LEY DE FUGAS (*)
di ANDREA BARBARANELLI ♦
Non so come, ma quando mi ero tolto gli anfibi per lavarmi i piedi, che non mi lavavo e non lasciavo respirare da ormai due giorni, avevo pesticciato tanto in quella pozzanghera che avevo finito per tagliarmi. Sentii un dolore come quello dell’aculeo di una razza quando si ha la sfortuna di metterci sopra il piede, ma lì sotto, nella poltiglia fangosa, profonda nemmeno una spanna, non poteva esserci una razza. Frugai nel fango con le dita, attento a non ferirmi anche le mani, che non ci mancava altro. Eccolo qua, dissi, con rabbia, scagliando lontano in mezzo alla macchia un barattolo di latta aperto e arrugginito, il coperchio strappato in fuori con l’orlo affilato come un rasoio. In questa fottuta selva, pensai, davanti alla baracca di questi disgraziati, nel loro merdaio, non poteva certo mancare un barattolo di latta arrugginito. Avrei dovuto pensarci e stare attento, aa prima, non dopo, dopo essermi ferito. Saranno stati loro a buttarcelo, chi altro sennò? Una trappola, merda, una vera trappola, dissi, o pensai di dire. Il dolore nella pianta del piede mi dava la nausea. Mi sedetti sulla terra bagnata, senza preoccuparmi del fondo dei calzoni, accavallai la gamba, l’afferrai alla caviglia e la tirai con forza verso il corpo, con una torsione completa del piede, per esaminare la ferita. Il sangue, appena usciva, era subito lavato via dalla pioggia che aveva ripreso a cadere scrosciando sul tetto della baracca, sugli alberi tutt’intorno, e su me, seduto lì, fuori da ogni riparo, allo scoperto. Una brutta ferita, lunga e slabbrata, proprio nell’incavo del piede.
— Ho fatto una gran cazzata — dissi ad alta voce, per farmi sentire dal caporale, nel frastuono della pioggia. A cinque passi da me, in piedi sotto la tettoia, la sigaretta spenta nell’angolo della bocca, guardava le raffiche di pioggia che abbattevano le foglie dei banani piantati tutt’intorno alla radura.
— Che cazzata? — disse senza togliersi di bocca il mozzicone.
— Mi sono tagliato il piede, caporale.
— Ti sei tagliato il piede?
— Con un pezzo di latta, in questa pozzanghera, caporale.
— Come t’è venuto in mente di toglierti gli anfibi, soldatino?
— Volevo lavarmi i piedi.
Si spostò lentamente, di malavoglia, da sotto la tettoia; si avvicinò, senza curarsi della pioggia che ora lo investiva in pieno, e mi si accovacciò accanto, riparando con la mano il mozzicone di sigaretta. Inarcò le sopracciglia, corrugando la fronte.
— Un gran bel casino, se si infetta.
— Perché si dovrebbe infettare, caporale?
Scosse la testa e si rimise in piedi.
— È un miracolo se non s’infetta — disse. Come ti è venuto in mente di lavarti i piedi?
— Erano due giorni che non mi toglievo gli anfibi. Me li sentivo sporchi. Sudati. Con questo caldo.
— Non è una ragione per toglierseli. In zona di operazioni. Anche io ho i piedi sudati e sporchi, ma non mi sono tolto gli anfibi. Mica siamo femminucce.
Era tornato sotto la tettoia e aveva cercato di riaccendere il mozzicone, riparando la fiamma con la mano.
— O siamo invece femminucce?
Buttò via il mozzicone bagnato che non voleva accendersi.
— Quanti anni hai, soldatino?
— Diciannove, caporale.
— Sarebbe proprio un peccato amputare una gamba a un soldatino così giovane.
— Amputare la gamba? Perché dice questo, caporale?
— Perché bisogna essere sempre pronti al peggio, soldatino.
— Non credo che mi si dovrà amputare la gamba — dissi, mentre spremevo la ferita per farne uscire più sangue.
— Lo spero per te, soldatino — disse il caporale. — Ma anche per me. Sarebbe un bel guaio se ti venisse una setticemia proprio adesso.
Non deve infettarsi, pensai, osservando come il sangue usciva rosso dalla ferita e si scoloriva immediatamente, lavato via dalla pioggia. Strinsi i denti. Li strinsi tanto che li sentii scricchiolare. Mi sono distratto un momento, come può capitare a chiunque, perfino a un caporale, pensai, ed è bastato quel momento di distrazione per mettermi in questo guaio. Un solo momento di distrazione. Uno solo, in tutto questo tempo, da quando è cominciata l’operazione, da quando siamo entrati nella selva. Ma non mi si deve infettare. Non mi si può infettare. Se s’infetta, ho chiuso col servizio e magari addirittura con la vita. Ma non mi si può chiudere così, non me lo merito, divagai, senza sapere in effetti perché non me lo meritassi e come può succedere che invece qualcun altro si meriti che gli venga tagliata una gamba per colpa di una distrazione come quella che avevo avuto io. Mi sentii addosso come qualcosa di implacabile che mi attanagliava, mi chiudeva dentro fino a soffocarmi. Implacabile. Il chirurgo tagliava i muscoli della coscia, la parte carnosa della gamba, stando attento a legare una ad una le arterie con fili di nylon, segava l’osso del femore, un palmo al di sotto dell’articolazione dell’anca: lo avevo visto in un documentario durante l’addestramento. Sentii stridere la sega sull’osso. Che avrebbero fatto della mia gamba amputata? Questo nel documentario non lo facevano vedere, ma era facile immaginarlo. Si sarebbe riempita di vermi, come un pezzo di carne dimenticato fuori dal frigorifero, e avrebbe puzzato col puzzo inconfondibile delle carogne. Mi venne da vomitare all’idea che la mia gamba potesse puzzare come un topo morto. Tutto questo per aver messo i piedi in una pozzanghera che era un immondezzaio. Scalzo, pezzo d’idiota, scalzo! Scalzo in un verminaio pieno di latte arrugginite, di cose putrefatte, di merda, di vermi e infezioni. Con questo caldo dovevano esserci infezioni dappertutto, nel fango, nell’erba, nell’acqua, perfino nella pioggia che veniva giù dal cielo, già calda come piscio prima di toccare terra. Sono di razza contadina, ma di terra fredda, montanaro, niente a che vedere col putridume di qui, col calore afissiante di qui, tutto l’anno. Per non dire di quella latta, se era stata la latta, e non magari un vetro, un coccio di bottiglia che non avevo trovato, affondato nella melma, a provocarmi il taglio. Il dolore era sempre più forte, o mi pareva che lo fosse. Il piede mi si sarebbe gonfiato e non sarebbe più entrato nell’anfibio, che era già stretto anche prima, coi piedi gonfi a forza di camminare e di stare in piedi. Mi trascinai sulle natiche fin sotto la tettoia, appoggiandomi sui palmi delle mani e spostando all’indietro il corpo, facendolo strisciare, come se fossi già un invalido, uno di quei disgraziati senza gambe che si vedono muoversi per la strada su una tavoletta di legno con i cuscinetti a sfera.
