Il bambino di legno
di ANDREA BARBARANELLI ♦
Subito arrivò la fine, la perdita, la distruzione, la morte di quei manichini, pupazzi fatti di legno. Allora fu provocata l’inondazione dagli Spiriti del Cielo, una grande inondazione fu fatta: arrivò sulle teste di quei manichini, pupazzi fatti di legno. POPOL-VUH
Molti anni fa, ero un bambino che passava le giornate a tirare sassi nel fiume. Avrei potuto fare come i miei fratelli, che giocavano insieme ai ragazzi del vicinato, andavano a cercare i nidi degli uccelli, catturavano le iguane con un laccio e se le trascinavano dietro, divertendosi a stuzzicarle e a farle arrabbiare, poverine, loro che sono così tranquille e non danno fastidio a nessuno, ferme immobili sui rami degli alberi, fuori del tempo che scorreva rapido per noi e per tutti gli altri, anche per l’acqua corrente, meno che per loro. Invece di andare con i miei fratelli, scendevo da solo per la scarpata di argilla rossa, ripida, scoscesa, che cominciava appena sotto i pali della nostra capanna, un piede dopo l’altro, facendo attenzione a non scivolare, giù fino al greto del fiume, coperto di fango e di sassi. Una volta lì, cercavo i ciottoli più lisci, piatti e rotondi; quando ne avevo in mano tre o quattro, entravo nella corrente, senza spingermi troppo avanti, per paura che mi trascinasse via, e li tiravo, piegandomi di lato e roteando il braccio, per farli rimbalzare sulla superficie dell’acqua. Il sasso saltava due, tre, quattro volte, perfino cinque o sei volte: brillava come un pesce salterino, prima di sparire sottacqua. Questo era il gioco che mi piaceva.
Il fiume era largo e lento. Lento vicino alla riva. Lontano dalla riva, dove l’acqua giallastra era attraversata da una corrente verde-azzurra, si vedeva che l’acqua scorreva più veloce. Lì, in mezzo al fiume, navigavano i battelli. I fumaioli si lasciavano dietro lunghi stracci neri che restavano sospesi sopra la superficie dell’acqua. Sui battelli c’erano animali, vacche, cavalli, chiusi in un recinto, ammassati, legati. Le persone, invece, sedute su file di panche, al riparo dal sole sotto le tettoie, passavano guardando dritto davanti a sé. Le guardavo passare e allontanarsi, su e giù per il fiume. Io le guardavo, ma loro non mi vedevano, non guardavano le scarpate di argilla rossa con sulla cima le capanne e le baracche del nostro piccolo villaggio, si vedeva che era gente che aveva solo fretta di arrivare là dov’era diretta. Le piroghe dei pescatori, invece, si accostavano fin sotto la riva, dove stavo io con i miei sassi. I pescatori indossavano pantaloni arrotolati ai ginocchi e avevano gesti cauti e precisi che li mantenevano in equilibrio sulle loro barche strettissime. Gettavano la rete che si apriva come una grande ruota e la ritiravano grondante, gonfia e pesante. I pesci, all’uscire dall’acqua, brillavano.
Quando il fiume cresceva, si formava, a perdita d’occhio, una laguna da cui affioravano, qua e là, le cime degli alberi e le montagnole di terra su cui erano costruite le nostre capanne: restavamo isolati, circondati dall’acqua, noi sulla nostra collinetta, i nostri vicini sugli altri isolotti. Non potevo scendere al fiume sdrucciolando per la scarpata; la scarpata non c’era più, sommersa dall’acqua che arrivava sulla porta della nostra capanna. Dappertutto era acqua e solo acqua. Mio padre staccava la piroga dal palo della veranda, i miei fratelli gli passavano la pagaia, salivano sulla piroga, insieme a lui; mi facevano smorfie, per prendermi in giro, mentre si allontanavano, visto che io non potevo andare con loro, dovevo restare con la mamma; ridevano fra loro, e subito si dimenticavano di me, si giravano a guardare avanti, andavano dai loro amici, nostro padre li accompagnava, aveva anche lui da fare con i vicini. Io mi sedevo sullo scalino di legno, umido, a pelo dell’acqua, e rimanevo con i piedi nell’acqua, tirando su col naso, perché mi veniva di piangere. Mia madre mi vedeva sul ciglio della scarpata, un passo più avanti l’acqua era profonda, mi prendeva in braccio, oooplà, e mi portava dentro casa, ridendo. Era sempre allegra, mia madre: rideva anche in momenti che non sembrava ci fosse ragione di ridere, vedeva sempre il lato divertente delle cose. Quando piangevo, cominciava a farmi il solletico finché non scoppiavo a ridere, anche se controvoglia e con rabbia.
