appoggiato il piede sul primo gradino. Mi aveva svegliato la paura di scivolare e precipitare nel vuoto.
Mi sono rimesso in cammino quando il sole già spuntava da dietro le montagne lontane. So di essere basso, tarchiato e goffo, in confronto a tanti dei miei compagni, ma in quel momento, quando mi sono avviato, provavo un’inebriante sensazione di agilità e leggerezza. Prima di me, nessuno della mia razza si è mai spinto tanto lontano. Ciò basta per esaltarmi. Se sono arrivato fin qui lo devo al fatto che, malgrado il mio aspetto, sono il più agile, il meno incatenato alla terra, il più resistente. No, niente di tutto questo: sono il più dotato di immaginazione, di vera immaginazione, questo è il mio segreto.
Quando ero un ragazzo non ancora iniziato, la sera mi sedevo intorno al fuoco, nel crocchio delle donne. Gli uomini, a poca distanza, in piedi, parlavano, uno alla volta, con gesti solenni. Ciascuno raccontava, per l’ennesima volta, le proprie imprese. Di che si vantavano, se nessuno di loro si era mai spinto oltre i radi arbusti con cui la nostra oasi muore nel deserto? Se lo scopo era quello di impressionare le donne, ottenevano tutt’altro effetto. Le donne accoglievano le vanterie dei maschi con degli “oooooh!…” prolungati, carichi di esagerata meraviglia, e subito dopo giravano la faccia per ridere tra di loro. Ma gli uomini non se ne avvedevano, o forse non se ne preoccupavano più di tanto; si eccitavano gli uni con gli altri, con i loro grugniti e i loro applausi, e raccontavano dettagli sempre nuovi delle loro immaginarie escursioni nel deserto, dei loro viaggi al di là delle montagne, quelle montagne fino alle quali, in realtà, nessuno di loro aveva mai avuto il coraggio di spingersi. Nessuno di loro aveva superato la fascia di rada boscaglia, la steppa cespugliosa che circonda la nostra oasi. Parlavano e parlavano, tenendo in mano le grandi tazze colme di vino, il succo fermentato che permette di viaggiare con la fantasia anche all’uomo più debole e pavido. Ma le loro fantasie erano insignificanti e meschine, seguivano tutte uno schema collaudato da tempo immemorabile, probabilmente basato sul racconto di qualcuno dei nostri antenati che davvero si era spinto oltre il deserto, era arrivato alle montagne ed era tornato indietro. Questo racconto, era ripetuto ogni sera, con una quantità di variazioni, tutte già escogitate da tempo e prevedibili, da tutti gli uomini adulti della tribù. Si era così andata creando una vastissima e intricata epopea, che veniva spacciata per autentica e veridica.
Le donne non bevevano. Le donne si facevano beffe dei sogni a occhi aperti dei maschi ubriachi e paurosi.
Io ero un maschio. Appena avessi avuto l’età giusta, avrei lasciato la compagnia delle donne e sarei stato iniziato ai segreti degli uomini. E avrei compiuto anche io i miei viaggi immaginari. Avrei avuto anch’io il diritto di alzarmi in mezzo al circolo dei maschi, davanti al grande fuoco che lo separava dal crocchio delle femmine, reso quasi invisibile dal chiarore della vampa e dal fumo, e avrei raccontato anch’io le mie avventure, i miei viaggi di scoperta, con voce magari all’inizio incerta e rotta dall’emozione, ma poi via via sempre più sicura, proprio come un uomo. E allora, che sogghignassero pure le donne!
Intanto pascolavo le capre, come tutti i ragazzi, mentre gli uomini viaggiavano e le donne provvedevano alle minute necessità della vita quotidiana, compresa la raccolta e la macerazione delle foglie per preparare la bevanda sacra, che esse non assaggiano. Se le si invitasse a bere, volterebbero la testa ridendo: anche la bevanda è scandalosa, per loro.
