LO STATO NASCENTE DEL TRUMPOPULISMO

di NICOLA R. PORRO ♦

Con il trascorrere delle giornate si è inevitabilmente ridimensionata l’eco della brutale intemerata in mondovisione cui il 28 febbraio us Donald Trump ha sottoposto il presidente ucraino Zelensky. Eppure sarebbe bene non rimuovere quell’episodio e non ridimensionarne il senso e la portata. Gli studiosi della comunicazione sociale lo hanno interpretato come una brusca accelerazione di quel degrado del discorso pubblico che ha dato forma a una sorta di populismo della parola. È a tutti chiaro, del resto, come l’operazione comunicativa fosse stata accuratamente preparata. Quello che andava messo in scena era un vero e proprio rito di degradazione di un (presunto) avversario. Esso doveva non solo gratificare l’ego ipertrofico di una personalità vendicativa ma anche lanciare un ammonimento ad amici e nemici: il trumpismo si identifica senza riserve e senza esitazioni con la filosofia dell’amico/nemico che fra le due guerre del Novecento aveva trovato espressione compiuta nel pensiero di Carl Schmitt (1888-1985). Questo pensatore reazionario, nutrito di una visione della politica disincantata sino al cinismo e dichiaratamente estranea all’etica della democrazia – una sorta di machiavellismo in versione teutonica – ispira una rappresentazione del potere perfettamente conforme alla visione di un personaggio come Trump (che di Schmitt probabilmente ignora persino il nome). L’ospite andava trasformato in un reprobo da esporre al ludibrio planetario: un colpevole privato persino del diritto di difesa, un suddito ingrato, un “nemico”. La teatralizzazione del rancore e della forza – tratti costitutivi della personalità autoritaria magistralmente descritta nel 1950 da Theodor W. Adorno – non mira a ispirare simpatia e ad acquisire consenso. Deve incutere paura e annunciare vendetta senza indulgere alla liturgia del bon ton e del politicamente corretto. È la versione hard del teatrino della politica di berlusconiana memoria. A differenza del magnate di Arcore, però, il presidente americano non insegue il consenso: lo pretende. Si considera un unto del Signore a mano armata, perfettamente rispondente alla figura del “prescelto” proposta dal politologo Yascha Mounk nel suo Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale (Milano, Feltrinelli 2018). Proprio Mounk, d’altronde, aveva lucidamente previsto il degrado della democrazia che si sarebbe materializzato negli Usa con il ritorno di Trump. Si tratta, ci aveva spiegato il politologo americano, dell’effetto di ritorno di una strisciante disaffezione per la democrazia che sembra serpeggiare negli Usa e in molti Paesi europei. I crescenti consensi per i partiti di estrema destra e per i populismi rappresenterebbero un chiaro indicatore della “degenerazione del discorso politico” che ha fatto seguito, in Europa e negli Stati Uniti, alla crisi economica dopo il Covid. Con la ripresa economica post-pandemia, infatti, non è venuta meno la richiesta di costruire muri, di respingere i flussi migratori e di ripristinare misure protezionistiche più severe. Il legame fra liberalismo e democrazia sembra essersi eroso o, quanto meno, essersi rivelato non indissolubile come credevamo. La stessa sovranità del popolo – pilastro portante di qualsiasi democrazia – pare di nuovo in discussione ed è significativo come Mounk ne trovi conferma proprio nel caso italiano dove il Movimento Cinque Stelle e la Lega di Salvini avrebbero, secondo lui, non solo modificato gli equilibri della politica italiana ma minato a più ampio raggio le regole stesse della partecipazione democratica nei Paesi occidentali. Un quadro che si fa inquietante se lo colleghiamo al ritorno di Trump. Come negli Usa di Trump, infatti, nell’Italia dei nuovi populismi le istituzioni si riempiono di milionari e di tecnocrati, mentre i successi di Orbán in Ungheria, di Erdoğan in Turchia e di Kurz in Austria potrebbero annunciare un’involuzione democratica preludio a sua volta di un’inedita tirannia della maggioranza. In altre parole, a differenza dei tradizionali regimi autoritari, i cittadini conserverebbero i diritti civili e le libertà economiche ma verrebbero via via esclusi dalla vita politica: “Ci sono lunghi decenni – scriveva Mounk già nel 2018 – in cui la storia sembra rallentare fin quasi a fermarsi. E poi ci sono quegli anni brevissimi in cui tutto cambia di colpo. Un sistema di governo ritenuto immutabile sembra sul punto di andare in pezzi. Un momento simile è quello in cui ci troviamo ora.” Il riferimento a Trump è esplicito e rappresenta un efficace idealtipo del leader postdemocratico: un despota che sopporta con fastidio le regole del gioco democratico rispettandole formalmente ma erodendole nella prassi quotidiana. La questione non va  ridotta allo stile comunicativo della vulgata trumpiana o all’esibizionismo narcisistico che si è manifestato nel rito di degradazione inflitto a Zelensky in mondovisione per essersi rifiutato, cinque anni prima, di rendersi complice di una campagna di calunnie allestita ai danni di John Biden, all’epoca competitor di Trump per la presidenza. Questo approccio psicologistico è del tutto legittimo, ma rischia di ridurre un’indebita idea proprietaria e “privatistica” del potere al puro profilo caratteriale  di una personalità egocentrica. Dobbiamo invece sforzarci di analizzare soprattutto le inquietanti ricadute politiche delle parole che il  Presidente americano ha dedicato alla questione cruciale della difesa comune. Essa riguarda principalmente noi europei che il presidente-monarca insediato alla Casa bianca sembra intenzionato a privare dell’ombrello militare difensivo Usa, giudicato troppo costoso e dissonante con la politica filorussa inaugurata dallo stesso Trump. Il quadro che si viene componendo in relazione alla guerra ancora in corso in Ucraina e alla complicata e irrisolta questione mediorientale, evoca così una metafora coniata anni fa dal politologo Robert Kagan paragonando a Marte la potenza militare Usa e a Venere la pacifica Europa, beneficiaria a basso costo della protezione del muscoloso potente alleato. [1]