A partire da una certa epoca, ci fu un cambiamento, così, da un giorno all’altro, quasi all’improvviso. Mia madre non rideva più. Mio padre, chi sa perché, ad ogni momento mi chiedeva: Hai mangiato? Vuoi dormire? Mi fermava, quando gli passavo accanto, mi bloccava afferrandomi per i polsi, mi guardava fisso negli occhi, e mi faceva queste domande. Non sapevo che rispondere, abbassavo gli occhi, mi veniva da piangere. Mia madre, invece, non mi faceva domande. Mi guardava, seria seria, e correva al fornello, a testa bassa, a rimescolare la zuppa.
Io passavo tutto il tempo sguazzando nelle pozze d’acqua vicino alla riva; guardavo i pesciolini che c’erano rimasti intrappolati quando l’acqua del fiume si era ritirata, cercavo di toccarli con un bastoncino, per vedere come si muovevano. I miei fratelli mi dicevano: Che fai?, ma non si fermavano con me, se ne andavano a giocare con i loro compagni. I giochi che facevano non m’interessavano, mi piaceva stare da solo con i miei pesci. Quando ne catturavo uno, lo mettevo in una buca che avevo scavato nella terra umida dietro casa. Lo lasciavo nuotare con gli altri pesci che ci avevo già messi. Osservavo come crescevano. Alcuni diventavano grandi, più o meno rapidamente, altri restavano piccoli. Alcuni divoravano gli altri, strappandogli la carne a morsi: se li mangiavano vivi. L’acqua nella buca, per quelle lotte feroci, s’intorbidiva e si colorava di rosso. Quelle lotte mi facevano impressione, le guardavo incantato.
I miei genitori non mi mandavano a prendere l’acqua né a raccogliere la legna, non mi lasciavano neanche pelare le patate. Ci mandavano i miei fratelli. Mi osservavano e dicevano: Guardagli le braccia, sembrano bastoncini di legno. Da che cosa dipenderà?
A un certo momento, infatti, senza che nessuno sapesse perché, avevo smesso di crescere. Braccia e gambe erano come stecchi, sottili, quasi senza muscoli e carne. Ero piccolo come un bambino di quattro anni. Nessuno ci aveva fatto caso finché, all’improvviso, proprio da un momento all’altro, non si erano accorti che non ero come gli altri bambini, come i miei fratelli, che si erano fatti grandi e robusti. Mia madre mi stava davanti, seria, con una ruga dritta come un taglio in mezzo ai sopraccigli, e mi guardava fisso. Ora, pensavo, scoppierà a ridere. Doveva trattarsi del gioco di chi resiste più a lungo a restare serio. Non aveva mai resistito così a lungo. Quando cominciavo a ridere io, si alzava di scatto ed entrava in casa, mi lasciava solo ai piedi della scala. I miei fratelli non mi prendevano più in giro; quando parlavano di me, fra loro, sottovoce, perché non li sentissi, mi chiamavano il malatino.
Di tanto in tanto, di mattina presto, mio padre veniva a prendermi e mi metteva nella piroga. Restavo con gli occhi chiusi, come se continuassi a dormire nel mio lettino; li aprivo solo quando sapevo che eravamo ormai in mezzo al fiume, nel filo della corrente. La foresta, sulle due sponde, era buia. Si sentiva il freddo dell’acqua che scorreva sotto il fondo della barca e il fruscio del remo manovrato da mio padre. Entravamo in un ramo del fiume che sboccava in una palude. Per molto tempo navigavamo sotto un soffitto di rami e di foglie. Dal folto della foresta venivano come dei ruggiti. Sono le scimmie, diceva mio padre, non aver paura. Le scimmie urlatrici. Salutavano il sole ormai alto. Stavamo a non grande distanza dalla nostra casa ed era come se fossimo entrati in un altro mondo. Si alzavano in volo, spaventati dal nostro arrivo, centinaia, migliaia di uccelli. Guardavo il cielo. Era un cielo vivo, quello che c’era sopra la palude, per gli stormi di uccelli che volavano in alto, ad altezze diverse, mandando i loro richiami. Era una cosa commovente ma anche dolorosa, non sapevo perché.