— Tintura di iodio — dissi quando fui al riparo dalla pioggia. — Ci vuole tintura di iodio e una benda.
— Si sono portati via loro la cassetta del pronto soccorso — rispose il caporale. — Ci hanno lasciato però una buona scorta di tabacco, e anche di rum. Ecco, sulla ferita ci possiamo versare del rum.
Da quanti giorni era partito il nostro distaccamento e aveva lasciato lì noi due soli, me e il caporale? Da quattro o da cinque giorni? Non potevo chiederlo al caporale, mi avrebbe classificato definitivamente come un imbecille, indegno di appartenere all’esercito, se non riuscivo a memorizzare neanche una cosa così semplice. Avevo l’impressione di trovarmi abbandonato lì in quel deserto da almeno un mese, insieme al caporale, noi due soli, dimenticati in quell’angolo di foresta tra il fiume e la palude. Per fortuna, però, c’era il caporale, e lui sapeva quello che si doveva fare. Per questo era caporale. Se non avessi preso l’iniziativa di togliermi gli anfibi per lavarmi i piedi, non ci sarebbe stato nessun problema. Tutto era filato liscio fino a quel momento. Ero addirittura riuscito a non far fucilare quei quattro disgraziati trovati senza documenti in zona di operazioni antiguerriglia. A pensarci, ora, mi sembrava incredibile che io, una recluta di diciannove anni, avessi trovato il coraggio di parlare e fossi riuscito a convincere il capitano. Erano rimasti stupiti tutti quanti, il caporale e gli altri soldati, sicuri che avessi fatto un qualcosa che non avrei dovuto fare, che era proprio assurdo che mi fosse venuto in mente di fare: mettermi in mezzo, senza che nessuno me l’avesse chiesto, e contraddire tutti, sostenere che avevano tutti torto e che solo io capivo come stavano le cose, un comportamento non da soldato e meno che meno da recluta. Quello che aveva meravigliato ancora di più tutti quanti era stata la reazione del capitano, la decisione che aveva preso di darmi retta, di sospendere l’esecuzione e di andare a vedere e a controllare se quello che avevo detto era vero. Non era una cosa normale in zona di operazioni, dove si fucila per anche meno di un sospetto. Così mi ero attirato l’antipatia di tutto il distaccamento, in primo luogo l’antipatia di quello stesso caporale con cui ero stato lasciato a sorvegliare i prigionieri. Soldatino qui e soldatino lì. Apri le scatolette, soldatino. Porta da mangiare ai prigionieri, soldatino. Pulisci il culo ai prigionieri, soldatino, visto che gli vuoi tanto bene. Tieni in ordine questo merdaio qua attorno, soldatino. Ero stufo di sentirmi interpellare così. E ora, per concludere: Ti amputeranno la gamba, soldatino.
— Fatti una benda con una striscia della camicia — disse il caporale. — E rimettiti lo scarpone prima che ti si gonfi il piede.
Aprii lo zaino appeso sotto la tettoia, ci rovistai dentro e ne tirai fuori una camicia color cachi.
— Aspetta, soldatino, lascia fare alla mamma.
Il caporale mi tolse bruscamente la camicia dalle mani e la lacerò, con degli strappi netti, ricavandone un paio di strisce larghe un mezzo palmo.
— Dovrebbe bastare — disse.
*
— Se ti sei fottuto il piede, non puoi prendertela con nessun altro che con te, — disse il caporale. — Ognuno, quando fa di testa sua, è responsabile di quello che fa. E delle conseguenze. Potresti finire addirittura sotto processo. Per autolesionismo. Per autolesionismo si può arrivare a mettere al muro, anche se in genere lo si evita, per non dar modo a quei froci dei giornalisti di armarci sopra un caso di violazione dei diritti umani. Suppongo però che, se resterai invalido, non ti riconosceranno l’invalidità per causa di servizio, ma solo quella per coglioneria.
Mi stava fissando, la fronte corrugata, severo, gli occhi freddi nelle fessure strette delle palpebre. Il tempo normale non c’era più: si allungava e si accorciava come un elastico, non riuscivo a tenere il conto dei minuti e delle ore. — E il piede te lo sei fottuto davvero — aggiunse, ancor più serio, se possibile, duro e severo. — Mi hai messo in un bel guaio. Soldatino.