Io, dunque, pascolavo le capre. Mi alzavo la mattina presto, le facevo uscire dal chiuso e le spingevo avanti, incitandole con degli “eh, eh!” verso il margine della boscaglia, dove comincia quella fascia stepposa che a poco a poco si dirada fino a confondersi col deserto. Lì ero completamente solo. Avevo la mia zona assegnata, come ogni ragazzo, non potevo uscirne, e non mi incontravo mai con nessun altro, passavo tutta la giornata con le mie capre, non tornavo a casa neanche per i pasti, portavo con me il cibo che ogni giorno mia madre mi consegnava, prima della partenza. Il tempo mi si faceva lungo. Le capre si spargevano per tutta quella zona della steppa, lontane le une dalle altre, brucando l’erba. Con loro non si poteva né parlare né giocare. Per passare il tempo, mi mettevo a pensare ai racconti che tutte le sere gli adulti facevano davanti al fuoco. Era un’occupazione appassionante, il tempo scorreva più svelto. A volte non mi accorgevo nemmeno che si era già fatto buio e le capre mi si erano raccolte intorno, aspettando che mi decidessi a rientrare. Col passare del tempo, ero diventato anch’io capace di viaggiare, ancor prima di essere stato iniziato e senza bere la bevanda sacra. Quando confrontavo i miei viaggi con quelli raccontati dagli uomini intorno al fuoco, la sera, mi rendevo conto che i miei erano enormemente più interessanti. Erano più seri e più veri, senza cessare di essere avventurosi e affascinanti. Il fatto è che io partivo sempre dalla realtà che conoscevo. La mia fantasia era capace di lavorare solo se riceveva il primo impulso da ciò che gli occhi vedevano: quel cespuglio lontano, dietro il quale s’era nascosta una capra; il greto sassoso di quel ruscello che si perdeva oltre la linea delle prime colline. Partivo di lì, da quei luoghi concreti, a portata di mano, per i miei viaggi, e mi spingevo avanti, lasciando le mie orme ben marcate nel terreno. Osservavo il limite quasi impercettibile tra la sterpaglia e la sabbia, mi sforzavo di capire dove veramente finisse l’oasi e cominciasse il deserto, e mi rendevo conto che questo limite di fatto non esisteva, era una pura e semplice convenzione, quasi un modo di dire, perché si era tutti abituati a dire: “Sta’ attento a non entrare nel deserto!”, “Chissà, di notte, che freddo farà, nel deserto!”, “Non c’è proprio nessuno che possa viverci, là nel deserto!”, al punto che tutti, proprio tutti, da chi sa quante generazioni, avevano perso di vista la realtà più evidente, e cioè che la vita, se per vita si deve intendere la presenza di vegetazione, per quanto bassa e minuta, e di animali, per quanto di dimensioni ridotte — piccoli topi, cavallette, lombrichi, scorpioni e non so quanti insetti —, continuava senza alcuna interruzione, ben oltre il limite, ben oltre il circolo magico che racchiudeva e conteneva e separava dal resto del mondo la nostra oasi. Partendo di lì, da quelle tracce, da quella scia di vita che si addentrava nello spazio tra l’oasi e l’orizzonte, io non mi lanciavo semplicemente all’avventura, immaginandomi le situazioni e gli incontri più inverosimili, no, osservavo da vicino, granellino per granellino, la sabbia fra le radici degli arbusti e scoprivo che ogni granellino, appunto, era diverso dall’altro, aveva la sua forma particolare, il suo peso, la sua consistenza e il suo colore specifico: alcuni erano dei veri e propri cristalli in miniatura, che rifrangevano i raggi del sole, altri delle scaglie di roccia scura, dall’apparenza vischiosa, dai bordi taglienti. Scavavo con le dita lungo le radici, in profondità, ed era da lì che iniziava il mio viaggio, da quella buca che metteva in luce il groviglio delle radici con i loro filamenti sottili e coperti da una fine peluria. Si può viaggiare senza apparentemente spostarsi nello spazio, esplorando in profondità una superficie non più grande di quella che uno copre con la propria ombra; la cosa importante è tornare dal viaggio con la mente e la bisaccia piena di novità, di cose mai prima viste o mai prima osservate da nessun altro, ed io così a poco a poco andavo procedendo nelle mie esplorazioni, raccoglievo una quantità di esemplari: insetti, funghi, cristalli, minerali, fiori, antichi utensili abbandonati e rimasti sepolti, che custodivo gelosamente e intorno a ognuno dei quali ero in grado di costruire una lunga storia di avventure. Quante volte, la sera, avrei voluto alzarmi per interrompere l’uomo che stava parlando e metterlo con poche parole di fronte alla insulsa e ridicola vuotaggine del racconto della sua ultima impresa, uguale a tutti i racconti precedenti e successivi, ripetuti secondo uno schema fisso, le cui variazioni perfino i bambini erano in grado di prevedere, e da tanto