All’improvviso, quando uno meno poteva aspettarselo, dalla casa veniva uno scoppio di grida, di brutte parole, che non avevo mai sentito prima, di insulti. Perché? Non era mai successo che alzassero la voce, mio padre e mia madre. Mio padre ora ritornava a metà pomeriggio o quando già era buio, ubriaco; i miei fratelli scendevano a precipizio dalla casa, lui usciva sulla veranda, con in mano una cinghia di cuoio o un bastone. Mia madre si teneva stretta con le mani la pancia, che ormai era molto grossa, perché stava quasi per partorire, come avevo sentito dire. Non potevo andare da lei: mio padre stava sulla porta.
Quella mattina ero stato in giro, avevo sguazzato nell’acqua bassa vicino alla riva, tanto a lungo che il sole aveva cominciato a calare, adesso non era più mattina, era già verso sera. Quando tornai a casa, c’erano persone che non avevo mai visto, ai piedi della nostra palafitta. I miei fratelli stavano in mezzo a quegli estranei, parlavano con loro, come se li conoscessero, come se quelli fossero nostri amici o parenti. Feci per salire la scala, ma una mano mi fermò. Allora mi diressi alla mia pozza dietro casa.
Mia madre morì mentre io guardavo la pozza dei pesciolini. Le due sorelline appena nate furono portate via. Le diedero a qualcuno, a un’altra famiglia, gliele affidarono, perché le crescesse. Ma questo lo venni a sapere solo dopo, quando già tutto ormai era successo, in quel momento nessuno mi disse niente, nessuno parlò con me, c’era un gran vuoto, intorno a me, mi ci lasciarono solo, dentro a quel vuoto.
Nel momento in cui mia madre morì, c’era soltanto un pesce nella pozza. Si era mangiato tutti gli altri. Proprio in quel preciso momento, io stavo in ginocchio e guardavo come quel pesce si muoveva nell’acqua. Veniva verso di me e, all’ultimo momento, un attimo prima di toccare la sponda, con un colpo di coda cambiava direzione, tornava indietro. A poco a poco, man mano che il pesce nuotava, l’acqua incominciò a crescere. Cresceva cresceva, finché non traboccò dalla pozza e cominciò a spandersi intorno. Ormai, a forza di salire, mi arrivava alla vita. Non si arrestava. Continuava a uscire dalla buca, come se dalla buca venisse fuori tutta l’acqua che c’era sottoterra. Come un vulcano d’acqua invece che di lava. Sapevo che avrebbe finito per allagare il mondo. Ne ero sicuro. Saremmo affogati tutti quanti. In quel momento mi resi conto che tutti saremmo affogati per colpa di quella buchetta che avevo scavato dietro casa. Alzai la testa e vidi i miei fratelli sul tetto ormai coperto dall’acqua. Facevano gesti e aprivano la bocca, ma dalla bocca non gli uscivano parole. Boccheggiavano come pesci tirati fuori dall’acqua.
Era evidente che il mondo era finito per colpa mia, per la mia mania di scavare le buche. I miei fratelli lo dicevano sempre: Testa di legno cerca i suoi compagni sotto terra. Sottoterra, infatti, come sapevano tutti, c’erano gli uomini di legno, che non erano cresciuti come gli uomini di carne e ossa del mondo di sopra.
Nel frattempo io, siccome ero di legno, galleggiavo sull’acqua.
Guardati dietro! mi gridò la voce di mia madre, mentre l’acqua mi trascinava via. Guarda dietro di te!
Troppo tardi! Il pesce era diventato enorme e cercava di ingoiarmi, risucchiandomi insieme all’acqua su cui galleggiavo.
Con le mie braccia e le mie gambe di legno battevo disperatamente la superficie dell’acqua, per sfuggire alla sua bocca spalancata.
