Vecchio in viaggio

di ANDREA BARBARANELLI

Si fermarono sull’orlo del burrone, di cui la guida, con un parsimonioso gesto della mano, indicò estensione e profondità, come a voler significare: «Visto? Non si passa, di qua: non ve l’avevo detto?». Il vecchio si sporse a guardare, sfidando le vertigini, non ancora convinto della realtà del baratro che, cadendo a picco sulla valle, aveva aperto di colpo un vista sconfinata fino all’orizzonte di montagne innevate; quindi tornò indietro, cinque, sei passi, ritirandosi da quel vuoto che cominciava a dargli un senso di nausea, e trascinò le gambe pesanti, sconfitto (solo allora si rese davvero conto, per la prima volta, di quanto fosse diventato vecchio), fino all’ombra del rovere.

Avevano perso due giorni e mezzo in una marcia lentissima e esasperante, con timide inerpicate e penosi ripiegamenti, per sentieri resi impraticabili dalle piogge che avevano flagellato per settimane tutta la regione, provocando smottamenti e frane, ma almeno — magra consolazione! — adesso era quasi certo che la sua guida non lo aveva ingannato quando gli aveva detto che per quella strada non sarebbero mai arrivati a San Pedro. Quasi certo, non completamente. In realtà, non aveva alcuna certezza, né riguardo alla guida né riguardo alla strada percorsa né riguardo a quella che restava da percorrere. All’ombra dell’albero, comunque, si sentì più protetto. Raggomitolatosi sull’erba, si strinse il torso con le braccia. La febbre era diminuita o, forse, scomparsa del tutto: ora che stava al riparo dal sole, non ne sentiva più il ribrezzo. Il viaggio, per essere sceso dall’autobus a un incrocio invece che a un altro, all’incrocio sbagliato, si era trasformato in una marcia disperata. Era una situazione strana, addirittura comica, se non fosse stata penosa, comica come ogni situazione eccessiva, pensò il vecchio. Un soldato sbandato in territorio nemico deve sentirsi come mi sento io, pensò ancora. E, in territorio nemico, mi sono affidato, mi sono consegnato a uno del posto, uno che non può non essermi ostile, perché deve considerarmi appunto un nemico, un nemico da eliminare, da far sparire, semplicemente, senza soffrire per questo alcuna conseguenza negativa. Forse mi sta conducendo verso un luogo ancor più fuori mano, più isolato e deserto, impervio e impraticabile, lontano da villaggi e campi coltivati e pascoli, per uccidermi senza lasciar traccia, un luogo dove il mio cadavere non potrà mai più ritrovarsi. Sono io, pensò a questo punto, che lo sto trasformando in un assassino, che ne sto facendo un assassino. Se continuo a pensare che è un assassino, alla fine non potrà far altro che ammazzarmi. È vergognoso che io pensi questo di lui semplicemente perché è così diverso da me e da quelli come me da non sembrarmi nemmeno un essere umano, da sembrarmi quasi un animale.

No, la strada che aveva preteso di vedere sulla mappa non esisteva nella realtà, ora ne era sicuro, e aveva pagato quella pretesa, o l’errore della mappa, perché può anche succedere che una mappa sia sbagliata, con due giorni di inutili andirivieni.

«Ma sì eccola qui!», aveva detto il vecchio, due giorni prima, spazientito dall’ottusa caparbietà della sua guida. «Riesci a  seguire il mio dito? Vedi? Eccola qui!». Quello aveva seguito con lo sguardo l’unghia ormai bordata di nero. «Qui sulla carta è ben chiaro», aveva continuato il vecchio, sicuro del fatto suo: «C’è una strada che congiunge questo punto dove siamo ora con il punto dove devo arrivare».

Non sapeva niente di carte, quella specie di animale dalla faccia ottusa: non capiva i segni delle carte, non riusciva proprio a capire che cosa fosse quella carta, una carta topografica, come un analfabeta non capisce i segni della scrittura, ma conosceva ogni angolo di quella zona, o almeno così sosteneva. Se quella linea andava dritta verso nord, disse, non poteva essere una strada. «Dove dice che c’è una strada, c’è uno strapiombo. Se ci arriviamo, dovremo tornare indietro per riprendere la strada giusta, quella che conosco io, che fa un giro più lungo, evita i burroni, scende pian piano a valle e poi riprende per di là». E indicò l’est, sollevandosi sulle punte dei piedi, come per scavalcare lo spazio che aveva percorso con le parole. Il vecchio, però, evidentemente, non si fidava di lui, si fidava della sua mappa, e lo aveva costretto ad andare per dove, secondo la sua mappa, correva la strada più diretta.

Ma era veramente sicuro che la sua guida l’avesse portato nella direzione indicata dalla mappa? O non aveva invece seguito maliziosamente un’altra strada, attraverso una zona fuori mano, deserta, dove in due giorni e mezzo di marcia non avevano incontrato nemmeno una capanna isolata, un contadino o un pastore? Ora il vecchio era perplesso e preoccupato, glielo si leggeva in faccia. Perfino un uomo apparentemente insensibile come la sua guida doveva rendersene conto, e per questo, forse, se ne rimaneva in disparte, a testa bassa, come un cane bastonato, benché fosse risultato che aveva ragione lui e torto il vecchio e la mappa del vecchio. È probabile, pensò il vecchio, che abbia deciso di mettermi fuori strada fin dal primo momento, da quando gli ho chiesto di portarmi a San Pedro. Del resto, come aveva potuto pensare che un contadino analfabeta sapesse leggere una carta topografica? Chissà che cosa s’era immaginato che fosse quel foglio pieno di segni, incomprensibili per chi non avesse una minima idea di cartografia, che gli aveva messo davanti agli occhi? Aveva sbagliato a mostrargli la carta, anzi era stato addirittura offensivo, umiliante, a pensarci bene, quel gesto, e non era strano che quella specie di bestia testarda se la fosse presa a male. Come se gli avesse messo davanti le pagine aperte di un libro e gli avesse detto: leggi! A un analfabeta! E si sa che rancore possono covare, in silenzio, fino all’occasione propizia, persone di questo tipo, quando si sentono offese. Come avrebbe potuto spiegargli che non era stata sua intenzione mancargli di rispetto? Inoltre, quando gli aveva chiesto: «Quanto vuoi per accompagnarmi fino a San Pedro?», avrebbe dovuto tirare sul prezzo che quello gli aveva fatto, benché la somma richiesta fosse per lui semplicemente irrisoria, dimostrava soltanto che l’uomo viveva in un mondo dove non circolava il denaro, fermo al valore di chi sa quanti decenni fa. Ho sbagliato tutto, pensò il vecchio. Prima gli ho calpestato le pianticelle di mais, dimostrando ignoranza e grossolano disprezzo per la sua proprietà, perché quelle piante, che ho schiacciato senza nemmeno farci caso, devono essere per lui sacre come la vita stessa, dalla loro crescita dipende la sua vita e quella della sua famiglia. Subito dopo l’ho umiliato, mettendogli davanti la mia stupida carta topografica, pretendendo di conoscere questi posti meglio di lui, che c’è nato e ci vive. Non so che farei per poter tornare indietro e riparare a tutto questo, pensò il vecchio. Ma forse è troppo tardi per pentirsene, per tornare indietro.