tempo— da secoli, da millenni! — si tramandavano come un rito che ormai ha perso ogni significato. Ma sarebbe stato il più grande degli scandali. M’immaginavo le facce che avrebbero fatto le donne. Io stavo al di qua del fuoco, in mezzo alle donne, e le donne non mi avrebbero permesso di andare oltre le prime parole, mi avrebbero tappato la bocca con le mani, ridendo, come quando a qualcuno scappa una parola sconcia o un peto, mi avrebbero avvinghiato con le loro braccia e si sarebbero rotolate in terra con me, sempre ridendo, dandomi pizzicotti e scapaccioni. No, non ci sarei mai riuscito. Non so se altri miei coetanei nutrissero un segreto simile al mio, so solo che li vedevo, quando i guizzi della fiamma li strappavano all’oscurità, o assorti nei loro giochi infantili o con la testa ciondoloni per il sonno e la noia. Ma chi può dirlo con sicurezza? Nessuno certo avrebbe potuto leggermi in viso il mio segreto. Prima di me altri ragazzi dovevano aver sentito quello che ora sentivo io, altrimenti non sarebbero circolate tante storie di ragazzi che un bel giorno si erano allontanati per non tornare mai più. Intorno a loro erano nate una quantità di storie che venivano raccontate la sera dalle donne più anziane ai bambini, un po’ per divertirli e un po’ per spaventarli, perché c’era sempre, in tutto quello che dicevano le donne, questa ambiguità di fondo, questo prendere con ironia e con un pizzico di cinismo anche gli argomenti più seri e sacrosanti. Quelle fiabe per bambini cominciavano sempre con un ragazzetto disubbidiente a cui era stato detto: “Non uscire di casa”, oppure: “Non superare il cancello dell’orto”, oppure ancora: “Quando sei al pascolo, non lasciare le capre per inoltrarti nella steppa”, e lui, come se niente fosse, tranquillo e sorridente, perché era pieno di una malizia mascherata di ingenuità, lui che pur essendo piccino non aveva paura perché non conosceva la paura, faceva appunto il contrario di quello che gli era stato ordinato di fare. Prendeva la strada dei campi, si allontanava dalle ultime case del villaggio, e si perdeva in quello spazio vuoto che cominciava dove finivano i pascoli. Le donne arricchivano le loro storie con delle avventure orripilanti, che capitavano regolarmente ai ragazzi disubbidienti: incontri con draghi che sputano fuoco, con giganti cannibali, discese in luoghi incantati dove il semplice sguardo di una testa viperina ti fa diventare di pietra, ma a queste storie si vedeva bene che nessuna di loro credeva, neanche quelle che si appassionavano di più a raccontarle: erano invenzioni create apposta per tener buoni i bambini che ascoltavano a bocca aperta. Questi ragazzi delle fiabe erano i miei predecessori. Erano loro i veri viaggiatori. Gli eroi. Di tali veri viaggiatori o eroi se ne aveva uno ogni tre o quattro generazioni. Tutt’intorno al confine estremo del nostro territorio erano piantati dei pali di legno che, a quanto dicevano le donne, indicavano la direzione che aveva preso ciascuno di quei ragazzi, quando s’era messo in cammino. C’era un palo per ogni eroe che aveva affrontato il viaggio senza ritorno, un palo che in qualche modo lo rappresentava perché terminava in cima con la rozza rappresentazione di un viso umano, non un vero e proprio ritratto, ma una immagine stilizzata, capace comunque di dare un’idea dello spirito che lo aveva spinto ad affrontare l’ignoto: la bocca stretta e serrata indicava una ferma decisione, gli occhi guardavano dritti l’orizzonte. Chi sa quanti pali marcivano sottoterra, per ognuno di quelli ancora in piedi! Quei pali di legno, infatti, non durano quanto le memorie tramandate di generazione in generazione dalle donne: si coprono di muffe e di funghi, marciscono e cadono, o vengono tarlati, o ridotti in polvere dalle termiti, mentre i nomi degli eroi più antichi del nostro popolo continuano a risplendere come gemme preziose nei racconti interminabili che le ragazze apprendono dalle loro madri per poterli insegnare alle loro figlie future. I maschi, dal momento in cui vengono iniziati, cominciano a vivere in un mondo completamente immaginario, la cui creazione costituisce il loro compito fondamentale e quasi esclusivo. Nella tribù si sono dunque formate due tradizioni storiche, del tutto indipendenti l’una dall’altra: quella maschile, che conserva scrupolosamente il ricordo dei “viaggi” compiuti sotto l’effetto del vino estratto dalle foglie degli alberi ed è, per così dire, la storia spirituale della tribù, una storia che, peraltro, come ho già osservato, utilizza un numero piuttosto limitato di temi o schemi, mescolandoli e intrecciandoli in modo da dare l’impressione che i racconti siano sempre nuovi e originali, e la tradizione femminile, che