Quando riaprii gli occhi, non mi raccapezzavo più. Rotolavo nel buio. Scivolavo in un cunicolo che si allargava e si stringeva come una pompa. C’era una puzza insopportabile. Mi sta digerendo, pensavo: diventerò un escremento di pesce. L’interno del pesce era umido e soffice come la terra bagnata. Attraverso il suo intestino andrò a cadere dall’altra parte del mondo, pensai. Ormai il mondo di sopra è finito, devono essere morti tutti quanti.
Mi misi a camminare, e camminai, in quel cunicolo buio, affondando con i piedi in quel pavimento, ciof! ciof!, come nel fango di uno stagno, di una palude, finché giù in fondo, lontano, non scorsi una luce. Se riesco ad arrivare laggiù, pensai, uscirò dalla pancia del pesce.
Ed ecco, all’improvviso, mi ritrovai sul bordo della pozza. Tutto era tornato come prima: la casa, i miei fratelli seduti davanti alla scala, e mio padre, che mi guardava dall’alto della sua statura, piegandosi appena sulle ginocchia, e mi diceva: Cosa stai facendo? Cosa diavolo stai facendo?, perché io continuavo a scavare e a riempirmi la bocca di terra bagnata. Che possiamo farci con te?, diceva. Mi guardava come se non riuscisse a credere a ciò che vedeva. Avrei preferito tornare nella pancia del pesce che stare lì davanti a lui, a quel suo sguardo freddo e sprezzante. Sentii vergogna di ciò che facevo, ma non riuscivo a fare altro che quello, scavavo e mi mettevo in bocca la terra. Ora che tua madre è morta, disse mio padre, non puoi continuare a stare qui, devi guadagnarti da vivere.
Mi portò in città. Scendemmo il fiume sulla piroga, in silenzio. Quando la casa sparì dietro la prima curva, non guardai più indietro. Mio padre teneva un mozzicone di sigaretta spento tra le labbra. Remava.
Sulla porta stava seduta una donna. Mio padre mi disse: Fa’ tutto quello che ti dice questa signora. Pensa solo ad ubbidire. Devi chiamarla zia. È tua zia. E se ne andò.
Rimasi con la signora che era mia zia e con il vecchio che era il marito di mia zia, un paralitico su una sedia a dondolo, che mi gridava continuamente, senza lasciarmi il tempo per respirare: Portami un bicchiere d’acqua! Portami l’orinale! Cacciami le mosche dalla faccia!
La mattina presto, prima ancora di giorno, la zia mi svegliava: Non vorrai passare tutto il giorno a dormire!
Uscivo con i due secchi che dovevo riempire alla fontana. Mi mettevo in fila con gli altri, aspettando il mio turno. All’inizio mi facevano degli scherzi: quando già stavo tornando via dalla fontana, mi mettevano lo sgambetto, cadevo, i secchi si rovesciavano; dovevo rimettermi in fila, all’ultimo posto, ricominciare daccapo. Poi, dopo un po’ di tempo, mi conoscevano tutti, si erano abituati a me, ero diventato una faccia familiare. Se qualcuno si provava a picchiarmi, c’era sempre chi si metteva in mezzo e non mi lasciava maltrattare. Chi mi maltrattava era la zia. Questo bambino non capisce nulla, diceva. Ha la testa di legno.
All’ora della siesta, mi affacciavo alla porta e guardavo la strada piena di buche, gli alti marciapiedi di terra battuta, con i mandorli allineati che facevano un’ombra esile, sbiadita. Più tardi i vicini mettevano fuori le sedie e restavano ad aspettare che facesse notte. Da qualche casa arrivava la musica di una radio. Per la strada correvano gruppi di ragazzi. Sulla piazza si apriva, come una grotta buia, l’officina del meccanico. C’era odore di grasso e di ferro.
Devi imparare almeno le lettere e i numeri, mi disse la zia. Aveva portato a casa un libro, un quaderno e una matita. Passai la sera a sfogliare il libro, a curiosarci dentro. Il vecchio, dalla sua sedia, mi guardava e rideva con la sua bocca sdentata. Quel libro mi intimoriva. Lo chiudevo e lo riaprivo di colpo, per scoprire la trappola che ci stava di sicuro nascosta. Sì, doveva esserci una trappola. Per questo la zia me l’aveva messo in mano. Così mi avrebbe tenuto per sempre in casa sua, non sarei più potuto tornare dai miei, nella nostra casa in riva al fiume. Nel cielo della città giravano solo gli avvoltoi, sempre intorno allo stesso punto immobile.
