“ReArm Europe”: la difesa come progetto politico, non solo militare. (PARTE I)
di PAOLO POLETTI ♦
PARTE I
In un’epoca segnata da guerre ibride e crisi della verità, l’Europa si trova al centro di un confronto esistenziale che va ben oltre le armi e i bilanci della difesa. La minaccia rappresentata da Vladimir Putin — e da altri autocrati come Xi Jinping — non si manifesta solo sui campi di battaglia, ma si insinua nei meccanismi delle nostre democrazie, sfruttandone le crepe e le debolezze.
L’ex segretaria di Stato americana Madeleine Albright, con la sua lucida visione del totalitarismo, ci ricorda che la fiducia cieca nella solidità delle istituzioni democratiche può diventare un punto debole: la libertà si perde nell’inerzia quotidiana. E mentre noi ci adagiamo in questa apparente stabilità, i regimi autoritari ci studiano, avanzano.
Putin non vuole semplicemente annettere territori: vuole riscrivere l’ordine mondiale, affermare una zona d’influenza russa a ovest, sradicare i valori democratici europei e dimostrare che le democrazie sono deboli, divise, manipolabili. Lo fa con la guerra in Ucraina, ma anche con il finanziamento di movimenti estremisti, la disinformazione digitale, gli attacchi cibernetici, la cooptazione di leader sovranisti e l’intossicazione del dibattito pubblico.
Per citare un esempio recente, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, durante un discorso tenuto a Marsiglia il 5 febbraio 2025, aveva paragonato l’invasione russa dell’Ucraina alle “guerre di conquista” della Germania nazista, affermando che “l’aggressione russa contro l’Europa è di questa natura”. Questa condivisibilissima considerazione, non solo ha suscitato scomposte reazioni da parte del Cremlino, ma, soprattutto, una serie di attacchi DDoS (che mirano a rendere un sito o servizio online inutilizzabile inondandolo di traffico di dati inutili) contro diversi siti web governativi italiani, tra cui quelli dei Ministeri della difesa, dell’interno e dei trasporti, nonché di alcune forze dell’ordine, da parte del gruppo di hacker filorusso NoName057.
Eppure, già nel giugno 2024, durante una visita ufficiale in Moldavia, il Presidente della Repubblica aveva denunciato una “diffusa tempesta di fake news” in Italia attribuibile alla disinformazione russa, sottolineando la necessità di affrontare tale fenomeno a livello europeo e nell’ambito della NATO.
Putin ha un’ossessione: evitare alla Russia la fine dell’Urss ed entrare nella storia come “il grande raccoglitore delle terre russe”. E vuole farlo, sul piano territoriale, recuperando quanto possibile dell’ex spazio sovietico (a cominciare dall’intera Bielorussia e da gran parte dell’Ucraina) e, sul piano identitario, sostenendo la continuità della propria missione con quella millenaria dello zarismo che vedeva nella Russia la “Terza Roma”. Non a caso Putin disprezza Karl Marx, che ritiene ebreo renano visceralmente russofobo ed è convinto che Lenin sia stato un “virus” iniettato dal Kaiser di Germania nel corpo russo (in questo concordando con Churchill). Putin, dell’esperienza sovietica, apprezza solo la estensione territoriale, la politica di potenza ed il prestigio internazionale.
Perciò, l’invasione dell’Ucraina non ha il solo scopo di ricondurre all’ordine un Paese ribelle (oltretutto, per Putin l’Ucraina è “Piccola Russia”, proprietà dello zar, sorella minore, con la Bielorussia, di Madre Russia), bensì dimostrare all’occidente di essere in grado di modificare gli equilibri geo politici in Europa e farsene parte essenziale, anzi arbitro.
E dimostrare al potenziale alleato cinese che le autocrazie possono essere modelli vincenti in un mondo che ha abbandonato la cooperazione per la competizione.
Avrebbe potuto ottenere qualcosa di simile diplomaticamente? Certamente si: ma non sarebbe bastato. Occorreva una prova di potenza.
Per questo, Putin accetterà una tregua completa solo quando sarà sicuro di poter raggiungere quegli obiettivi.
Il caso rumeno è emblematico: un candidato oscuro, cresciuto a dismisura grazie ai social e a fondi di dubbia provenienza, con legami diretti con la Russia e un bodyguard ex Brigata Wagner. Fermarlo con decisione non è solo legittimo: è necessario. Ma in un clima avvelenato, anche la difesa della legalità viene presentata come “golpe” da opinionisti e politici occidentali simpatizzanti del Cremlino.
La guerra che Putin conduce contro l’Europa è quindi anche culturale e simbolica. E non è da solo. Le convergenze con i settori più radicali del trumpismo e con personaggi influenti come Elon Musk mostrano l’esistenza di un fronte trasversale, ostile all’Europa dei diritti e delle libertà. L’attacco non è frontale, ma subdolo. Mira a erodere la fiducia, distorcere la percezione, indebolire le istituzioni dall’interno.
L’Unione Europea risponde a queste sfide con il piano “ReArm Europe”, un’iniziativa da 800 miliardi di euro per potenziare la difesa comune. Il piano si articola in:
- 150 miliardi di prestiti per la difesa congiunta, concentrati su sistemi di difesa aerea e missilistica;
- 650 miliardi derivanti dalla sospensione del Patto di Stabilità, consentendo agli Stati membri di investire nella difesa senza che queste spese incidano sui parametri di deficit;
- rimodulazione dei fondi europei, con una possibile riallocazione di risorse destinate alla coesione economica e sociale verso il settore della difesa;
- coinvolgimento della Banca Europea per gli Investimenti, che dovrebbe finanziare l’industria della difesa con strumenti dedicati.