*
Bevvi un sorso dalla borraccia, ma il rum non mi fece l’effetto che speravo, al contrario, accrebbe la nausea che sentivo da quando mi ero ferito. Devo avere la febbre, pensai. Se mi è venuta la febbre, è perché l’infezione progredisce e dalla pianta del piede sta passando alla gamba e dalla gamba all’inguine, alle ghiandole che stanno lì, e da quelle ghiandole a tutto il corpo. Mi sentii irrimediabilmente prostrato. Dovrebbero intervenire subito e amputarmi la gamba, pensai, prima che sia troppo tardi. Appoggiai la nuca contro la parete della baracca e, credo, mi addormentai di colpo. Dormii un sonno profondo da cui riemersi annaspando, quando ero sul punto di affogare in una pozza d’acqua melmosa, piena di piante e di alghe che mi avviluppavano le gambe e mi tiravano giù. L’infezione dev’essere quest’acqua sporca che mi riempie i polmoni, pensai mentre mi dibattevo per mettere fuori dalla pozza la testa, o almeno il naso e la bocca. Quando emersi e potei aprire gli occhi, mi trovai faccia a faccia con il caporale. Mi fissava con i suoi occhi grigi, stretti come due fessure.
— Hai fatto un brutto sogno, soldatino — disse.
— Mi sento bene, ora.
— Allora, se ti senti bene, scatta in piedi. Hai un mucchio di cose arretrate da fare.
Non pioveva più. Aveva smesso di piovere mentre dormivo.
*
Bene, l’infezione era stata sicuramente un falso allarme, erano passate ormai almeno otto ore e il piede non s’era gonfiato e nemmeno la gamba e i gangli, e la ferita mi bruciava appena, com’è normale che bruci una ferita sotto la pianta del piede, uno dei posti più brutti per ferirsi. Non mi avrebbero dovuto tagliare la gamba, e non sarei morto né di setticemia né di cancrena. Probabilmente il caporale s’era divertito a mettermi paura come fanno gli anziani con le reclute. E io c’ero cascato in pieno, con suo gran divertimento. Durante tutte quelle ore, fra il sonno e la veglia, m’ero visto fra due stampelle, con la gamba del pantalone ripiegata e chiusa da una spilla appena al di sotto della coscia, ben più in su del ginocchio. A diciannove anni! Non avrei mai avuto una donna, se mi fosse davvero capitato di perdere la gamba: perfino le puttane del bordello mi avrebbero schivato.
*
Ero stato io a vedere la capanna, sei o sette o otto giorni prima, quando già stavamo per tornare indietro, quasi non si distingueva nella vegetazione.
— Vi metto subito al muro.
Il capitano non scherzava, li guardava in faccia, uno per uno, con un sorrisetto strafottente, cattivo, sulle labbra.
— Mi risparmio la fatica di portarvi fino al comando.
Alla prima raffica sparata in aria, quei quattro erano usciti dalla capanna, svegliati di soprassalto, spingendosi l’un l’altro. Battevano i denti, intirizziti dalla paura in quel caldo soffocante. Guardavano il capitano senza capire. Guerriglieri? Sbarravano gli occhi e annuivano. Guerriglieri? Mi ero fatto avanti. Avrei dovuto lasciarli fucilare perché non capivano ciò che gli veniva detto? Sì, guardavano senza vedere, senza capire, terrorizzati, senza via di scampo. Guerriglieri? Nossignore, nessun altro si sarebbe fatto avanti, come avevo fatto io, pubblicando ai quattro venti che ero capace di capirmici, con quella specie di selvaggi. A nessuno fa piacere ricordare che fino a poco prima è vissuto come le bestie, come una bestia. Io sì, per pura solidarietà, o come la si voglia chiamare. Solo questo. Questa è la parola giusta. Solidarietà. Loro, quei quattro, non erano della mia comunità, erano gente di terra calda, vivevano in mezzo alla selva, ma erano contadini come me, che invece ero di terra alta, di montagna, ma alla fin fine ero tale e quale a loro, taglialegna, manovali, poveracci che conoscevano appena poche parole della lingua che il capitano parlava con loro pretendendo di essere capito. Non avevano la minima idea della parte di mondo in cui gli era capitato di vivere. Figuriamoci di esercito, di guerriglia, di nazione, di patria e di tutte le altre invenzioni della gente che vive in città. Io ero come loro. Anzi, no: ero stato come loro. Adesso non lo ero più. Grazie all’esercito, avevo imparato una quantità di cose e sapevo parlare e perfino discutere, all’occorrenza. Non ero più un primitivo, come quei quattro poveracci. Se ero stato come loro e adesso non lo ero più, era una buona ragione per capirli e mettermi al loro posto, nei loro panni, e cercare di aiutarli. Però, se avessi previsto ciò che sarebbe successo, avrei risparmiato a me e a loro tutti quei giorni di attesa, quei giorni di infame, lurida prigionia. Invece mi feci avanti, superai la vergogna e mi feci avanti, chiesi al capitano il permesso di parlare con quei quattro, me li presi da parte.
— Taglialegna, signor capitano, gente che vive tutto l’anno isolata, non sanno nemmeno che c’è un governo, non sanno nemmeno di che paese sono. Non sanno nemmeno che c’è un paese, uno stato, una nazione, una Patria. Nati e cresciuti qui, come gli animali e le piante. Braccianti dell’azienda di un tale don Lucas, sette o otto miglia più in giù, oltre il Casanare. Incaricati di disboscare questo pezzo di selva.
Il capitano mi fece segno di rientrare nei ranghi. Li vidi perduti.
— Mi state prendendo in giro — disse il capitano. — Voi e questo soldatino impertinente. Vi faccio fucilare tutti. Voi come guerriglieri, lui per insubordinazione. Morto il cane, finita la rabbia.