Il giorno dopo la zia mi accompagnò fino alla porta della scuola. Me ne rimasi in disparte. Non mi unii al gruppo dei bambini. Tenevo gli occhi bassi; mi guardavo i piedi nudi dentro i sandali di corda, il libro nascosto dietro la schiena.
La maestra mi fece sedere in un banco dell’ultima fila, vicino alla finestra. Devi fare quello che fanno i tuoi compagni, mi disse. Apri il quaderno e copia le parole dalla lavagna. Ma come avrei potuto farlo? Loro se ne stavano tranquilli nei banchi, copiavano le parole sui quaderni, e non sapevano che era tutto inutile. Nemmeno la maestra poteva sapere che, tra un momento, l’acqua avrebbe ripreso a sgorgare dalla buca che avevo scavato dietro casa, e che era rimasta laggiù, incustodita. Per loro, tutto era fermo, tranquillo e sicuro: il pavimento, i banchi, la lavagna, le voci dei bambini che giocavano in cortile. Invece non c’era niente che stesse fermo, niente che restasse al suo posto e che mantenesse la forma che aveva: tutto si muoveva e cambiava da un momento all’altro. Le formiche che uscivano dalle fessure del legno del davanzale, rompevano le file e si agitavano, si incrociavano, si fermavano, toccandosi con le antenne per trasmettersi il messaggio d’allerta, tornavano indietro, erano impazzite dal terrore, perché sapevano. Il terreno si spaccava, e si vedeva il mondo di sotto. Io lo vedevo.
Uscii dalla finestra mentre la maestra scriveva sulla lavagna dando le spalle alla classe. Sparii nell’erba del cortile, in mezzo ai cespugli che nessuno si era preoccupato di tagliare. Non potevano vedermi. Mi chiamavano, ma io non rispondevo. Dovettero scendere a cercarmi. La maestra andava su e giù per tutto il cortile, mentre i bambini, affacciati alle finestre, gridavano: È là! No, no! Eccolo là! Si divertivano a giocare con me a rimpiattino.
La zia mi riportò a casa. Non sei buono a nulla, mi disse. Divenne più dura. Mi assegnò un nuovo lavoro. Dovevo raccogliere in una carriola tutta la spazzatura del vicinato e portarla fino all’immondezzaio. Era una spianata cosparsa di mucchi di rifiuti, appena fuori città. Qua e là si alzavano colonne di fumo nero e puzzolente. Gli avvoltoi camminavano, allungando il collo pelato e starnazzando, in mezzo alla sporcizia, si litigavano qualche porcheria, pezzi di carne marcia, carogne di cani, di topi. Scaricavo la carriola e me ne andavo via di corsa, senza voltarmi.
Quando cominciarono le piogge, presi a uscire sulla strada. La città sembrava una barca semiaffondata, odorava di legno fradicio.
A volte passavo ore e ore con i piedi in una pozzanghera. Restavo fermo, senza muovere un dito. Guardavo la pioggia. La strada era grigia, le case s’erano allontanate, dissolte, non passava gente, la pioggia cadeva senza far rumore. Non potevo muovermi. La pioggia cadeva per ore e ore di seguito, giorno e notte, fitta fitta, silenziosa. Se ne sentiva il rumore solo a star dentro casa, ed era un rumore assordante sulle lamiere del tetto che non ti lasciava dormire. Ma io stavo fuori, all’aperto. Montagne d’acqua si avvicinavano alla città. Solo io le vedevo. Tutti gli altri continuavano a vivere come sempre, dentro le case, assordati da quel rumore incessante. Non si accorgevano di nulla.
Vuoi restare così tutto il giorno? Mia zia mi scuoteva, cercava di svegliarmi. Va’ alla bottega, compra una libbra di zucchero, mezza libbra di caffè.
Non sapeva che il mondo sarebbe finito di lì a poco, che le montagne d’acqua si stavano per chiudere sulle nostre teste.