Erano già passati tre giorni da quando s’era trovato in mezzo al campo di mais. Il sole basso sull’orizzonte, dietro di lui, allungava la sua ombra facendola arrivare fin quasi al limite del terreno, da dove quell’uomo, sbucato improvvisamente dal nulla, non lo perdeva di vista. Non sapeva più, il vecchio, se andare avanti o indietro: s’era accorto di trovarsi in un campo coltivato solo quando il sasso gli aveva fischiato vicino all’orecchio. Quell’uomo che, dopo essersi fermato roteando il braccio in alto sulla testa, veniva avanti dal fondo del campo, ormai camminando sull’ombra del corpo del vecchio, doveva essere il padrone o il sorvegliante di quel campo, se gli aveva tirato con la fionda, per avvertirlo, pensò, a meno che non avesse avuto proprio l’intenzione di colpirlo, e non era affatto divertente, per lui, vedersi preso di mira mentre si trovava in quella situazione, sorpreso a calpestare il mais ancora in erba.

No, non è un malintenzionato, aveva pensato l’uomo con la fionda, correggendo la prima impressione e smettendo di roteare il braccio, è vestito come uno di città, chi sa come sarà capitato qui. Gli vado incontro perché non mi schiacci altre pianticelle e pure per tirarlo fuori di lì: è rimasto bloccato, non va più né avanti né indietro, mi fa segno che lo vada a riscattare.

Aveva rallentato il passo, dopo aver tastato l’impugnatura del machete che gli batteva sulla coscia e caricato la fionda con un altro ciottolo di fiume, liscio e sodo, che teneva nella tasca dei calzoni, per prudenza, perché non si sa mai. Ma era solo un vecchio, quando fu a pochi passi lo aveva già vagliato e pesato, un vecchio con ai piedi un paio di scarpe impolverate e con le suole incrostate di fango, e indosso abiti di città, un vestito di panno scuro, una camicia con il colletto, e sopra alla giacca una mantellina di lana, una specie di poncho, aperto ai lati, leggero, dev’essere mezzo morto di freddo, ora che il sole non riscalda più. Lo impressionò la corporatura del vecchio. Gente di città, pensò, che ha da mangiare a sazietà, da quando nasce a quando muore, e diventa alta e robusta, non come noi. Come poteva spostarsi su un terreno pieno di crepe e di dislivelli un vecchio alto e grosso come quello?

L’uomo aveva rallentato la sua andatura, fino a fermarsi a quattro, cinque passi di distanza, e il vecchio solo allora si era reso conto che quella specie di ululato o di mugghio che aveva sentito fino a poco prima non era prodotto, come aveva creduto, dal vento tra le cime degli alberi sul fianco della montagna, ma dalla bocca dell’uomo, che però ormai, rallentata e poi fermata la corsa, si era zittito e lo guardava con attenzione, valutando altezza, corporatura, peso, vestiario ed ogni altra caratteristica fisica, come se lui fosse un animale sbandato, capitato per caso nel suo campo, di cui stesse valutando la possibile utilizzazione e commestibilità. Sotto la massa di capelli incolti, impastati di polvere e sudore, la faccia dura e inespressiva era quella di un contadino delle terre alte, come si vedevano nelle foto delle feste folkloristiche oppure, in carne e ossa, con un’aria pietosamente derelitta, per le strade cittadine. Il vecchio la registrò, senza particolare curiosità.

Era rimasto in attesa, rigido, e, mentre quello si avvicinava, aveva estratto dalla tasca della giacca una cartellina e l’aveva dispiegata a più riprese, finché non era diventata un unico grande foglio in cui si era messo a cercare qualcosa, sotto lo sguardo dell’uomo con la fionda. Aveva alzato appena gli occhi dal foglio, quando quello gli era arrivato davanti. «Conosci questi posti, qua intorno?», aveva detto il vecchio. «Sissignore». «Bene, noi siamo qui», aveva detto il vecchio indicando un punto nella carta. L’uomo si era piegato in avanti, fino a mettere il naso sulla carta, cercando dove potesse esserci, lui, su quel foglio. «San Pedro. Ecco: conosci San Pedro?», aveva detto il vecchio. «Devo andarci. Se mi ci porti, c’è un compenso per te; mi dirai quanto vuoi e ti pagherò là, quando mi ci avrai portato». Si ricordava dello sguardo diffidente dell’uomo, delle mani che allentavano e stringevano le cinghie della fionda, neanche ora riusciva a capire perché lo avesse preso come guida, non sembrava il tipo adatto a fare da guida, uno di cui ci si potesse fidare. Chissà che ha in mente questo vecchio, pensò l’uomo con la fionda. Pensò che forse aveva paura di lui e voleva farselo amico con quella proposta, con quella promessa dei soldi che avrebbe ricevuto a San Pedro, se ce lo avesse portato. Pensava che in questo modo non avrebbe dovuto più temere niente da lui. Non aveva nemmeno discusso sul prezzo che gli aveva fatto, evidentemente non aveva problemi di denaro, quel vecchio. Per quella somma era disposto ad accompagnarlo fino a casa del diavolo, non solo a San Pedro, un villaggio di montagna, lassù, verso est, oltre i precipizi della prima cordigliera, stando a quanto poteva capire dalle parole del vecchio. Cosa poteva andare a cercarci, in un posto così fuori mano che non c’erano quasi strade per arrivarci, quel vecchio di città? Avrei dovuto tirare sul prezzo del compenso, aveva pensato subito dopo il vecchio, per non metterlo sul chi vive, suggerendogli l’idea di una gran quantità di denaro addosso a un uomo debole e indifeso come sono io.