Ma non era convinto. O forse stava solo scherzando, per mettermi paura, per mettermi alla prova, dicendo che mi faceva fucilare. Io, imperterrito. Anche se, dentro, mi sentivo morire. Mi guardò fisso. Mi vide negli occhi che dicevo la verità. — Andiamo a trovare questo don Lucas — decise, alla fine. Quei quattro, però, non se li portava dietro; restavano nella baracca, sotto stretta sorveglianza, con il caporale e con me. Così avrei imparato a parlare solo quando interrogato. Lasciati lì, in piena foresta, mentre gli altri proseguivano diretti al fiume. A quest’ora avrebbero dovuto essere già di ritorno. Quei cinque o sei o sette giorni, per noi due, per il caporale e per me, avrebbero potuto essere giorni di riposo, dopo le marce attraverso la boscaglia e le paludi. Riposo completo: bastava tener pulito il terreno intorno alla capanna, lavoro che, peraltro, avrebbero potuto fare i boscaioli che, fosse stato per me, potevano anche continuare a fare quello per cui erano stati mandati lì da quel tal don Lucas. Sarebbe filato tutto liscio, non fosse stato per il caporale, che non aveva preso quella sosta per una vacanza, ma per una punizione. Ce l’aveva con me, che avevo dato al capitano l’occasione per sbarazzarsi di lui che, come tutti avevamo capito, gli risultava insopportabile, per le sue arie di veterano grande esperto dell’antiguerriglia. E ce l’aveva con quei quattro poveretti, colpevoli involontari della sua punizione.
Una volta restati soli, avevo cercato di ingraziarmelo. Che altro avrei potuto fare? Stavo lì, sempre pronto ai suoi ordini, rispettoso e servizievole, senza mai contraddirlo, senza mai discutere i suoi ordini, per quanto fossero sconsiderati. Il primo giorno mi aveva ordinato di immobilizzare i quattro taglialegna, legandoli stretti, mani e piedi, dentro la baracca, in modo che, se avevano da pisciare, dovevano pisciarsi addosso, e se avevano da cacare, lo stesso. Era furibondo. Come aveva potuto il capitano lasciarsi convincere da me a non fucilarli? Da me, da un soldatino senza la minima esperienza, una recluta nemmeno ancora svezzata, più contadino che soldato! E adesso, per quello scherzetto del cavolo, doveva star lì a sorvegliare quei quattro bruti di cui ci si sarebbe già dimenticati, se li avessimo ammazzati subito, come meritavano, e nessuno li avrebbe mai reclamati o cercati.
Quando il caporale mi ordinò di legarli, mi sentii dentro uno scatto di ribellione. Era come se avesse ordinato di legare me: era con me che ce l’aveva e si sfogava su di loro, legava loro perché non poteva legare me, li legava al posto mio, mi torturava per interposta persona. Così legati, inoltre, mi impegnavano molto di più, mi rendevano la vita difficile. Dovevo fare tutto io. Per il caporale, i prigionieri potevano crepare di fame e di sete, li aveva già condannati a morte; anzi, per lui era come se già fossero morti. E per lui, insieme ai prigionieri, ero morto anche io. O almeno questo era quanto rimuginavo fra me e me, dandomi da fare a testa bassa, tra la baracca e la tettoia dietro la baracca, dove stavamo al riparo, senza osar più nemmeno rivolgergli la parola, al caporale.
Nemmeno si era girato, quando li avevo fatti uscire, uno alla volta, a turno, dopo averli slegati, di mia iniziativa, senza chiedergli il permesso, perché andassero a fare i loro bisogni, a prudente distanza dalla baracca. Faceva come se non vedesse. Se ne stava seduto su un tronco abbattuto, e fumava. Approfittava della scorta di tabacco che ci avevano lasciato e non faceva altro che fumare. Io, però, sapevo che mi sorvegliava, che stava aspettando che facessi un passo falso. Non stava aspettando altro che un mio passo falso.
Finché non era successo che, senza rifletterci, m’ero tolto gli anfibi e m’ero ferito il piede con la latta in agguato nella pozzanghera. Era proprio l’ultima cosa che ci voleva, per migliorare la situazione, per farmi rivalutare dal caporale. Ora, di sicuro, mi considerava meno della merda a cui almeno si fa attenzione per non ritrovarsela appiccicata sotto le suole. Col piede fasciato alla meno peggio dentro l’anfibio, giravo lì intorno, zoppicando, entravo nella baracca, osservavo i prigionieri, gli portavo da mangiare e da bere, tanto per tenermi occupato.
*
La pioggia era cessata da almeno una mezz’ora, forse da ancora più tempo, ma c’era solo acqua e fango, fino alla fila di banani che segnava il limite della boscaglia. In quel momento, per la prima volta, mi accorsi che sugli alberi c’erano gli avvoltoi, uno o due per ogni albero, immobili, in attesa. Ci stavano osservando.