In quello stesso momento la pioggia cadeva sulla terra che copriva mia madre, nel piccolo cimitero dietro il nostro villaggio. La terra s’imbeveva d’acqua. L’acqua penetrava nella cassa di legno leggero, ormai sicuramente ammuffito, bagnava il suo corpo, il suo corpo che era stato tanto bello. E i miei fratelli? Erano restati a casa? O se ne erano andati via anche loro, si erano dispersi per il mondo? A chi avrei potuto domandarlo? E le mie sorelline, che erano state portate via appena nate? E mio padre? Aveva continuato a star seduto sotto casa? Aveva continuato a ubriacarsi? Chi poteva assicurarmi che stavano davvero nel mondo delle cose reali e che non erano un sogno che avevo fatto da bambino?
La zia mi puniva per ogni minima mancanza. Lei non aveva affatto paura di rompermi. Prendeva un bastone e mi picchiava, sulle spalle, sulle gambe, sulla testa. Devi imparare, mi diceva. È per il tuo bene. Non piangevo più, quando mi castigava. Mi rincantucciavo nell’angolo della cucina dove passavo la notte, nel buio in cui avevo paura di chiudere gli occhi perché sapevo che era fitto fitto di piccoli animali pronti a salirmi addosso non appena avessi ceduto al sonno, scarafaggi, ragni, millepiedi, topi. Stringevo i denti.
La zia teneva in casa un piccolo spaccio di bibite. Nel cortile c’erano casse di bottiglie vuote e di bottiglie piene. Quando veniva qualcuno, a qualsiasi ora del giorno o della notte, io ricevevo il denaro, andavo alla ghiacciaia, prendevo la bottiglia e gliela consegnavo. La bevevano sul posto oppure se la portavano via, per berla ancora fresca in casa loro.
Infine, un giorno che la zia non c’era, doveva essere uscita per chi sa che faccenda importante, tirai fuori le bottiglie dalle casse e cominciai a metterle in fila nel patio, che era lungo e stretto. Quel giorno non pioveva. Nel cielo che sembrava nero per la vampa del sole, volteggiavano gli avvoltoi. Il vecchio stava sulla sedia a dondolo, sulla soglia della sua stanza, mi guardava col suo sguardo tra ebete e ironico, di uno che crede di saperla lunga. Mi faceva rabbia, ce l’avevo quasi più con lui che con la donna che doveva chiamare zia. Quando il patio fu completamente occupato dalle file di bottiglie, che ormai cominciavano ad avanzare in cucina e in camera da letto, lui volle dirmi qualcosa, ma la voce non gli uscì, era troppo spaventato a vedermi andare avanti e indietro, disponendo le bottiglie come squadre di soldati. Soprattutto quando si accorse del mucchio di sassi che avevo preparato vicino alla porta di casa. Se ne accorse solo all’ultimo momento, quando mi avvicinai alla porta e presi in mano un sasso.
Quando la prima bottiglia scoppiò, il vecchio ritrovò la voce. Gridò. Gridò con una voce fioca e piena di paura, strozzata. Non gli badai. Mirai a un’altra bottiglia e tirai un altro sasso. Con lo stesso gesto, con la stessa rotazione del corpo e del braccio di quando stavo sulla riva del fiume, sotto casa mia, e tiravo i sassi per farli rimbalzare sull’acqua. Era una cosa bellissima. Solo che adesso, a ogni colpo, c’era il fracasso della bottiglia che scoppiava, che andava in frantumi. Quando ebbi rotto una fila completa, andai a raccogliere i sassi in mezzo ai cocci di vetro. Facevo tutto con molta tranquillità e con metodo. Il vecchio ormai non gridava. Mi guardava con la bocca aperta, come uno stupido. Quando non fu rimasta una sola bottiglia intera, uscii di casa per non tornarci mai più.
Mi persi per le strade della città. Mi unii ai ragazzi che ci vivevano. Di giorno si andava in giro a cercare cibo, rubacchiando nei mercati, nei negozi che esponevano le merci, nei bidoni della spazzatura; di notte si dormiva sui marciapiedi, negli angoli al riparo dalla pioggia, dentro scatole di cartone, ci si copriva con fogli di giornali. La città brulicava di bambini e ragazzi come me. Quando faceva notte, mi sistemavo accanto ai compagni, e non mi sentivo solo come nella cucina della vecchia.