Avevano camminato fra le pianticelle di mais, il vecchio ora badando a dove metteva i piedi, fino alla casa di paglia impastata di fango, su uno spiazzo ghiaioso non distante dal torrente; ma all’uomo già non importava che le piante venissero calpestate, non ci faceva più caso, le abbatteva lui stesso, passando, con secchi colpi di machete e le schiacciava sotto i piedi, per aprire il cammino al forestiero; chiaro che pensava solo ai soldi che avrebbe guadagnato, e che erano molto più di quello che avrebbe potuto ricavare dal raccolto del mais, se fosse stato un buon raccolto. «San Pedro? Certo che so arrivare a San Pedro», aveva risposto.

Accovacciato all’ombra del rovere, il vecchio aprì ancora una volta la carta e la distese sull’erba; la fermò con tre sassi, perché il vento l’agitava come una bandiera, e riprese a studiarla, forse non ancora del tutto convinto. Magari è convinto che, invece della sua carta, sono i posti a essere sbagliati, pensò l’uomo che era restato sul bordo della scarpata e che ora, distolto lo sguardo dal vecchio, guardava la vallata coperta da una fitta foresta, con una sola radura disboscata intorno a un villaggio minuscolo, di poche case di bareque, simili alla sua, sovrastate da un’enorme chiesa bianca, con un alto campanile. Aveva l’impressione che in quell’aria trasparente gli arrivassero, portati dal vento che veniva su dalla valle, i rumori del villaggio, i gridi dei bambini che scorrazzavano sul sagrato della chiesa circondato dalle case, le voci delle donne che si chiamavano da lontano, le imprecazioni degli uomini sparsi in giro per gli orti, i muggiti delle vacche e dei buoi. Solo voci, perché, in realtà, non distingueva forme umane, né animali, né piroghe sul fiume che scorreva poco distante dal villaggio.

Non deve giustificarsi per aver preso questa strada che non porta da nessuna parte, pensò il vecchio, sollevando un momento la testa dalla mappa per guardarlo, non ha fatto altro che ubbidirmi, benché sapesse che io avevo torto e lui aveva ragione. Ma non poteva fare diversamente, perché sono io quello che comanda, sono io quello che ha i soldi e può imporre la propria volontà.

Lo chiamò dopo aver ripiegato la carta e averla fatta sparire nella tasca della giacca. Stordito dalla febbre e dalla fatica, di malumore, gli domandò se ce l’avrebbero fatta a tornare indietro, prendere il sentiero che aveva detto di conoscere, e arrivare a San Pedro prima di notte.

«Sì», rispose, «arriveremmo prima di notte se avessimo preso ieri la strada giusta».

«Ti chiedo se ora».

L’uomo scosse la testa. «No, ora no» disse. «Ci vogliono almeno due giorni. Forse tre. Sì, è più probabile che ce ne vogliano tre, perché lei non può andare più svelto».

Il vecchio corrugò la fronte. Estrasse di nuovo la carta, l’aprì dando le spalle al vento e, tenendone aperto solo un riquadro, indicò prima un punto e poi un altro.

«Sono pochi chilometri».

«Lì», disse indicando la carta, «ma sul terreno no».

Il vecchio si sbottonò la giacca e arrotolò le gambe dei pantaloni, scoprendo i calzini neri, dopo essersi seduto di nuovo all’ombra dell’albero. Con la stessa scrupolosa lentezza con cui aveva compiuto quei movimenti, estrasse dalla tasca dei pantaloni il fazzoletto e si asciugò, tamponandolo con piccoli colpi, il sudore della fronte e delle guance, sulle quali spuntava una barba fitta e bianca, non rasata da quattro giorni, che conferiva al suo viso quell’aria di abbandono che è propria dei vecchi solitari. Fissò sconsolato le punte scrostate delle scarpe. I piedi lo facevano soffrire da tanti giorni che ormai considerava normale sentirseli tumefatti e dolenti: li fece sgusciar fuori dalle scarpe, si tolse i calzini e cercò il refrigerio dell’erba, come se avesse deciso di fermarsi a lungo in quel posto, magari definitivamente, stanco come era di andare su e giù per sentieri che non portavano da nessuna parte. L’altro uomo, a quattro passi di distanza, teneva la schiena piegata in avanti e la testa incassata fra le spalle, come un cane che fiuti una traccia, pensò il vecchio strizzando gli occhi per metterlo a fuoco. Affaticato e deluso, si sentiva ormai irrimediabilmente perso in quello sconfinato spazio ostile. Si sarebbe buttato a dormire sull’erba, se non lo avesse trattenuto la paura ispiratagli dalla faccia ottusa della sua guida, che gli impediva di chiudere gli occhi e di lasciarsi andare.

«In casa fa meno freddo che fuori», aveva detto l’uomo, mentre gli apriva il sentiero fra le pianticelle di mais.

Altroché, aveva pensato il vecchio. Quassù, appena tramonta il sole, si alza il vento e il freddo diventa insopportabile. Quel freddo che aveva già sentito penetrare, dai finestrini sconnessi dell’autobus, attraverso il tessuto leggero dei suoi indumenti e le suole sottili delle scarpe. Dapprima gli si erano gelati i piedi e poi, risalendo a poco a poco su per le gambe e la schiena, il freddo gli aveva provocato un ribrezzo, come lo dà la malaria.