*
Allora, mentre il caporale si girava su sé stesso, allargando le braccia per sgranchirsi, proprio in quel preciso momento, mentre lui sbadigliava rumorosamente, dissi che stava per ricominciare a piovere. Dissi esattamente queste parole: “Sta per ricominciare a piovere”. Da quando s’era fatto giorno, era la quarta volta in meno di due ore che smetteva di piovere e riprendeva a piovere: la stessa pioggia che veniva giù dal giorno prima, da tre, da quattro, cinque, sei giorni prima. Da tutta la vita. Dalla nascita del mondo. Da sempre. Una pioggia calda come piscio, fitta fitta, implacabile. Cercavo di tenere il conto con precisione, adesso, dopo che mi era successo di confondermi con le date e avevo dovuto faticare a ricostruire da solo tutta la successione degli avvenimenti, giorno per giorno, da quando eravamo restati soli, senza peraltro essere sicuro di ricordare bene. Contavo gli intervalli fra uno scroscio di pioggia e l’altro e la durata degli scrosci. Potevo quasi prevedere la durata degli intervalli tra uno scroscio di pioggia e il seguente. Sentivo arrivare la pioggia da lontano, da oltre il bananeto che circondava la capanna, ne sentivo il rumore sulle foglie degli alberi della foresta, disuguale, variato, per la diversità delle foglie dei tanti alberi diversi e lo scroscio ormai prossimo sulle larghe foglie dei banani. Non parlavo per buttar là una frase, cercando il pretesto per avviare una conversazione: era una precisa informazione quella che gli stavo dando, e che mi pareva doveroso dargli, essendo lui, in quanto soldato più anziano, anzi addirittura caporale, il capoposto responsabile. Ma lui non disse neanche merda, che sarebbe già stato qualcosa, quando gli dissi che stava per ricominciare a piovere. No. Tornò a girarsi, lento lento, fino a mostrarmi un’altra volta il culo, fasciato dalla stoffa mimetica dei pantaloni della divisa di campagna, come me l’aveva mostrato per tutti quei giorni di seguito, e seguitò a fumare. Anche se mi avesse sputato su una scarpa, l’avrei ringraziato per l’attenzione dimostratami. Anche il disprezzo è, in qualche modo, un prendere atto dell’esistenza dell’altro. Invece, niente. Del resto, se mi avesse sputato su una scarpa, l’avrebbe fatto perché per lui quella scarpa con dentro il mio piede, lì per terra, non c’era. Non mi vedeva e non mi sentiva. Mi veniva quasi il dubbio che non ci fossi davvero. Eppure stavo lì: sessanta chili di muscoli e ossa nella divisa da campagna, berretto sul cranio ben rasato, giberne, fucile mitragliatore automatico M.P. 5, a tracolla, pugnale da combattimento con lama dentata, alla cintura, e, appeso sotto la tettoia, ma come una parte di me, lo zaino, con le dotazioni regolamentari e, sopra allo zaino, l’elmetto d’acciaio con la reticella per il mascheramento mimetico. Come era possibile che non mi vedesse? Lui invece insisteva a fare come in quel gioco stupido e cattivo che si fa coi bambini, quando si finge di non vederli, come se non ci fossero o fossero diventati invisibili, finché non scoppiano a piangere. Ma io non mi lasciavo impressionare come un bambino. Soltanto lui non mi vedeva. I prigionieri, loro sì mi vedevano. Chissà che avrebbero dato, loro, per non vedermi! Ormai, a forza di essere invisibile per il capo, non sapevo nemmeno più che fare, con i prigionieri. Perché anche i prigionieri erano invisibili, per lui. Non ci si sporcava le mani. Come se fossero stati solo prigionieri miei. Ma che avevo a che vedere io, con quei quattro taglialegna sudici e abbrutiti? Erano forse parenti miei? Solo perché, all’inizio, avevo detto che erano dei taglialegna e non dei guerriglieri? E allora? Mi avesse detto una sola parola, in tutti quei giorni da quando ero praticamente l’unico altro essere umano, in quel posto, oltre a lui. E oltre ai prigionieri, che però esseri umani, propriamente, lo erano ogni giorno un po’ meno, già non lo erano quasi più, ammesso che all’inizio lo fossero stati, selvatici come erano, incapaci di capire e di farsi capire, delle vere bestie che non sapevano nemmeno di che Paese erano.
Dunque, stava per ricominciare a piovere, stava per ricaderci addosso uno di quegli acquazzoni che non rinfrescavano l’aria, ma passavano rapidi come erano venuti, e ti lasciavano sfinito. La pioggia stava risalendo la boscaglia nella nostra direzione, ne distinguevo il rumore sulle foglie degli alberi. Nemmeno a dire che la tettoia offrisse un riparo. Certo, chiamarla tettoia era un’esagerazione, come chiamare baracca quel graticcio di canne e fango col tetto di foglie di palma già marce. C’era quasi più acqua dentro che fuori. Allora, capite?, io lì da solo con l’anziano, il caporale, in pieno deserto, capite?, un bel pezzo oltre Trinidad, già quasi più palude che foresta: io, il caporale e i quattro prigionieri. Bloccati lì da quella maledetta decisione del capitano che restassimo ad aspettarli coi prigionieri, con quei porci dei prigionieri, mentre loro facevano una deviazione per la fattoria di quel tal don Lucas, laggiù, oltre il Casanare, come se fosse stato semplice fare una deviazione del genere in piena giungla, tra anse morte dei fiumi e paludi, camminando attraverso un’aria fitta di zanzare. Il peggio messo ero però io. Perché lui, il caporale, mi faceva pesare il mio peccato originale. Come se ci avessi avuto io la colpa se erano tutti quei giorni che stavamo lì invece di essere in marcia col resto della pattuglia. Dopo tanto tempo che stavo affondando in quel silenzio che diventava sempre più mostruoso, interrotto soltanto dagli strilli delle scimmie urlatrici e dai richiami degli uccelli, risucchiato sempre più giù, come se fossi andato a finire nelle sabbie mobili, alla fine avevo trovato il coraggio di aprire bocca, non fosse altro che per dire che fra poco avrebbe ricominciato a piovere. E lui? Lui, niente. Come se non fosse stato lui l’anziano, quello che doveva farmi coraggio, all’occorrenza, e darmi le istruzioni. Non solo non mi rispose, ma fece una faccia disgustata. La vidi, la sua faccia, nell’attimo in cui si girò. Sputò il mozzicone della sigaretta dritto davanti a sé, si passò sulla bocca il dorso della mano, e tornò a voltarsi, dandomi le spalle, schiaffandomi in faccia quel culo grande e grosso come quello di una negra. Feci appena in tempo a vedere un pezzetto di carta della sigaretta che gli era restato appiccicato al labbro di sotto.