Il piano, inoltre, prevede la razionalizzazione come elemento chiave: più coordinamento, meno sprechi, più interoperabilità, con l’obiettivo finale di costruire una difesa europea credibile e sostenibile.
È una risposta adeguata? In questo contesto, parlare solo di riarmo è miope.
Anche il termine “ReArm Europe” può risultare fuorviante per tre motivi:
- sottolinea il “riarmo”, non l’integrazione. Manca il richiamo esplicito a coesione, interoperabilità e strategia comune, che sono invece i veri nodi da affrontare;
- rischia di alimentare diffidenza nell’opinione pubblica;
- non comunica bene il progetto politico: se l’ambizione è una politica di difesa comune europea, allora il nome dovrebbe trasmettere visione, integrazione, autonomia. “ReArm Europe” invece trasmette solo la dimensione finanziaria (riarmo = soldi in armi), non quella strategica o istituzionale.
Il riarmo europeo può essere necessario ma non sufficiente: serve anche una presa di coscienza collettiva e una campagna di informazione per svelare la natura reale dell’attacco in corso, che non è una rivoluzione culturale, ma un’aggressione mascherata ai valori democratici.
Sgombriamo quindi il campo dall’ipotesi di possibili invasioni: Putin oggi non vuole e non può. Il vero pericolo è l’irrilevanza europea, a cominciare dai propri valori democratici.
Nel nuovo scenario geopolitico, con gli Stati Uniti (versione Trump) che si disimpegnano dagli affari internazionali, Putin mira a espandere la sua sfera d’influenza a Ovest per non restare schiacciato dalla Cina, da cui dipende tecnologicamente. La Russia, in questo ordine tripolare (Usa-Cina-Russia), rischia comunque di diventare il “vice manesco” della Cina, mentre l’Europa, se non agisce, rischia l’irrilevanza politica e strategica.
È vero che c’è un cambiamento nella politica di sicurezza americana. Già dai tempi di Obama, gli Stati Uniti hanno richiesto agli alleati europei un contributo maggiore alla propria sicurezza. La crescente sfida della Cina nel Pacifico ha spostato le priorità strategiche di Washington, rendendo meno sostenibile un impegno massiccio nella difesa europea. Con Donald Trump, la richiesta è diventata un vero e proprio ultimatum: gli USA non garantiranno più la sicurezza dell’Europa senza un coinvolgimento economico diretto dei partner europei.
Ma dietro questa posizione c’è anche una problematica economica: il debito pubblico americano è cresciuto a livelli tali da richiedere una quota eccessiva del risparmio mondiale per essere rifinanziato.
Gli Stati Uniti, infatti, stanno incontrando crescenti difficoltà nel rifinanziare il proprio debito pubblico, che ha ormai superato il 124% del PIL. Il volume del debito, unito all’aumento dei tassi di interesse, sta facendo lievitare il costo del servizio del debito, rendendo sempre più oneroso attrarre investitori.
Tradizionalmente, gli USA potevano contare sul risparmio mondiale per collocare i propri titoli del Tesoro. Oggi, però, la domanda internazionale è in calo: Cina e Giappone stanno riducendo i propri acquisti e la competizione globale per il risparmio si è intensificata. In un contesto in cui anche l’Europa e altri Stati cercano capitali per finanziare il debito e le proprie priorità strategiche, gli Stati Uniti non possono più assorbire da soli la maggior parte del risparmio globale senza aumentare drasticamente i rendimenti.
Questa situazione contribuisce a spiegare perché Washington insista sempre più sul fatto che l’Europa debba investire in modo autonomo nella propria sicurezza, riducendo la dipendenza dal supporto americano.
Sì, serve una maggiore capacità difensiva europea. Ma non è sufficiente. Serve uno “scudo democratico” fatto di consapevolezza civica, trasparenza, resilienza istituzionale. Serve una potente campagna di informazione che spieghi ai cittadini che cosa è davvero in gioco: non solo l’Ucraina, ma il futuro della libertà in Europa.
L’Europa non rischia l’invasione fisica, ma la marginalizzazione politica e culturale. Se non agisce, finirà schiacciata in un mondo tripolare dominato da Stati Uniti, Cina e Russia.
In questo scenario, l’unica risposta possibile è affermare l’Europa come soggetto politico globale, capace di autodifesa, ma anche di proposta. Capace di rispondere alla forza con la forza, ma anche all’inganno con la verità, alla propaganda con la cultura, al cinismo con la memoria dei propri valori fondativi.
Perché — come ci ricordava Popper — difendere una società tollerante richiede, talvolta, l’intolleranza verso gli intolleranti. Ma sempre e soprattutto, richiede coraggio, lucidità e visione.
Se tutto questo è vero e se “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” (“Der Krieg ist eine bloße Fortsetzung der Politik mit anderen Mitteln”), massima di Carl von Clausewitz, generale e teorico militare prussiano del XIX secolo, allora la risposta di oggi dev’essere una risposta “politica” che si chiama “difesa europea” e presuppone due elementi:
- una politica estera comune;
- un’integrazione politica più profonda, perché la difesa comune impone una maggiore cessione di sovranità (a partire da una catena di comando sovranazionale).
Sono dinamiche difficili, di lungo periodo, ma inevitabili: il cammino “federale” va ripreso.
“ReArm Europe”, allora, può essere accettabile solo come primo passo in questa direzione, ma corretto di svariate incoerenze con tale obiettivo.
Anzitutto, per funzionare il piano dev’essere governato politicamente e sostenuto dagli Stati membri, superando resistenze nazionali e frammentazioni industriali.
PAOLO POLETTI (continua)