«Non mi ha detto che si chiama San Pedro il posto dove vuole andare», aveva ripreso a dire l’uomo, pronunciando a fatica le parole, senza dare intonazione interrogativa alla domanda.

Il vecchio si era guardato intorno: nell’unica stanza della casa, buia e piena di fumo, non c’erano altre aperture che quella bassa e stretta della porta, quasi più una gattaiola che una porta, attraverso cui era dovuto passare strisciando sulle ginocchia; in un angolo, sul pavimento di terra battuta, tre pietre isolavano un fuoco di sterpi che mandava più fumo che calore; vicino a quel focolare, una donna e quattro bambini, raccolti in un solo mucchio confuso, evidentemente spaventati da lui, aveva constatato il vecchio, irritato. Il bambino più piccolo piangeva con un miagolio di gattino, insistente e fastidioso. Il vecchio non aveva provato alcuna compassione. Sono talmente abbrutiti, aveva pensato, che si fanno più danno da sé stessi di quanto gliene possano fare la malasorte e la miseria.

L’autobus lo aveva lasciato a un bivio segnato da un cumulo di pietre accatastate in modo da formare una specie di cippo, come già ne aveva visti ad ogni incrocio; dalla strada, sterrata e sassosa, che proseguiva serpeggiando sul bordo dei precipizi, partiva il sentiero che si internava nell’altipiano. Ma, evidentemente, il bivio a cui aveva chiesto di scendere era quello sbagliato. Aveva comunque seguito il sentiero segnato sulla carta topografica, ma non era sicuro di essere andato nella direzione giusta e, inoltre, abituato a muoversi nel reticolo delle strade numerate e ben conosciute della città, non aveva pensato a portare con sé una bussola. Per puro miracolo aveva salvato la carta, tenendola in tasca, quando aveva perso il bagaglio in una delle stazioni degli autobus. Era stato così sciocco da andare alla toilette senza portarsi dietro il sacco in cui, prima di partire, aveva ficcato tutto quello che gli era sembrato necessario per il viaggio: due ricambi di biancheria, un paio di camice, calzini e anche un paio di scarpe più robuste di quelle che teneva ai piedi. Ma la cosa più grave era che gli avevano portato via anche il cappotto. E non aveva più incontrato, da quel momento in poi, un posto dove poter comprare almeno parte di quanto gli era stato rubato. Fiutava dappertutto un’aria di pericolo; non si fidava della gente di campagna, da cui sapeva di non potersi aspettare altro che una brutale indifferenza di fronte al dolore e alla morte. Aveva lasciato la città polverosa, sporca, anch’essa sicuramente piena di pericoli, ma anche di rumori, colorita e vivace, e si sentiva inquieto, senza i suoi abituali punti di riferimento, nel silenzio interrotto solo dal fruscio del vento sulle cime degli alberi, dal richiamo di uccelli o altri animali sconosciuti, rumori e suoni privi, per lui, di significato. Sapeva che sarebbe potuto sparire senza lasciar traccia, che nessuno dei suoi amici e conoscenti avrebbe potuto trovare almeno un punto di riferimento da cui partire per iniziare a cercarlo, e questa coscienza, benché lo turbasse, gli dava allo stesso tempo una nuova capacità di distacco e come di obiettività che non aveva mai avuto nel considerare se stesso. Abbandonato e indifeso, privo della più elementare protezione, quella che si ha automaticamente, senza nemmeno cercarla e invocarla, dal vivere in una società civile, con polizia e tribunali, con ambulanze e ospedali. Bene, ora era qui, nella casa buia e fredda di questi montanari abbrutiti dall’ignoranza e dalla miseria, si era fatta notte, e non riusciva a mettere ordine nei suoi pensieri. Era disturbato dal pullulare della vita animale nel chiuso della stanza, dal russare dei due adulti e dal respiro irregolare, interrotto da colpi di tosse dei bambini, dal moltiplicarsi degli scricchiolii e dei fruscii in ogni punto dell’oscurità, dal grosso topo che gli si era avvicinato e lo aveva esaminato con tranquilla impudenza, dalle gelide folate di vento che passavano attraverso le fessure della porta e delle pareti di fango e paglia, che gli sembravano una troppo fragile difesa contro l’orrore della notte dell’altipiano. Mi sto lasciando prendere da fantasie malsane, provò a dire a se stesso. Si guardò intorno, con una strana sensazione d’irrealtà. Quattro giorni fa, sì, dove si trovava appena quattro giorni fa? Se chiude gli occhi, vede la strada su cui si affaccia la finestra del suo appartamento; gli arriva, assordante, il frastuono del traffico, appena attutito dai vetri delle finestre chiuse. Durante il viaggio, ha inutilmente cercato di soffocare la coscienza, o il rimorso, di aver commesso uno sbaglio, di essersi basato su alcuni indizi vaghi e inconsistenti per prendere una decisione così importante, che gli avrebbe cambiato comunque la vita, che anzi gliel’ha già cambiata. Non può far altro che rimproverarsi, per averla presa, questa decisione, in un modo così irrazionale e improvvisato, incredibile, alla sua età. Come aveva potuto mettere a rischio, con tale superficiale avventatezza, la propria tranquillità, il diritto, conquistato negli anni, di trascorrere una vecchiaia serena, di finire la propria vita in santa pace? Si rimprovera di aver esposto un uomo anziano, un vecchio, quale è lui, ai rischi di un viaggio che anche da giovane avrebbe forse dovuto evitar di affrontare. E che certamente, alla fine, sarebbe risultato un viaggio inutile. Tutto ciò, la decisione di partire senza neanche avvisare gli amici più intimi, la partenza immediata, in piena notte, come un ladro, con una sacca da viaggio e un cappotto buttato sulle spalle, tutto ciò e quello che ciò comportava, come l’aver dimenticato di portare con sé le medicine che doveva prendere ogni giorno,  per quella assurda, incredibile lettera. Sì: assurda e incredibile, al punto che non è ancora pienamente convinto della sua esistenza e deve ad ogni momento tirarla fuori dalla tasca, aprirla, toccarla, rileggerla.