Mi alzai, mi allontanai di cinque o sei passi e mi sedetti su un tronco, lungo un fianco della baracca. Tolsi il caricatore dal fucile, lo esaminai, controllai le pallottole, così nuove lucide e perfette che non c’è un’altra cosa al mondo tanto perfetta e bella e nuova e smagliante, e ce lo ricollocai facendo scattare il meccanismo. Fatto questo, non sapevo più che altro fare. Almeno si sbrigasse ad arrivare la pioggia, pensai. Invece, chissà perché, ritardava. Se ne sentiva il rumore, nel fitto della boscaglia, a pochi metri di distanza, ma non avanzava più: la nuvola da cui pioveva s’era evidentemente fermata sopra a quel punto dove si stava scaricando, come uno che si ferma a pisciare. Guardai le nuvole basse, grigie scure sotto il cielo grigio chiaro che si vedeva fra una nuvola e l’altra, più in alto. Il caldo, in quel momento, era soffocante e dall’interno della baracca veniva una puzza di merda e di piscio che ristagnava lì, non si disperdeva, nell’assenza del minimo soffio di vento. Tutto era chiuso e concentrato su quel punto puzzolente, che ammorbava l’aria e non lasciava respirare. Puzzava tanto perché, dopo che mi ero ferito al piede, avevo deciso di non far più uscire i prigionieri per fare i loro bisogni all’aperto, li avevo lasciati legati per i piedi dentro la baracca, con un po’ d’acqua e banane. Così la baracca s’era rapidamente trasformata in un cesso. E puzzava. Ma io, benché la puzza mi desse fastidio, non avevo intenzione di cedere, stavo solo aspettando che il caporale mi comandasse di farli uscire e di pulire la baracca di tutta quella merda che ci si veniva accumulando. Ma lui, zitto, come se non sentisse anche lui la puzza e la cosa non lo riguardasse. Mentre stavo lì e pensavo a come erano perfette, pulite e lustre le pallottole, a come si distinguevano per la loro perfezione da tutto quello sfasciume, da quel caos e quel putridume in cui ero immerso, un avvoltoio venne giù dal cielo, cadde come un sasso dalla nuvolaglia, si posò in cima a un banano, agitò le ali cercando il punto di equilibrio, s’immobilizzò, e si mise a guardarmi fisso, con quella sua aria spudorata, insolente, che mi comunicava senza tanti rigiri che lui era pronto a mangiarmi, senza farsi alcuno scrupolo, se fossi morto lì dove stavo. Mi alzai, perché non sopportavo di essere guardato in quel modo. Mi alzai, imbracciai il fucile e presi la mira con calma. Allora sentii la voce del caporale. Ma non fare stronzate, disse.
Mi paralizzò il tono di quella voce, strascicato, ostile, brutale. Restai col fucile puntato in direzione dell’avvoltoio per ancora venti, trenta secondi, poi lo abbassai e cominciai a retrocedere lentamente.
Lui cercò un’altra sigaretta nel taschino della camicia, frugandoci dentro con tre dita. Teneva gli occhi fissi sulla pioggia che si avvicinava come una tenda appesa alle nuvole basse. A me, però, non veniva in mente nient’altro oltre l’idea di puntare il fucile. Il fucile e l’avvoltoio. L’avvoltoio e la pioggia. La puzza della merda di quei quattro nella baracca. Non c’era altro per far passare il tempo oltre che sparare all’avvoltoio. Mi accovacciai ancora una volta sui talloni, col calcio del fucile piantato in terra, tra le gambe; staccai una mano dall’arma per asciugarmi il sudore della fronte sotto la visiera, e le gambe mi tremarono.
Un secondo avvoltoio piombò su un altro banano, vicino al primo, si scosse e restò fermo, sotto la pioggia che ormai diluviava.
Adesso mi pioveva sugli anfibi. Mi appoggiai alla parete della baracca sotto la tettoia.
Un terzo avvoltoio venne giù di colpo, anche lui come un sasso. Rialzai la canna del fucile, lentamente.
— Lasciali in pace, cazzo!
— Ma ci stanno accerchiando! — dissi, con un filo di voce strozzata. — Non vede che ci stanno accerchiando?
— Accerchiando? — Si guardò intorno, tracciò un circolo con il braccio, scoppiò a ridere con una risata sforzata, falsa. — Tre uccellacci pelati ci stanno accerchiando?
Abbassai il fucile. L’acqua mi scendeva nel colletto della camicia, mi bagnava i pantaloni, mi scorreva sugli anfibi.
Estrasse una sigaretta dal taschino della camicia. L’accese proteggendola con le mani dalla pioggia che cadeva attraverso la tettoia.
Morirò affogato e mi mangeranno gli avvoltoi, pensai.
Su ogni banano, ora, c’erano due o tre avvoltoi, immobili, neri. Erano tornati, ancora una volta, certamente attratti dall’odore di putredine, che per loro doveva essere squisito. Mi fissavano con i loro occhi laterali, allungando il collo pelato.
— Spariamogli, solo per cacciarli via. Non mi piace come ci guardano.
Mi fissò, strizzando gli occhi. — Non dire stronzate, — disse. Si passò la mano sulla faccia bagnata, facendo una smorfia di disgusto, e indicò la porta della baracca: — Si sente la puzza di qui. Da quanto tempo non li fai uscire?
I primi tre giorni li avevo fatti uscire ogni volta che me lo chiedevano. Uno alla volta. Gli facevo segno di appartarsi. E restavo a guardarli. Comunque, non avrebbero mai tentato di fuggire. Non avevano capito che cosa volessimo da loro; erano allarmati e preoccupati per il lavoro che non avevano potuto continuare, per tutti quei giorni di paga sicuramente persi. Dopo che mi fui ferito al piede, mi aveva vinto la rabbia e lo schifo. Non sopportavo più di sorvegliarli mentre facevano i loro bisogni. Mi dava il voltastomaco. Per colpa del caporale che mi guardava, anche se faceva finta di guardare da un’altra parte. Io guardavo loro mentre defecavano e lui guardava me che guardavo loro. E sogghignava. Faceva come se guardasse altrove, ma sogghignava. Perciò avevo smesso di farli uscire.
— Da quanto tempo non li fai uscire? — aveva detto.
Non risposi. Dalla baracca veniva una forte puzza di merda.
— Allora, da quanto tempo non escono?
Non gli risposi nemmeno questa volta. Ero confuso. Avevo fatto bene o male? Potevo agire di mia iniziativa, in mancanza di un ordine del caporale? E ora potevo rifiutarmi di rispondergli e fare come se non lo avessi sentito? Ero confuso, senza direttive precise, senza una routine che mi impegnasse e mi tenesse in esercizio la mente e il corpo, e per di più offeso e umiliato, quasi privato, potrei dire, della mia identità di soldato, ridotto di nuovo a quello che ero stato prima di entrare nell’esercito, riportato a una miserabile e incerta condizione di civile, a dovermi assumere responsabilità personali, che non avrei dovuto prendermi in nessun modo, che era proprio il contrario di quello che doveva essere. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dagli avvoltoi. Ci avevano davvero circondato. Alcuni erano già scesi dagli alberi e si andavano avvicinando. Poco a poco. Tranquilli. Indifferenti. Come se noi si fosse già tutti morti.
