L’IDEA MAREMMA

di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦

S’apre col mare, si chiude con le colline.

S’apre con le sabbie bagnate dal mare.

Si chiude con le prime colline là dove monta il sole.

Contraddittoria spazio dove agli acquitrini affollati di giuncaie e canneti palustri con un suolo screpolato e tanto avaro da sconsolare il cuore segue, come per balzo d’orgoglio, il rigoglio della terra che si fa prateria generosa per bovi e per branchi di pecore transumanti.

Maremmamalaria,  mala piaga dei povericristi segnati nella loro vita dalla perniciosa che l’ingenua ignoranza del tempo la pensava aria cattiva, fetido miasma, effluvio d’acqua stagnante.

Già a poche decine di metri dalla bàttima ti trovavi a fronte della salicornia l’arida regina della sabbia e ai primi cespugli isolati del ginepro dalla carnosa coccola. Sotto la sferza del marino, dal fiato ricco di salsedine, sopravviveva l’erica, la scopa sua cugina di sangue, i fitti arbusti di ramerino rugiada del mare e di cisto e di fillirea e di ginestra oro vegetale.

Per non offrir troppo il fianco a quell’alito salato si tenevano bassi e a ridosso della spalliere degli arbusti i primi miseri orti poderali.

 Ma bastava poco per esser circondati dal ramosissimo lentisco foglia glabra, dall’alaterno frutto rosso, dall’olivastro drupa scarna. Sempre più il fitto ti accoglieva quando guadagnavi l’interno, fino ad arrivare all’impenetrabile forteto dove lo strappabrache la faceva da padrone assoluto.

 A meno d’un miglio dal mare penetravi nelle leccete con il loro sottobosco di corbezzolo simbolo del tricolore, di alloro caro al mito, di mirto sacrale, di lentaggine tripudio delle api, di lillatro, d’asparago selvatico, di malva regina di infusi,  di ranuncolo protettore di seduzione, di pungitopo, di mortella, di marruca, di flessuosa vitalba bianca vite. Un tempo in queste vaste leccete dimoravano rugose sughere che offrivano, compassionevoli, nutrimento ai porcastri agili nella corsa. Il nero dell’elcio,  il rossastro della sughera, la fiamma dell’acero, il cenere dell’olivastro, l’incarnato del perazzo, il candore dell’asfodelo giglio dei campi  tentavano come potevano di alleviare quel sempreverde dominante, ma era sforzo vano.

Il popolo di maremma era vario, più vario di bestie che d’umano. Tra gli abitanti del cielo tanti gli stanziali ma molti i pellegrini che fuggivano da lande lontane per il troppo sole o per il troppo gelo. E le doppiette attendevano solerti quando i volatili stremati picchiavano dritti sulle dune dopo il lungo tragitto. Che cosa sarebbero stati i cieli di maremma senza quel palpito d’ali degli storni, delle beccacce, dei tordi, delle quaglie, delle lodole frullanti. Che cosa triste sarebbe stato lo scoppio della primavera, che faceva seguito al tetro grigiore invernale, senza la polifonia del canto, del trillo, delle multiformi melodie dei campi o dei lunghi colloqui e dei teneri richiami da poggio a poggio. 

Questa la maremma di Tuscia diradata nelle bandite, nelle lestre, nei pianori per far di posto, qua e là, al coltivato, al maggese, al turno di quarteria e ai pochi casaloni affiancati dalle muccherie e contornati dalle malconce staccionate con al centro il lungo fontanile che ospitava acqua quasi sempre salmastra. Ma oggi il dirado è norma ed atto di imperio e la macchia rarità precaria.

Da tempo il vero maremmano ha scelto altro luogo. Da tempo il ricco forestiero tronfio della sua magione, casale rivestito a villa, s’illude d’esser in maremma. Da tempo questa terra è preda di investimenti energetici.

Ma la maremma, come il suo antico residente ha anch’essa emigrato, con sue bestie, i suoi alberi, i suoi arbusti, i suoi modi di essere. Il luogo geografico è tale ma in quello spazio l’anima s’è involata già prima del  tramonto. Viene alla mente la “scomparsa delle lucciole” di pasoliniana memoria quale metafora di un profondo mutamento dei valori identitari.

Eppure…Eppure esistono le tracce, le orme, le ombre indelebili di ciò che fu maremma. E’ la disposizione dell’animo, è il saper organizzare il pessimismo l’estrema possibilità di far “sopravvivere le lucciole”, malgrado tutto.

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Squallidi personaggi inquietano i nostri giorni. L’incertezza delle certezze pone tutti noi in bilico. Sempre più dobbiamo assistere, carichi di età, al regresso della dimensione basata sul “ciò che è” in un deprimente aumento valoriale del “ciò che ha”. Forse il tramonto si capovolgerà in una rinascita. Proprio nel momento del rischio si può manifestare ciò che salva. Forse le lucciole ritorneranno a sciamare.

Tuttavia, fra non molto è primavera. Facciamoci investire da quel miracolo di rinascita che è la natura. La natura semplicemente di fronte a noi, nella città, nella campagna, nel litorale. Ognuno ha la sua natura da osservare e da elogiare. Per un momento sospendiamo il peso del futuro.  

CARLO ALBERTO FALZETTI