Non ne è ancora convinto. Gli sembra ancora (come gli è subito sembrato, quando s’è trovato in mano quella vecchia busta macchiata, sudicia, con un francobollo ormai non più in uso, di un’altra epoca, da collezionista filatelico) uno scherzo che non riesce a qualificare. Ma uno scherzo di chi, se non c’è più nessuno, al mondo, che conosca la sua storia? E, inoltre, a chi potrebbe mai venire in mente di scherzare con una storia come quella? Di scherzare con quella che è stata la tragedia della sua vita? Neanche al peggiore dei suoi nemici. Ma i suoi nemici, se pure ne ha avuti, sono ormai tutti morti, da anni, che riposino in pace, anche loro: l’odio e il male si sono spenti con la morte. Si cava di tasca il portafogli e osserva, nell’oscurità appena rischiarata dalle braci, la busta con il suo nome, scritto da una mano che non può non riconoscere, il francobollo annullato da un timbro illeggibile, gli altri timbri e le annotazioni che la ricoprono quasi interamente, dando l’impressione che la lettera abbia percorso, durante un numero imprecisabile di anni, un cammino tortuoso, labirintico, rincorrendo i suoi spostamenti da una città all’altra, da un paese all’altro, da un continente all’altro, senza mai riuscire a raggiungerlo, finché, solo ora, quando ormai è diventato troppo vecchio per ricevere una qualsiasi notizia, quando finalmente si è fermato, ha messo fine ai suoi vagabondaggi… No, non può essere uno scherzo, a meno che non si tratti di uno scherzo del destino, dello scherzo di un dio ferocemente beffardo, un dio scorticatore, come quello degli Aztechi. Toglie dalla busta il foglio e legge ancora una volta, benché ne sappia a memoria ogni parola, la lettera scritta da una mano che può essere solo quella mano. Si è messo in viaggio per rispondere all’appello di questa lettera, l’ultima di un carteggio iniziato sessant’anni prima, e interrotto dopo meno di un anno, malgrado tutti i suoi tentativi per riallacciarlo, le sue lettere disperate, le sue suppliche. Interrotto per tutta la vita. Fino a quattro giorni prima, quando aveva trovato quella lettera nella sua cassetta postale, frammista a  plichi di pubblicità e fatture, dandogli l’illusione della ripresa di una corrispondenza i cui ritardi ed interruzioni erano forse dovuti solo agli incerti del servizio postale, alla sua precarietà, alla insicurezza delle strade, al capriccio delle frane, agli straripamenti dei torrenti e dei fiumi, ai treni fuori orario su linee intricate e frammentate, con coincidenze e collegamenti illusori, all’incertezza del suo domicilio, tante volte mutato nel corso dei decenni, del suo recapito. E, tuttavia, malgrado l’incredibile ritardo, era una lettera urgente, pressante, con l’urgenza che sarebbe stata giustificata sessant’anni prima, ma come escludere che potesse essere appunto una lettera di sessant’anni prima, che fosse la risposta alle sue lettere accorate di sessant’anni prima, andata smarrita, rimasta dimenticata in fondo a un sacco postale, trattenuta con la dicitura “recapito sconosciuto” nella casella postale di una stazioncina fuori mano, e recapitatagli solo ora, quattro giorni fa, da San Pedro, come attestato dall’ultimo inequivocabile timbro, ma pur sempre e comunque urgente e tremendamente pressante? Appena due, tre, no, quattro giorni fa, perché sono già passati quattro interi giorni, ha preso il primo treno della mattina, per arrivare all’ultima città collegata dalla ferrovia e per di lì ripartire in autobus per l’altipiano. L’attraversare in taxi la città prima dell’alba, per strade ancora deserte, e la stazione con i treni fermi, i pochi viaggiatori infreddoliti, la luce rossastra del bar notturno, l’odore del caffè, gli hanno trasmesso sensazioni misteriosamente collegate con altri momenti della sua vita, con altre partenze, e il viaggio è stato di una lentezza esasperante, come se stesse davvero risalendo la china ripida, ardua, scoscesa di sessant’anni di vita.

«Se vuole arrivare a San Pedro», dice l’uomo, «dobbiamo metterci in cammino prima di giorno».

Il vecchio lo guarda. «Non sei mai stato a San Pedro».

«Certo che ci sono stato, signore. Ci sono stato non molti anni fa. Non è difficile, per me, arrivarci. Conosco bene le strade».

«Ne parleremo domani», dice il vecchio. È stanco e vuole riposare, ma soprattutto vuole poter riannodare la trama interrotta dei suoi pensieri. La donna e i bambini sono animali spauriti; ritirati nel loro angolo, non gli hanno rivolto uno sguardo di cui lui si sia accorto. L’uomo ha messo in mano al vecchio un piatto di ceramica sbreccato con del cibo che la donna ha preparato sul focolare formato da tre pietre.

«Per dormire può sdraiarsi accanto al fuoco», dice l’uomo.