non può certo competere con la prima per prestigio ed eleganza, perché registra solo gli avvenimenti minuti della vita di tutti i giorni, esasperantemente ripetitivi e banali e quindi, dal punto di vista dei maschi, niente affatto memorabili: “Ah, sì, le favole per i bambini!” Ma gli eroi, stranamente, appartengono a questa seconda tradizione. In quanto hanno agito, in quanto si sono mossi sul piano della realtà, della quotidianità, sono le mille miglia lontani dal gioco puramente verbale dei maschi, che li considerano, quando vengono nominati in loro presenza, con sdegnoso disprezzo. I maschi iniziati non si sognerebbero mai di scendere dalla sublime astrazione del loro gioco del “viaggio”, che li occupa completamente e che hanno trasformato in un’arte raffinatissima di narrazione simbolica e di geografia fantastica, per azzardare quattro inutili, goffi e inopportuni passi nel deserto. A che scopo e alla dilettantesca ricerca di che cosa, si chiederebbero, se da innumerevoli generazioni si sta lavorando nell’unico modo giusto e professionale per tracciare la pianta dell’universo, per trovare le rispondenze e le correlazioni tra i resoconti di un ormai quasi infinito numero di “viaggi”? Viaggi, sia ben chiaro, da cui tutti ritornano, non sporadiche avventure intraprese da pochi fanatici isolati: dei ragazzi, peraltro, solo e semplicemente dei poveri ragazzi certamente traviati, messi fuori strada dalle chiacchiere delle donne, ragazzi che non hanno avuto la pazienza di sottoporsi alla faticosa iniziazione ai misteri collettivi, pochi sventurati immaturi che hanno ritenuto di poter arrivare a scoprire da soli chi sa quali segreti, e che per di più non hanno mai fatto ritorno. Gli “eroi” rappresentano dunque in qualche modo l’elemento femminile della nostra tribù, anche se si tratta pur sempre di giovani maschi, perché le femmine, per costituzione fisica, non potrebbero affrontare i rischi di un’escursione al di fuori del nostro territorio. Le donne hanno innalzato in loro ricordo i pali di legno intagliato.
Ora che sono arrivato a questo punto del mio viaggio e so che mi sarebbe impossibile rivolgere indietro i passi e tornare alla mia oasi natale, in questo deserto specularmente moltiplicato, ho la sensazione di essere ormai, per la mia gente, niente altro che un palo di legno eretto ai margini della sterpaglia ad indicare la direzione nella quale mi sono allontanato. Fra pochi anni l’azione del sole e delle piogge lo avrà reso indistinguibile da tutti gli altri pali ancora in piedi. Nel corso di due generazioni sarò entrato nell’eternità dei racconti ripetuti ogni sera davanti al fuoco, nel crocchio delle donne. Chi potrà dire, osservando il mio monumento, che la mia avventura sia stata tentata prima o dopo di quella di un altro qualsiasi eroe? Chi sarà capace di individuare una successione in una serie circolare? I pali descrivono infatti un cerchio attorno al nostro territorio, ed ogni nuovo monumento viene collocato alla stessa distanza dal centro del villaggio. Mi sono chiesto a che distanza mi trovi ormai io stesso, da quel centro. Ho scrutato l’orizzonte tenendo la mano a visiera sugli occhi, ma il gioco di specchi di questo deserto abolisce ogni calcolo e rende vano ogni avanzare. Le vette degli alberi millenari dell’ultima oasi da me esplorata sono da tempo rimasti nascosti dietro il crinale della successiva catena di montagne. Ora il terreno si è fatto più accidentato, frastagliandosi in piccole gole sassose. È come se la terra si incrinasse ed aprisse per esporre la sua ossatura, tanto che provo non so se pietà o vergogna, di fronte alla sua nudità, alla sua intima nudità disvelata, mentre sto seduto sul fianco di questa montagna che scende ripida a valle.
ANDREA BARBARANELLI

Racconto di un viaggio metaforico e fisico che sfida i confini del conosciuto, esplorando il rapporto tra immaginazione, tradizione e realtà. Il racconto intreccia mito e filosofia, contrapponendo la vuota ritualità maschile – fatta di racconti stereotipati e bevande sacre – alla memoria femminile, custode silenziosa degli eroi veri, quelli che osano varcare l’orizzonte. Il protagonista, erede di una ribellione antica, scopre che l’esplorazione autentica non è fuga nel fantastico, ma osservazione radicale del reale: ogni granello di sabbia cela un universo.
La scrittura, ricca e visionaria, riflette sull’illusorietà dei limiti e sulla caducità della gloria: l’eroe diventa un palo marcito, simbolo di come anche le scoperte più audaci svaniscano nella sabbia del tempo. Un inno all’umano bisogno di andare oltre, pur sapendo che ogni montagna nasconderà un nuovo deserto. Bellissimo! Grazie.
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