Sarebbe insomma giunta l’ora, per Trump e i suoi, di abbandonare l’ingrata Venere al proprio destino riservando l’impiego della spada di Marte ad altri più remunerativi interessi.

Al di là di un pugno di pacifinti o di pacifisti “a prescindere” – gli opinionisti inclini a identificare la pace con la resa a discrezione alle ragioni del più forte – si è così imposta una riflessione più impegnativa circa la necessità di una difesa europea che riguarda quattrocentocinquanta milioni di cittadini appartenenti a quei ventisette Paesi che, per la prima volta negli ultimi secoli, hanno goduto di otto ininterrotti decenni di pace. Allo scopo, un esponente del gruppo “Verdi e progressisti” al Parlamento Europeo, il lettone, Andris Šuvajevs, ha suggerito ai governi progressisti, dalle pagine Social Europe, di promuovere senza indugi un programma per la difesa comune. [2] Di fronte a due guerre combattute alle porte dell’Europa comunitaria, all’offensiva neo-imperialistica della Russia putiniana e al dichiarato disinteresse per i destini europei della presidenza Trump, i governi UE di qualsiasi colore non possono che impegnarsi, secondo Šuvajevs, a reperire nuove e più ingenti risorse per la difesa comune cercando di limitarne i contraccolpi sulla spesa sociale. Il sistema di welfare europeo – il più evoluto del mondo – non può infatti essere messo a repentaglio rischiando di compromettere l’ordine democratico a beneficio dei populisti di ogni colore e di una destra radicale in preoccupante ascesa. A complicare la situazione, tuttavia, sta il fattore geografico. La maggior parte dei Paesi più ricchi e più militarmente attrezzati della UE, infatti, sono situati nell’area occidentale dell’Unione, a grande distanza dai teatri di crisi. Una consistente crescita delle spese militari potrebbe essere così osteggiata dalla propaganda populista – in Italia Salvini ha già cominciato a suonare la grancassa –  trovando ascolto in settori dell’opinione pubblica preoccupati soprattutto di subire aggravi fiscali e una contrazione delle prestazioni sociali. Comprensibilmente, è del tutto diverso il quadro offerto dalle rilevazioni condotte nei Paesi nord-orientali della UE. Dalla Finlandia alla Polonia un possibile aumento del cinque per cento del prodotto interno lordo da destinare alla spesa militare è accettato con poche riserve. Prevale insomma l’incubo russo che si è già materializzato con le vicende di Ucraina e un possibile riarmo degli eserciti nazionali è accettato senza riserve riponendo fiducia nel sostegno della Gran Bretagna e dei maggiori Paesi comunitari. Desiderosi di raggiungere presto gli standard socio-economici dei principali Paesi UE, i nostri “compatrioti orientali” si vedono però costretti a impegnare per la difesa risorse che avrebbero voluto destinare a costruire infrastrutture e a garantire livelli più elevati di protezione sanitaria e di qualità della vita. Le spese per la difesa, inoltre, accrescono il debito pubblico e il prelievo fiscale, rendendo squilibrato il rapporto fra investimenti sociali e spese militari a beneficio di queste ultime. La stessa Unione Europea non