Il vecchio è seduto sullo sgabello, di fronte al focolare che già da molte ore non manda più calore. Mi ammalerò prima di arrivare a San Pedro, pensa. Questa gente non ha da darmi nemmeno una coperta o un mantello. Si china sul focolare e soffia sulle braci, ma riesce solo a sollevare cenere e fumo. Si stringe in sé stesso, sotto la sua mantellina leggera, cerca di dormire sullo sgabello; non può mettersi in terra accanto agli altri, s’immagina uno strisciare e un correre di bestiole immonde, nel buio, sul sudicio pavimento in terra battuta. In realtà non riesce a prender sonno perché da quando ha letto la lettera e ha deciso di mettersi in viaggio è tormentato dall’idea che ormai, dopo sessant’anni, quando le sarà davanti, se lei sarà davvero lì ad aspettarlo, ancora viva e cosciente, lei non lo riconoscerà. Dovrà dirle: «Sono io», cercando di ritrovare almeno la voce di un tempo, ma anche la sua voce è cambiata, s’è fatta strascicata e roca, ha perso il timbro energico, profondo che la distingueva un tempo da ogni altra voce. Pensa che sarà una scena tremendamente penosa quella che gli toccherà vivere: a lui, e anche a lei. Se il suo aspetto esteriore è cambiato tanto da renderlo irriconoscibile è perché anche dentro è diventato un’altra persona, è perché ormai, senza dubbio, ha acquisito quel tipo di sensibilità e quell’atteggiamento che hanno i vecchi, che caratterizza i vecchi, facendone quasi una specie a parte dal resto dell’umanità. Forse perché il freddo è così intenso e prova schifo e disagio per lo squallore e la sporcizia e il cattivo odore in cui è immerso, sente con un’intensità particolare, come non gli è mai successo prima, il fatto, incontestabile, di essere vecchio. Vecchio e stanco. Anche più vecchio, gli viene di pensare, di quanto non fosse arrivato ad esserlo suo padre, un uomo di un’altra epoca, con cui gli era difficile scambiare idee, chiuso com’era in un mondo incomprensibile per lui, ancora giovane quando suo padre era ormai giunto al tramonto della vita. Quando mi presenterò a lei, mi prenderà per mio padre, gli viene di pensare. Parlerò con la sua voce di vecchio, come se fossi lui.

Il freddo è ora così intenso che non riesce a riscaldarsi nemmeno stringendo forte le braccia contro il corpo e tendendo i muscoli fino a provar dolore, e il buio è completo: per quanto cerchi di aprire gli occhi, vede solo dei lampi rossastri, intermittenti, non sa se siano le braci morenti nel focolare o se fuori sia scoppiata una burrasca con lampi che rischiarano il cielo nero come pece, o se invece stia già dormendo e sognando. Ma in realtà non sta stringendo le braccia al corpo, solo ora si è reso conto che non sta stringendo le braccia né contraendo i muscoli; probabilmente, pensa, ho solo creduto di farlo, per chissà quanto tempo, e non riesco a capire perché mi senta così sfinito, così mortalmente sfinito. Non sa nemmeno se stia ancora seduto sullo sgabello accanto al focolare, o se si sia addormentato, senza rendersene conto, e il corpo sia scivolato a terra. Ma sì, sta ancora scivolando verso terra, verso il basso, verso un’oscurità ancora più fitta, che quei bagliori rossastri interrompono di tratto in tratto, senza però riuscire a rischiarare il buio in cui si trova immerso. Sta affondando, sì, sta affondando a testa in giù, in un’orribile vertigine da cui sa che non avrà più la possibilità di uscire, che durerà per sempre, anche dopo che sarà morto, perché la morte è sicuramente questa vertigine, null’altro che questa vertigine terribile, l’incubo che sta vivendo lo ha paralizzato, gli ha tolto ogni capacità di reazione, l’unica via di uscita sarebbe gridare tanto forte da rompere il sonno e svegliarsi, ma sa che nemmeno questo è possibile, che anche la bocca e la lingua sono paralizzate, che non c’è da fare altro che lasciarsi cadere e aspettare che la caduta lo depositi in fondo all’abisso interminabile, se quest’abisso ha un fondo. Sta cadendo da così lungo tempo che non è più possibile che sia davvero un incubo quello in cui si trova; man mano che la caduta si fa più vertiginosa, prende coscienza del fatto che non sta sognando, che non si trova nella stanza al buio, che non ci sono, per terra, i corpi addormentati della donna, dell’uomo e dei bambini, che il topo non sta frugando sotto la sua mantellina, che fuori non c’è la notte piena di vento. Quando si sente pungere la mano, capisce di essere sveglio, che qualcosa d’irreparabile deve essergli successo, se non riesce a districarsi dal marasma delle immagini che gli si affollano come in un vortice nella mente.

Adesso era di nuovo calmo. Il batticuore che lo aveva preso quando si era allontanato, cauto e silenzioso come un puma, quanto bastava per roteare il braccio e scagliare il sasso con la fionda, era cessato non appena lo aveva visto afflosciarsi e cadere a terra. Aveva avuto paura che il vecchio si girasse e lo vedesse con il braccio alzato. Sarebbe stato difficile colpirlo, se si fosse girato e lo avesse visto proprio in quel momento. Non ricordava di avere sulla coscienza altre vite. Quel vicino che aveva accoltellato anni prima, per colpa del quale aveva dovuto lasciare il villaggio e ritirarsi con la famiglia in montagna, apparteneva a una storia completamente diversa, erano tutti e due ubriachi già da prima di cominciare a discutere.