Non so da quanto tempo già vivevo per la strada quando entrammo a rubare in una ferramenta. Piccolo com’ero, mi ero nascosto sotto un bancone, prima della chiusura del negozio. Nessuno mi aveva visto, quando se ne andarono, mi chiusero dentro. A notte fonda aprii il finestrino del retrobottega ai miei compagni. Quando furono entrati, non mi preoccupai più di loro. Mi misi a camminare tra le scaffalature di metallo disposte lungo le pareti delle stanze e dei corridoi che si ramificavano in tutte le direzioni. Era un negozio grandissimo.
La mattina dopo, all’apertura, mi sorpresero quando stavo ormai per terminare la macchina con cui sarei riuscito ad andare dall’altra parte del mondo. Mancavano solo pochi pezzi. L’avevo costruita con quello che avevo trovato negli scaffali dei magazzini. Sapevo con esattezza che cosa stavo facendo. Quella macchina l’avevo ben chiara in mente. Era come un budello buio che girava su sé stesso e alla fine sarebbe sboccato da qualche parte. In fondo doveva esserci una luce.
Mi fermarono prima che fossi riuscito a terminarla. Volevano portarmi al posto di polizia, ma io mi tenevo attaccato con tutte le mie forze alla mia macchina; per separarmene, dovettero picchiarmi sulle mani. Alla fine, mi lasciarono andare. Forse si erano commossi pensando che fossi un povero scemo. Piangevo disperato. Ma ero riuscito a portarmi via un piccolo bullone con i suoi due dadi e due rondelle. Lo tenevo ben stretto nella mano chiusa a pugno, non lo avrei lasciato in cambio di nulla.
Dopo ciò, avevo perso ogni speranza. Chiedevo l’elemosina a un angolo di strada, vicino al mercato della frutta e verdura. Il terreno era coperto di bucce e di foglie, c’era un buon odore di frutta matura, mescolato, in certi punti, con l’odore sgradevole della frutta che marciva nei bidoni della spazzatura. Ero diventato un accattone. Evitavo gli altri ragazzi. La sera cercavo un posto appartato per dormirci. Mangiavo i rifiuti che raccoglievo nei bidoni.
Un vecchio mi si avvicinò. Che stai facendo, ragazzo?, mi disse. Era un vecchio dalla pelle molto scura, quasi nera, con una barba rada, brizzolata. Era un vecchio alto ed elegante, con la sua guayabera bianca con ricami azzurri sulle tasche e sul colletto. Mi parlò guardandomi negli occhi, con uno sguardo affettuoso. Gli andai dietro. Lungo la strada, di tanto in tanto, girava la testa, per controllare che ci fossi ancora.
La sua casa si affacciava su una strada alla periferia della città. C’era un’amaca appesa nella veranda.
Appena arrivammo, cominciò a piovere. Lui entrò sotto la veranda e si sedette sull’amaca, lasciando penzolare le gambe. Si dondolava e mi guardava. Io ero rimasto in strada. Speravo che provasse compassione di me e mi desse qualcosa. Pioveva forte, l’acqua scorreva a ruscelli sul tetto di lamiere, formava una pozza intorno ai miei piedi.
Restai col vecchio. Mi insegnò il mio nuovo lavoro. Aveva ai suoi ordini una quantità di ragazzi che vendevano i biglietti della lotteria. Mi assegnò una zona della città che percorrevo dalla mattina alla sera, lanciando il mio richiamo: La fortuna, la fortuna! Cominciai a guadagnare dei soldi.
Cominciai a sentirmi più sicuro di me. Mi fermavo a un chiosco e compravo una frittella o un panino con la salsiccia. Ma la cosa che più di ogni altra mi affascinava era l’orologio che vedevo al polso di molte persone, con il suo coperchio trasparente e le lancette che si muovevano da sole. Doveva esserci dentro un meccanismo che le faceva muovere. Mettevo da parte tutti i miei risparmi, per comprarmi un orologio. Alla fine ne comprai uno che si vedeva enorme sul mio polso sottile. Lo tenevo sempre in mostra, lo caricavo perché non si fermasse, passavo il tempo ad ascoltare il tic tac della macchina invisibile che faceva girare le lancette.
Il vecchio mi guardava. Mi guardava e sorrideva. Un giorno, all’improvviso, mi domandò: Che ora è, ragazzo?
Che ora è?, mi stupii. Come faccio a sapere che ora è?
Ah, scemo!, scoppiò a ridere il vecchio. Ma se hai l’orologio!