— Allora, da quanto tempo non escono? — ripeté ancora una volta il caporale, ma calmo, senza alterarsi, senza alzare la voce.
Non riuscivo ad articolare le parole per rispondergli. Soprattutto, non sapevo con esattezza da quanto tempo non li facevo uscire. Avevo di nuovo perso il conto dei giorni. Ero confuso. Come uno scolaretto che ha dimenticato la lezione imparata a memoria. Sapevo solo che erano molti giorni. Perché avevo osservato come si erano andati trasformando, di giorno in giorno, da quando avevo deciso di non lasciarli più uscire a fare i loro bisogni. Si erano ancor di più abbrutiti e ormai quasi non sembravano più esseri umani. Sembravano cani, di quelli che provano gusto ad avvoltolarsi nella merda e a strusciarcisi sopra, o maiali, che grufolano nel fango merdoso delle loro stie. Era successo più alla svelta di quanto potessi immaginare. Non ero più un guardiano di uomini ma un guardiano di porci. Come se qualcuno con una bacchetta magica fosse venuto e li avesse trasformati. Tutto quello che stava succedendo era per colpa del caporale, era fin troppo evidente. Perché mi aveva abbandonato. Non mi aveva dato gli ordini che si devono dare a un subordinato. Mi aveva lasciato solo con il carico di quella responsabilità. E mi aveva umiliato, trattandomi come i prigionieri, come se io fossi uguale a loro. Un bruto come loro. Ma io non ero un bruto. Ero un soldato, io. Un soldato dell’esercito della Patria. Mi ero riscattato dalla condizione di bruto che avevo avuto un tempo, quando vivevo ancora nel mio villaggio sulle montagne. Ora sapevo leggere e scrivere e usare le armi. Sapevo il regolamento a memoria. Avevo solo commesso la sciocchezza di intervenire per quei quattro disgraziati quando avevo capito che il capitano li avrebbe fatti fucilare lì sul posto, senza che avessero la minima colpa di niente, solo quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ma ero intervenuto non perché avessi il cuore tenero di una femminuccia, come pensava e diceva il caporale. Solo per un senso di giustizia e di fedeltà al regolamento, alle regole. Ero davvero confuso, adesso. Sentivo che mi mancava la terra sotto i piedi, come quando c’è una scossa di terremoto che ti lascia con questa impressione per un sacco di tempo.
E gli avvoltoi mi guardavano fisso.
Mi alzai e mi feci avanti; sollevai il braccio per spaventarli. Fu un gesto inutile ed eccessivo. Ebbi, nel momento in cui alzavo il braccio, l’impressione di scivolare giù per una scarpata. Vacillai. Le ginocchia mi si piegarono sotto. Il caporale, che mi trovai non so come accanto, mi sostenne per il braccio.
Mi misi di faccia alla parete della capanna, sotto lo spiovente. Presi una sigaretta dal pacchetto, gualcendolo e strizzandolo con le mani bagnate.
Con la sigaretta tra le dita, tenevo la faccia rivolta alla parete della baracca. Guardavo la parete, per non guardare il caporale, come se m’interessassi sul serio alle due file di formiche nere che s’incrociavano all’altezza dei miei occhi. Una fila andava in su, verso una fessura aperta di traverso nel muro, e ognuna delle formiche portava qualcosa, una fogliolina, un filo d’erba, un fuscello, e con questo carico tenuto fra le mandibole entrava nel buio della fessura. L’altra fila usciva dalla stessa fessura, scendeva verso terra e una volta toccato il terreno si disperdeva, ogni formica andava in una diversa direzione. Quando due formiche s’incontravano, si fermavano, agitavano le antenne prima che una cedesse il passo all’altra. Avvicinai la punta della sigaretta a una di quelle bestiole, che andava in su portando una fogliolina tre volte più grande di lei; la toccai con la brace, e il corpicino si contrasse, si rattrappì istantaneamente, diventò una pallina nera, cadde nel vuoto. La cosa mi sembrò interessante, come una specie di esperimento. Era facile e divertente. Con la brace della sigaretta cominciai a bruciare le formiche, una per una, una alla volta, finché la parete non rimase sgombra. Poco dopo, però, ripresero ad avanzare, dall’alto e dal basso, come se non fosse successo nulla, come se quella terribile strage che aveva colpito il loro formicaio fosse stato appena un episodio trascurabile nella loro storia. Stavo per ricominciare a bruciarle, quando sentii sulla spalla la pressione della mano del caporale.
— Fai la guerra alle formiche? Prima volevi farla agli avvoltoi e adesso la fai alle formiche?
Girai la testa di scatto. Lui si sbatté il berretto con forza contro la coscia, come per sgrondarlo dell’acqua, e se lo rimise in testa, ben calcato sugli occhi. Non capii se era arrabbiato o divertito. Poi, chissà perché, si tolse di nuovo il berretto e tornò a sbatterselo contro la coscia. Rideva. E rideva in un modo strano, finto, falso, innaturale. Una ruga gli attraversava la faccia, come una cicatrice. Siccome teneva la bocca aperta per ridere, gli si vedevano le due file di denti gialli di nicotina.
— La guerra agli avvoltoi, la guerra alle formiche! — disse. — Sei davvero un gran combattente! L’orgoglio dell’esercito!
Sentii l’impulso di ammazzarlo. Strinsi l’arma con entrambe le mani. Lui mi guardava attraverso quelle due fessure strette dei suoi occhi di meticcio. Me li teneva fissi addosso, quegli occhi di serpente. Mi leggeva in faccia la mia paura, ne ero sicuro.