Incollerito per aver provato paura, spinse duramente col piede il corpo del vecchio agonizzante. Ma non era facile spostarlo da dove era caduto. Era alto e grosso, molto più alto e grosso di lui, il vecchio. Si piegò, quindi, e, puntando i piedi e stendendo le gambe, fece forza con entrambe le mani. Il corpo si girò. Ora il vecchio era disteso sulla schiena. Gli occhi aperti guardavano il cielo, ammesso che fossero ancora capaci di vedere. Sotto la testa si era formata una pozza di sangue. L’uomo pensò che avrebbe dovuto spingere il corpo fino al precipizio. Da quando aveva preso la decisione di uccidere il vecchio, aveva pensato a come fare per non lasciare traccia del delitto. Se ci fosse riuscito, avrebbe potuto restare tranquillo per tutta la vita, con i soldi che quello certamente aveva con sé. Anni prima, quando aveva litigato con quel vicino, lo aveva abbandonato moribondo in terra appena fuori del villaggio, aveva buttato via il coltello poco lontano di lì, e aveva ancora indosso gli abiti macchiati di sangue quando durante la notte erano venuti ad avvisarlo che lo stavano cercando. L’esperienza insegna, pensò. Se mai avessero trovato il vecchio in fondo al burrone, cosa difficilissima, in quel deserto, avrebbero pensato che ci fosse caduto per disattenzione, perché si era sporto troppo, o perché era sdrucciolato sui sassi coperti dalle foglie sul bordo del precipizio. Per questo, per una precauzione forse anche eccessiva, l’aveva colpito con la pietra e non con il machete. L’avrebbero trovato con la testa fracassata, come succede quando si cade sulle rocce da quell’altezza. Ma non doveva restare sangue nel posto dove l’aveva aggredito. Era difficile che qualcuno passasse di lì nelle prossime ore o nei prossimi giorni, ma quello che in genere non succede mai può succedere in un momento, lo sapeva molto bene. La vista del sangue avrebbe insospettito un eventuale viandante che si sarebbe, eventualmente, incaricato di sporgere denuncia e, come può capitare una volta su mille, la denuncia avrebbe potuto essere raccolta da un poliziotto particolarmente zelante e allora, quindi… Se fosse riuscito a far credere che era stata una disgrazia, quel delitto era come se non fosse stato compiuto, diventava davvero una disgrazia, un incidente, un disgraziato accidente. Quel vecchio, se fosse arrivato fin lì senza di lui, avrebbe cercato di andare avanti, di scendere giù per il precipizio, e sicuramente sarebbe caduto, si sarebbe ammazzato da solo. Non ho fatto altro che quello che lui si sarebbe fatto da solo, se fosse venuto qui senza di me. L’unico guaio è che non è morto subito e che, per non farlo soffrire, dovrei colpirlo ancora una volta sulla testa, o spingerlo ancora vivo nel burrone. Non riusciva a capire nemmeno lui perché, all’improvviso, fosse assalito dallo scrupolo, da una specie d’inquietudine che assomigliava a un pentimento o addirittura a un rimorso. Ormai dovrei finire quello che ho incominciato, non voglio portarmi dietro per tutta la vita il ricordo di questo infelice, lasciando che muoia così, come una bestia, soffrendo una agonia che può durare per chi sa quanto tempo. Era appunto questo che lo angustiava: il pensiero che non sarebbe più riuscito a liberarsi dal fantasma di quel vecchio. Ci avrebbe lottato per tutto il resto della sua vita, di giorno, ma soprattutto di notte, con quel fantasma. Magari anche nell’aldilà, per tutta l’eternità, perché chi mai può sapere che cosa succede dopo la morte. Una cosa, infatti, pensava, è uccidere in un impeto, per rabbia o paura, quando si perde la testa, altra cosa è uccidere, a sangue freddo, un uomo indifeso ed innocuo. È questo secondo tipo di omicidio che impedisce al fantasma del morto di trovar pace, di ritirarsi e di lasciar tranquillo l’uccisore. Perché il vecchio non aveva fatto nulla per provocarlo, anzi si era comportato fin troppo gentilmente con lui. Gli aveva dato la possibilità di guadagnare onestamente una grossa somma di denaro.

Si sedette sui talloni vicino al moribondo. Con un rametto secco punzecchiava di tanto in tanto una mano del vecchio disteso sulla schiena. La mano reagiva con una contrazione delle dita livide e gonfie.

«Non ce la fai a morire», disse ad alta voce l’uomo, convinto che il vecchio potesse udirlo e magari rispondergli. «Devi sbrigarti a morire, così non sentirai più il fastidio delle mosche, e della vampa del sole».

Con lo stesso rametto cominciò a cacciare le mosche dalla faccia del moribondo.

«È inutile che ti abbia ammazzato se non ce la fai a morire e io non ho il coraggio di finirti», disse.

«Ti si è proprio spaccata», disse seguendo con la punta del ramo i bordi della frattura. «Forse è successo così perché sei vecchio e calvo. Non saresti durato più a lungo, vecchio come sei. Consólati: non ti ho accorciato di molto la vita».

Ora la mano del vecchio, anche a pungerla forte, non si contraeva più. L’uomo aveva smesso di cacciargli le mosche dalla faccia, che aveva preso il colore della cenere ed era proprio, adesso, la faccia di un morto, indifferente a tutto quello che gli succedeva intorno. Erano arrivati anche dei mosconi neri che gli ronzavano intorno alla testa, rabbiosi, duri, quando lo colpivano, come sassi scagliati dalla fionda.

Nelle lunghe ore che era durata l’agonia, lo aveva vigilato, osservando i cambiamenti del viso, che era passato da un’espressione di sorpresa sdegnata a una completa tranquillità, come se il vecchio, poco a poco, con il passare delle ore, si fosse messo in pace con sé stesso e con la morte. Il respiro, invece, si era andato facendo sempre più affannoso, con un rumore di pietre trascinate in un sacco. Poi anche il respiro s’era acquietato, tanto che a un certo momento l’uomo, benché stesse attento ad ogni mutamento, non riuscì più a capire se respirasse o no. Aveva passato tutte quelle ore a cacciargli le mosche dalla faccia e dalla ferita perché il vecchio morisse senza provare ribrezzo del proprio corpo; era convinto che fosse giusto comportarsi così con quel vecchio. Sì, lui si era accorto che il vecchio, quando ancora camminavano insieme, temeva di essere aggredito e ammazzato da lui in quel deserto, ed aveva trasmesso anche a lui la sua paura, questo era stato l’errore del vecchio. Se non avesse avuto tanta paura di me, forse non avrei trovato il coraggio per ucciderlo, pensò l’uomo. Anche il cane attacca solo quelli che ne hanno paura, figuriamoci un uomo, pensò ancora, contento di aver avuto quell’idea che, in qualche modo, spiegava e forse perfino giustificava il suo comportamento. Era fatale che andasse così, il vecchio non avrebbe dovuto aver tanta paura. Ma ora che lo aveva assistito durante l’agonia, il vecchio era come se fosse diventato il suo padrino, perché una veglia lunga come quella creava un legame che andava oltre la morte, lui lo sapeva. Erano diventati come parenti stretti, tanto più che era al vecchio che doveva essere grato se, con la sua famiglia, sarebbe infine uscito dalla miseria in cui si trascinava da sempre, come se avesse vinto il primo premio della lotteria. Certo, era come se fosse il suo padrino, quel vecchio moribondo, per questo lo aveva trattato con tutti i riguardi, mentre moriva, gli aveva asciugato il sangue e il sudore dalla faccia, e aveva cacciato le mosche che lo infastidivano. Gli doveva tutta la sua riconoscenza, a quel povero vecchio disgraziato. All’ultimo momento, quando la sua respirazione si era improvvisamente accelerata, gli aveva perfino tenuta stretta la mano, per dargli coraggio.