Cominciavo a diventare un vero cittadino. Contavo il denaro che riuscivo a risparmiare e m’immaginavo che sarei diventato tanto ricco da riuscire a riscattare le mie sorelline. Le avrei riportate alla casa sul fiume, dove avevo vissuto con la famiglia fino a quando nostra madre non era morta.
Una notte ebbi un sogno. Stavo facendo un bisogno, ma in modo talmente abbondante e con tanta facilità che la cosa mi riempiva di gioia. Non dovevo sforzarmi nemmeno un pochino. I miei escrementi crescevano e si ammucchiavano e si spandevano intorno e cominciavano a coprire tutto: avevano colmato le vie della città ed erano già arrivati ai primi piani delle case. La gente fuggiva. La vedevo nuotare disperatamente in quel mare di merda. Le mie feci avevano ormai coperto la città, ma non cessavano di crescere, cominciavano a coprire tutto il mondo.
Ora sono passati tanti anni da quando ero un bambino che tirava sassi per farli rimbalzare sulla superficie del fiume. Sono diventato vecchio come lo era, quando lo conobbi, l’uomo che m’insegnò a guadagnarmi da vivere. Ma non sono cresciuto nemmeno un po’. Il mio corpo continua ad essere piccolo e magro, come di legno, ma ora è un legno vecchio, mezzo marcio e tarlato. Questo mondo però non è finito. Non è neanche cambiato. Non scavo più buche, come quando ero bambino, perché l’acqua trabocchi e metta fine a questo mondo. Non faccio più quel sogno.
Nemmeno il sogno di diventare ricco è servito a qualcosa.
Il mondo è restato uguale, uguale a come è sempre stato.
Continuo ad essere l’omiciattolo di legno che non può crescere, e questo mi aiuta a vendere i biglietti della lotteria, perché la gente mi conosce e li compra volentieri da me.
Quando sono solo, però, penso che sono di carne ed ossa come tutti gli altri, ed è per questo che sento fame e ho bisogno di mangiare e di dormire al riparo, oppure che, forse, quelli come me sono davvero di legno, sono di quella razza di uomini di legno che sta nel mondo sottoterra, perché è riuscita male, e che avrei fatto meglio a restare là sotto anche io. Non so davvero perché a qualcuno di noi, come a me, è venuto in mente di salire al mondo di sopra.
Continuo a camminare per le strade lanciando il mio richiamo che promette la fortuna. Non sono mai riuscito a mettere insieme abbastanza denaro per riscattare le mie sorelline. Chissà che ne sarà stato della loro vita.
ANDREA BARBARANELLI

Stupendo
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La scrittura è evocativa e poetica, con descrizioni vivide che catturano la nostra immaginazione. Il finale, aperto e malinconico, lascia spazio a riflessioni sulla condizione umana e sulla ricerca di significato in un mondo che spesso sembra indifferente. Attraverso la storia di un “uomo di legno” il racconto parla a tutti noi, della nostra fragilità e della nostra eterna ricerca di appartenenza.
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Bando alle ciance, Andrea, ( che sono i ricordi, lo stupore e la meraviglia che provo nel leggere i racconti di un amico lontano nello spazio ma non nel tempo).
Ho fatto una brevissima ricerca su POPOL-VUH e ho visto il libro che hai indicato: Le antiche storie del Quiche’. ( Ho visto sia le esaltazioni per il discorso di Vecchioni che le indecorose opposizioni riguardo all’Eurocentrismo, mentre tu riesci a “raccontare” i frutti dell’eurocentrismo, risalendo alle origini, mitiche, ma non per questo meno vere.).
E per tale motivo voglio aggiungere al bambino-zeppetto di legno altri due bambini dissidenti ( proprio ora che si va alla ricerca del consenso, dimenticando il dissenso): Cosimo Piovasco di Rondo’, che rifiuta di mangiar lumache e decide di salire su un albero, e Oskar del Tamburo di latta, che per manifestare il suo dissenso e disprezzo decide di non crescere e vivere con appeso al suo collo il tamburo di latta.
Sono letture che feci giovanissima, quando proponevo agli alunni la lettura di Calvino, erano gli anni settanta, quando leggevo Gunter Grass, mentre in Germania imperversava la banda libertaria? Baader Meinhof.
Grazie, amico Andrea
Paola
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Molto bello. Buona giornata. 🌷
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