— È dura la naja — disse. — Non va bene né per i buoni né per i fessi. E nemmeno per i froci e i frocetti. Solo chi ha le palle ci resiste.
Disse proprio così: Solo chi ha le palle ci resiste, e mi mostrò la punta della lingua, facendola vibrare tra i denti come la lingua di un serpente. Strinsi l’arma fino a farmi male alle mani. Lui continuava a guardarmi attraverso quelle due fessure, come un serpente, facendo vibrare la lingua.
— Adesso vedrà chi ha le palle! — gridai.
Scoppiò a ridere ancora più forte, questa volta senza sforzarsi, con una risata che gli venne naturale, quasi allegra. Non mi prendeva sul serio. Rideva, oscillando la testa, proprio come un serpente.
Mi lanciai contro la porta della baracca, la spalancai con un calcio. — In piedi! — gridai con una voce che non riconobbi, completamente diversa dalla mia. I quattro, seduti in terra, si piegarono di lato, terrorizzati, affondando la faccia nel fango puzzolente, nella loro merda, come cani. Non erano uomini come voi e come me.
— In piedi! — gridai ancora una, due, tre volte, meravigliandomi del suono della voce che mi usciva dalla bocca, che non sentivo più come mia. Sfoderai il pugnale e tagliai le corde che li tenevano legati. Li alzai dal pavimento a calci, eccitato dal terrore che provocavo in loro.
— Fuori! Fuori di qui!
Restarono bloccati sulla porta: il vuoto che c’era in mezzo, fra la baracca e i primi alberi, doveva dargli le vertigini, si tenevano lo stomaco come se stessero per vomitare.
— Avanti, di corsa!
Si avviarono, incerti, sbandando.
— Di corsa, ho detto! Di corsa!
Quando furono a dieci passi, cominciai a sparare. Sparai una prima raffica in alto, al di sopra delle loro teste, quindi gridai: — Alt!, per fare le cose seconde le regole, come le avevo imparate durante l’addestramento. Ero stato una recluta precisa e applicata. Non si fermarono al mio alt. Quando avevano sentito la raffica, avevano cominciato a correre alla disperata, chi da una parte chi dall’altra. Abbassai il tiro. Il primo diede l’impressione di spezzarsi in due e stramazzò a faccia avanti in una pozzanghera, il secondo cadde lentamente, girandosi, mentre cadeva, con un’espressione di incredulità sul viso, mentre il terzo restò in ginocchio, piantato in terra, ma il quarto cominciò a correre a zig zag mulinando le braccia come per respingere i proiettili, e finii il caricatore prima di riuscire ad abbatterlo. Ma questo era come se avvenisse in un sogno, perché, come succede nei sogni, mi vedevo prendere la mira e sparare, vedevo addirittura la mia faccia contrarsi spaventata da quello che stavo facendo, come se mi fossi sdoppiato e una parte di me osservasse l’altra senza riuscire a credere che quell’altra stesse davvero facendo quello che le vedeva fare. Tutto durò meno di quanto ci ho messo a raccontarlo, e immediatamente mi ripresi. Non stavo sognando. I quattro cadaveri erano lì, stesi sull’erba, in pose scomposte.
— Bene — dissi, senza che la voce mi si incrinasse, e sputai la cicca che avevo tra le labbra. — Hanno cercato di fuggire, non si sono fermati all’alt, gli ho applicato la ley de fugas.
Dissi questa frase con voce ferma e controllata di adulto. Mi sentivo cresciuto agli occhi dell’anziano, più alto di lui, più maschio di lui.
Mi guardò, con calma simpatia, e mi strizzò l’occhio, per la prima volta da uomo a uomo, da camerata a camerata. — Allora ce ne possiamo andare, — disse, allungandomi il pacchetto di sigarette. — Gli andiamo incontro, li aspettiamo al traghetto. Non ci si può sbagliare. Gli abbiamo tolto il fastidio di fucilarli: sarà contento, il capitano, ci puoi scommettere!
Allora non riuscii più a trattenermi. Era già da parecchi minuti che mi veniva su, su dalla pancia, dallo stomaco, come un brivido, un movimento ondulatorio che non riuscivo più a frenare, che voleva sboccare, venire fuori liberamente. Come quando hai male alla pancia, ti contorci, ti storci, ma alla fine non ce la fai più a trattenerti e ti liberi. Mi venne su, la risata, come un convulso, per quanto cercassi di reprimerla, non sapendo come l’avrebbe presa il caporale, sempre così serio, lui così diretto allo scopo, anche quando rideva. Mi battei con la mano aperta sulla coscia, con un gesto che avevo imparato da lui.
— Ma pensa tu, — dissi, non rivolto al caporale, ma a me stesso, mentre mi colavano le lacrime dagli occhi. — E ci avevano creduto, che li lasciavo liberi di andarsene! Ma pensa tu che razza di scemi!

Intenso e crudo ritratto della vita militare, della disumanizzazione e della violenza che spesso accompagnano i conflitti. Il linguaggio è diretto e viscerale. La situazione di un giovane soldato, costretto a confrontarsi con la brutalità della guerra, la solitudine e il senso di abbandono.
Il soldato, inizialmente mosso da un senso di compassione e solidarietà verso i prigionieri, si ritrova progressivamente intrappolato in una spirale di violenza e disumanizzazione.
La scena finale, in cui il soldato spara ai prigionieri in fuga, è un momento di svolta tragico: il protagonista, pur consapevole dell’ingiustizia, si adegua alle regole del gioco, perdendo definitivamente la sua umanità.
Il testo è un potente commento sulla guerra e sui suoi effetti devastanti sull’animo umano, mostrando come anche le persone più empatiche possano essere corrotte dalla violenza e dalla disperazione. La scrittura è efficace nel trasmettere il senso di oppressione e di inevitabilità, lasciando il lettore con un profondo senso di angoscia e riflessione.
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