Dopo che era morto, aveva potuto frugarlo con tranquillità. Ora che non poteva più muoversi, non avrebbe opposto resistenza con quel suo corpo così grande e massiccio che però, ormai, a guardarlo steso in terra, non sembrava più così grande, era come se si fosse rattrappito e accorciato, per il gran freddo che doveva aver sentito. Gli aveva chiuso gli occhi, perché non continuasse a guardarlo, dopo morto, come aveva fatto mentre agonizzava, con quello sguardo severo, perché sulla faccia, che adesso era anche più vecchia e stanca, era rimasta a lungo un’espressione di sorpresa e di collera, sembrava proprio che lo stesse ancora rimproverando. Era lui, invece, che aveva tutta la ragione di rimproverare il vecchio che lo aveva messo in quella situazione, facendogli credere che gli avrebbe trovato in tasca una somma sufficiente a farlo uscire dalla miseria. Cristo, s’era alzato di scatto, furioso, dopo avergli frugato in tutte le tasche, e avergli perfino lacerato la fodera della giacca e strappato di dosso la camicia e i pantaloni, fino a lasciarlo nudo, che era una vergogna, lo sapeva, sì, ma non poteva farci nulla, era troppo pieno di rabbia, era una vergogna spogliare nudo un vecchio di quel genere, un uomo di città così corretto e educato.

Finché il vecchio aveva agonizzato, lui aveva aspettato con pazienza che morisse. Se ne avesse avuto il coraggio, lo avrebbe finito a sassate o addirittura col machete. Frugargli le tasche ed andarsene, dopo aver sdirupato il cadavere e cancellato ogni traccia, questo era quanto aveva avuto l’intenzione di fare fin dall’inizio. Per questo l’aveva portato fin lassù, facendo come se seguisse la strada che il vecchio gli aveva indicato sulla mappa. Ed ora, ecco, gli aveva trovato addosso solo un portafogli pieno di carte, sì, dovevano essere le carte che continuamente il vecchio tirava fuori e si metteva a leggere, glielo aveva visto fare anche la notte che aveva passato in casa sua, e poi due, tre, quattro, cinque volte durante il cammino. Doveva trattarsi di qualcosa di prezioso, aveva pensato, se il vecchio ci tornava sopra tanto spesso, se occupava tanta parte del suo tempo a guardare in quelle carte. Ed ecco: erano solo dei fogli bianchi con dei segni che qualcuno ci aveva tracciato, e che lui non aveva idea di che cosa significassero. Ma soldi, no, quasi niente soldi: così pochi soldi che non riusciva a capire come il vecchio potesse aver affrontato il viaggio con in tasca una somma così ridicola. Ma certo, pensò, avrei dovuto immaginarmelo, se solo avessi ragionato e non mi fossi lasciato prendere dall’entusiasmo. Avrei dovuto pensare che, se viaggiava a piedi, da solo, non poteva essere un uomo ricco, doveva essere anche lui una specie di miserabile, anche se un miserabile di città, che, a confronto con un contadino, però, sembra quasi un ricco. San Pedro, questo era il posto dove stava andando e dove certo qualcuno lo stava aspettando, un posto che lui aveva finto di conoscere per non perdere quell’opportunità, ma che in realtà non aveva mai neppure sentito nominare. Perché andava a San Pedro, quel vecchio? In quelle carte che lui non sapeva leggere, doveva esserci scritto il segreto di quell’uomo, per cui aveva lasciato la città e messo a rischio la vita, come era successo. Sentì disprezzo e odio per quel vecchio che l’aveva ingannato in quel modo. Non meritava niente, quel vecchio, non meritava che lui avesse perso tanto tempo a cacciargli le mosche dalla faccia, a ripararlo dal sole. Non meritava tutte le cure che lui gli aveva prestato. Per questo, ora, non aveva avuto più scrupolo a spingerlo sul ciglio del precipizio, per lasciarlo cadere di sotto. E ora? Sentiva, oscuramente, che la spiegazione di tutto stava nelle carte che aveva trovato nel portafogli che il vecchio teneva nella tasca dei pantaloni, ripiegate e chiuse in una busta, come se si fosse trattato di qualcosa di prezioso, la spiegazione stava nei caratteri che riempivano le pagine bianche, che qualcuno aveva scritto, per comunicare certamente dei pensieri, delle informazioni importanti, che lui non era capace di decifrare. Per quanto a lungo le osservasse e riosservasse, quelle carte non gli avrebbero mai comunicato nulla, non gli avrebbero mai parlato. Era un mistero da cui era escluso. In quei fogli, pensò, c’era sicuramente racchiuso il segreto del vecchio, che lui aveva distrutto, senza rendersi conto che, una volta che il vecchio fosse morto, nessuno più avrebbe potuto conoscerlo e rivelarlo, quel segreto. Sentì rimorso, per quello spreco che lui aveva provocato, senza rendersene conto, un rimorso che gli andò crescendo dentro, oscuro e doloroso, come una ferita a un piede, che impedisce di poggiare in terra la pianta, e rende invalida tutta la persona. Anche se mi succederà di uccidere altri uomini, non sarà mai come con questo, pensò. Mi sono legato a lui come non sono mai stato legato a nessuno.

Si trascinò sotto l’ombra dell’albero, camminando come se fosse ferito a morte, con quei fogli misteriosi in mano, quei fogli che erano indubbiamente il bene più prezioso custodito dal vecchio, e si mise ad aspettare che calasse il sole, per prendere la strada di casa col fresco della notte.

ANDREA BARBARANELLI