è però del tutto esente da responsabilità, come dimostra la resistenza di Francia e Germania a metter mano ai propri iniqui e malridotti sistemi fiscali quando una maggiore flessibilità tributaria potrebbe alleviare di molto gli oneri finanziari imposti dal potenziamento della difesa comune. Spetta perciò soprattutto alle forze progressiste affrontare con determinazione la questione della fiscalità. L’irruzione della pandemia, gli effetti inflazionistici indotti dalla guerra e la fragilità mostrata nell’emergenza dai maggiori attori economici UE hanno impietosamente evidenziato le criticità di un intero sistema. Alcuni Paesi baltici, potenziale prima linea del fronte orientale a ridosso della Russia di Putin, hanno già dovuto innalzare al tre e mezzo percento la quota di Pil destinata alla difesa. Lituania e Lettonia si sono imposte una severa disciplina di bilancio tentando di contemperare incremento della spesa militare e politiche di sostegno finanziario alle famiglie. Lo scenario globale, peraltro, non è rassicurante. L’ondivaga politica estera degli Usa a guida trumpiana spaventa i Paesi comunitari dell’Est mentre l’Unione Europea è alle prese con una forzata conversione del modello produttivo. Lo stesso export tedesco non agisce più da locomotiva, minacciato com’è dalla fragilità del sistema commerciale e dalla sempre più aggressiva concorrenza cinese. Non paradossalmente, proprio l’incremento annunciato delle spese militari a fronte della minaccia russa rischia così di rappresentare per l’Unione Europea il principale elemento di sostegno al sistema industriale. Volenti o nolenti, i progressisti dovranno sporcarsi le mani con questioni in scarsa sintonia con la loro cultura politica. E dovranno agire prima che l’estrema destra cavalchi a proprio vantaggio la tigre della paura. Ciò non significa subire l’approccio a somma zero proprio del centro-destra: non è vero che si debba scegliere fra assistenza sociale e difesa. Se unifichiamo il mercato dei capitali – si chiedono autorevoli economisti anche di area liberaldemocratica – perché non farlo anche per le politiche della difesa facendo ricorso a strumenti fiscali simili a quelli adottati per fronteggiare la pandemia? Ciò permetterebbe, in una prospettiva non remota, di concretizzare il progetto di un debito comune europeo. Solo condividendo rischi, opportunità, risorse e capitali l’Unione europea potrà uscire rafforzata dalla lunga crisi strisciante che sta vivendo. L’unica alternativa consisterebbe nel promuovere alleanze “di scacchiere” fra singoli Stati dell’Unione senza rinnegare l’appartenenza comunitaria e la sua visione strategica. Quella che stiamo vivendo, con un quadro internazionale denso di incognite e con un sistema Europa chiamato a farsi protagonista di una stagione densa di incognite e di rischi, appare comunque una sfida alla quale non potremo sottrarci.

NICOLA R. PORRO

[1] R. Kagan, «Power and Weakness. Why the United States and Europe see the world differently», Policy Review, No. 113 (June and July 2002).
[2] Andris Šuvajevs, How to Finance European Defense?, Social Europe del 21 febbraio 2025.